Fare come se nulla fosse?!
Quando faccio irruzione nella sala cinema dell'area comune ho addosso gli occhi di tutti.
Quelli straniti dei pazzerelli affidati alle mie cure, quelli sconvolti di Marco. Per essere precisi, tra quelli straniti dei pazzerelli devo registrare la voce "velatamente eccitato" nel descrivere lo sguardo di Marina.
Chiaro: non la vedi tutti i giorni un'infermiera ordinaria, scapigliata da turno di notte e col caschetto in disordine, con occhialoni di sicurezza ancora sul viso, colare sangue sul camicione verde e sugli zatteroni da corsia blu elettrico.
Roba da Troma edition, roba da fumetto splatter d'essai. Non era ricercato, come effetto, ve lo assicuro. Né studiata, come entrata in scena.
Sono un grumo di ansia, un groviglio ammatassato di panico.
Sono un buco nero di terrore sul punto di collassare, implodere su se stesso e prodursi in un'incontrollata esplosione di pianti, urla isteriche e singhiozzi.
Le scosse sismiche di tremori, non so come, le trattengo a fatica nel coccige e in quella matassa strizzata che deve essere, allo stato attuale, il pacco del mio intestino tenue.
Perdonerete se non è tecnicamente quello che ci si aspetta al risveglio, dover barattare la propria vita con robuste dosi di adrenalina, strizza, botte su botte, teste e rotule spaccate.
Vorrete essere comprensivi, spero, con quella che credevate una supereroina del cazzo da film d'azione multisala e mille milioni d'incassi: di sicuro, se sono riuscita a descrivere bene quel che è successo fino ad ora, a nessuno di voi verrà in mente che avrei potuto reagire con un minimo di atteggiamento british e compassato in più.
Faccio qualche passo verso Marco.
Sorrido, ma di sicuro mi viene male, verso i cinque ospiti: "Ehi pazzerelli, va tutto bene, solo un attimo, aspettate qui, devo parlare un secondo con Marco..."
Provarci, almeno, perché ora che Marco è di fronte a me, mi rendo conto di non riuscire a ignorare la paura e le domande che montano nella testa di quei cinque disgraziati in fondo alla sala, terrorizzati da quel che vedono, nel panico più totale per quello che ancora non sanno, per quelle urla, quei rumori terribili che venivano fino a pochi istanti fa dal piano superiore, dal cuore sicuro di questa struttura.
"Che succede Sonia? Come sta Vincenzone? – Alberto rallenta nelle parole, sembra una macchinina a cui sta finendo la carica, ha paura e si capisce da come le parole avanzano incerte fino al nome, per poi riprendere veloci, sempre cantilenate e con quel tono fastidiosissimo, ma rapide, quasi incontrollate – Perché Vincenzone non è sceso?"
Ignoro la domanda e non mi accorgo che Alberto, a passi lenti, si avvicina a me e Marco.
"Ascoltami, ascoltami bene – mi rivolgo al vigilante, terrorizzato molto più di quei cinque poveracci – qui sta succedendo un casino biblico e spiegartelo mi risulta un po' difficile, qui... adesso tu con una scusa..."
"Sonia? Sonia perché Vincenzone è ancora su? Che cos'ha che non va?"
Alberto continua a incalzare. Io non so che dire, non so cosa rispondere. Avverto i passi del down in avvicinamento come una pressa, la classica parete del corridoio stretto che si avvicina sempre di più togliendoti l'aria.
Claustrofobia, ogni passo un metro quadro che va via.
"Alberto, aspetta, tranquillo... Vincenzone non sta bene, sta fermo lì..."
"Ma tu sei sporca di sangue che è successo?"
"Alberto, cazzo stai fermo lì..."
"Ma perché sei sporca? Perché Vincenzone..."
Esplodo, incontrollata, la mazza che vortica tra le mani e finisce puntata verso la faccia del ragazzo, a pochi centimetri dal suo naso e da quell'espressione che non è tenera, non m'impietosisce, in questo momento mi sta solo tremendamente sul culo.
"Stai zitto cazzo, mongoloide. Stai fermo lì, vattene nell'angolo e cazzo, muti, aspettate qui!"
Marco si fa coraggio e mi afferra il polso, portandolo giù a riposo. Sussurra piano.
"Oh, Sonia, calmati cazzo..." ma trema, non ci crede nemmeno lui.
Alberto, testardo e orgoglioso resta fermo.
Mi fissa con uno sguardo severo, serra il muso, vorrebbe piangere dietro le lenti spesse da talpa, con le lacrime che si annidano a grappoli dietro le palpebre a mandorla.
"Sei cattiva, mi hai fatto male..."
Fa un passo indietro, tenendomi gli occhi fissi addosso. Io li guardo quegli occhi, fissi nei miei. Non mi pesano, come so che forse faranno nelle prossime ore. Mantengo una posizione di fermezza, severa.
"Per favore, tutti, fate come vi ho detto io: prendiamo le prime medicine che vado a preparare adesso e poi andiamo a fare colazione e cominciamo la giornata. Vi prego, fidatevi di me e non fate domande."
E' Donato a ribattere, prima che Alberto protesti anche lui: "Siamo ancora in pigiama, non va bene! Io vorrei vestirmi, lo dice sempre il dottor de Palma: igiene, vestirsi e poi terapie e colazione. Ciondolare con la faccia del sonno e i vestiti da camera non fa bene..."
Ripete come un disco rotto le parole dello psichiatra.
Mi fa paura per quello, questo ambiente.
Ti rendi conto di come un po' di carisma, le tecniche giuste e qualche farmaco riescano a riprogrammare la gente, almeno per grandi porzioni di quel che compone la gente.
Frugo infondo al buon senso strappandogli una risposta di mano prima che quel buco nero che sta succhiando via tutto imploda irreparabilmente.
Non so da dove lo cacci fuori, tutto questo spirito collaborativo.
Di colpo mi faccio serena e volitiva.
"Certo Donato, hai ragione, ma vedi c'è un piccolo cambio di programma che non guasterà nulla: il dottor de Palma e le psicologhe oggi arriveranno un po' in ritardo, verso le dieci, quindi dobbiamo rielaborare assieme, in una bella riunione, i tempi della giornata. Se mi dai cinque minuti per preparare le terapie, cominciamo subito!"
Faccio un sorriso.
Marina mi fissa, scoppia a ridere: "Che troia che sei! Tu ne sai una più del diavolo brutta puttana..."
Marina non è pazza.
Quel sorriso le si è acceso in faccia appena ha notato quel repentino cambio di registro. Alberto è l'unico a non essersi sistemato, ancora, in fondo alla sala. Mi fissa con quegli occhietti severi. Il labbro sbatte, i denti tintinnano per la rabbia e l'angoscia.
"Io collaboro ma voglio tu mi chiedi scusa! Mi hai fatto male! Io non sono un mongoloide..."
Fisso Alberto, abbasso gli occhi. E' falso non ci sia una parte di me che non sente il bisogno di chiedergli scusa. Ma le parole che gli regalo adesso, ora, sono finte e forzate.
A lui bastano.
Io so che, forse, lo avrei fatto dopo, sicuramente con più sincerità.
"Hai ragione Alberto, sono stata cattiva e offensiva, sono stata ignorante, ma Vincenzone sta male ed io ho fretta di sistemare il suo problema, tu continuavi a parlare io mi sono agitata... sì, hai ragione, ti chiedo scusa."
Alberto annuisce, poco soddisfatto, ma convinto.
Fa qualche passo indietro fissandomi ancora severo, poi con un "Ti perdono... " mi volta le spalle e torna con gli altri alle prime poltroncine.
Marco mi molla il polso mentre Marina continua a insultarmi.
"Avanti puttana troia... non ce lo dici che sta succedendo? Vai a preparare i sedativi e ci metti tutti a nanna?"
Le sorrido in modo sfacciato e provocatorio.
"Non tutti, solo te, se non la smetti. Senza medicine, non ne ho bisogno: ti spacco la testa con questa se preferisci, ok puttanella viziata?"
Marco non si muove, credo che questa ennesima sortita, questo nuovo cambio di registro lo abbia spiazzato.
In circostanze normali dovrei tenere tutta un'altra etichetta.
In circostanze normali un comportamento del genere, riferito a un supervisor, per politica aziendale comporterebbe il mio allontanamento immediato dal posto di lavoro, con lettera di demerito a seguirmi a vita e minare irrimediabilmente la mia carriera.
Nemmeno come segaossa dal peggiore dei veterinari d'ufficio mi prenderebbero più, per timore bastoni qualche chihuahua incompreso e canterino.
Tecnicamente, però, mi auguro le condizioni particolari della giornata valgano da attenuanti generiche, sempre che lì fuori ci sia ancora qualcuno.
Sarà il sangue sui vestiti, sarà il netto cambio di registro, sarà che quel tono con Marina è un inedito totale: la stronzetta viziata si calma.
Muove due passi indietro, abbassa lo sguardo dai miei occhi alla mazza, alla punta della mazza, ai miei piedi.
Indietreggia, si volta di spalle. Si mette muta.
"Marco, vieni di là con me ad aiutarmi con le medicine?".
Richiudo la porta di sicurezza alle spalle, a chiave.
Cammino spedita verso la medicheria, faccio entrare Marco e mi chiudo la porta alle spalle, serrandola.
Dal piano di sopra i tonfi assordanti di Vincenzone contro le ante di acciaio. Scivolo di schiena contro la porta a sedermi a terra. Stringo la mazza al petto. Il pianto esplode, irrefrenabile, incontrollato, di singhiozzi e urla.
Marco non mi crede, né sulle prime né sulle seconde.
"Sonia, smettila di raccontarmi stronzate che cazzo è successo lì su?"
L'ho capito, l'ho capito fin troppo bene: lo stronzo è convinto che io abbia dato di matto e abbia aggredito Vincenzone a colpi di mazza da baseball.
Continuo a ripetergli di andare su, da solo, a controllare.
Non riesco a muovermi, riesco solo a piangere e smoccolare, sbavare.
Non controllo i tremori, non voglio mi si tocchi.
Mi sono rintanata dietro la scrivania, mettendo una barriera tra me e lui.
"Cazzo, sali, sali e guarda tu stesso dai vetri. Dimmi se quello che vedi è normale. E se hai le palle, entra, ragionaci tu e va a vedere se quel che trovi in bagno è normale...".
"Cosa c'è nel bagno?" chiede ancora incredulo Marco.
Gliel'ho detto e ripetuto, ma rimuove, cancella ogni volta i dettagli inaccettabili della vicenda.
"Hai rotto il cazzo Marco, hai rotto il cazzo va a vedere se non è come dico. Va a vedere se quel bestione non s'è trasformato in quello che ti dico."
Io i colpi che l'omone sta sferrando sulla porta di sicurezza non li sento quasi più, non mi scuotono, non ci faccio più caso. Marco trasalisce ogni volta.
"Allora senza palle, ci vai a toglierti questo dubbio o vuoi rimanere convinto che sia io la causa di tutto questo bordello? L'ho capito, cosa credi!"
Marco annuisce in silenzio.
Mi fissa.
"Io sto salendo, Sonia..."
Lo guardo piangendo disperata.
"Non aprire, non aprire quella cazzo di porta..."
Lo vedo slacciare la fondina. Almeno!
Trema mentre apre la porta, sento i suoi passi su per le scale. Mi basta quel che sento dalla sua voce: "Porco cazzo..."
Ritorno a piangere, adesso più serena. Un pianto disperato, senza terrore. Dirmi che c'è qualcun altro, sano di mente, che ha visto quel che ho visto io, forse basta a calmarmi un po'.
Io, però, lo so per cos'altro sto piangendo.
È quell'idea che si è infilata in testa come un tarlo da qualche minuto, che pompa e si fa più grande e ingombrante mentre guardo lo scaffale delle medicine. Più grande, più ingombrante, totalizzante. La risposta che non voglio darmi, non ho il coraggio di condividere nemmeno con me stessa alla proverbiale domanda.
"E ora che si fa?".
**Nota dell'autore: Inutile ricordarvi che noi autori artigiani abbiamo un solo modo per far conoscere in giro le nostre storie. Il passaparola dei lettori che hanno amato le nostre parole è uno dei migliori. Qui su Wattpad ti basta inserire questa storia in elenco lettura - credo poi che se ti piace quel che hai letto, la cosa dovrebbe anche tornarti utile :)
Oltre a questo, potresti pensare di lasciar una stellina qui sotto... Quella ci aiuta a restare alti in classifica
Se però hai davvero voglia di fare qualcosa di grande, il top sarebbe lasciarmi un commento. Non perchè mi piaccia sentirmi dire "Bravo!"... ma perchè se quel commento è una tua riflessione su quello che hai letto, su un particolare che ti ha colpito, su qualcosa che secondo te andrebbe cambiato... le mie storie future faranno tesoro anche di questo e non potranno che dirti grazie.
Buona lettura e grazie comunque di essere passato.
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