Dov'ero e cosa facevo la notte scorsa?


Rispondere a questa domanda è molto semplice: ero e facevo tutt'altro.

Di certo non ero lì a cercare di trattenere il respiro dietro una semplicissima, banalissima porta di legno, chiusa in un bagno per disabili certificato ISO 9001:2008, con la sensazione per nulla confortevole che da qualche parte, al mio piano, dietro questa porta, un coso di unmetreottanta per unquintaleventi con la gola squarciata sia tornato in vita per divorarmi e trasformarmi in qualcosa di molto simile a lui: un non-proprio-morto che cammina.

Aspetta: non si chiamano zombie quelli che tecnicamente non sono proprio morti, camminano e agognano alla tua carne?

Sì, ma chiamarli zombie non mi viene proprio.

E so benissimo perché non mi viene: mi sembra tutto così finto se penso alla signora Linda Buozzi come uno zombie. Certo, il tutto mi regala l'allettante prospettiva di essere una Milla Jovovich della mutua.

E della mutua, tecnicamente lo sarei già.

Ma assieme a galvanizzare il mio ego estetico, m'impone sottilmente la strana e curiosa sensazione di essere in un videogioco, con tentativi infiniti, possibilità di salvare la partita e riprendere quando voglio, assentandomi dalla vita reale.

Zombie e tutta questa roba qui non fanno rima.

E se non trovo immediatamente un nome diverso per chiamare questi non-proprio-defunti che ciabattano in lungo e in largo per i corridoi di residenza Dopo di Noi – Villa Sole, ho la sensazione di essere davvero fottuta.

Non andrebbe bene morti ciabattanti? No, decisamente no. Troppo lungo. Mentre penso alle parole non, troppo, morti e ciabattanti, per quanto lenti e scomposti, mi hanno già preso e divorato.

Moribondi ciabattanti? Beh sì, decisamente sì, ma posso fare di meglio.

Guardate, davvero, se proprio non vi va di ascoltare questa digressione personalissima, vi prego, saltate a piè pari oltre tutta questa discussione.

Che ci crediate o no, guardate, sono sensibile a questo discorso del trovare il nome per collocare qualcosa nel posto giusto della mia esistenza e del mio sentire. Ah sì, inoltre, non so a voi, ma a me decisamente questo esercizio regala una sensazione di distensione.

Non ci credete? Provate a sentire il mio respiro adesso? Prima era così forte, ricordate?

Forte da non riuscire neppure io a cercarlo, forte da non sentirlo e dover far rincorrere ogni inspirata dalla successiva, fregandomene di quando espirare, che l'aria nei polmoni sembrava sempre troppo poca.

Adesso, meditabonda sul nome e cognome proprio di questi moribondi ciabattanti, vedete, il respiro si è proprio calmato. Mi sudano meno anche i palmi delle mani e questo, di sicuro, tra qualche minuto potrà tornarmi utile.

A scuola ero brava, bravissima con i giochi di parole, col giocare con le parole. Non ci credette nessuno quando dissi: "Scienze infermieristiche". Nessuno. I primi sconvolti furono i miei genitori, che forse mi sognavano creativa e vincente, per raccontare al supermarket o al bar – rispettivamente ma' e pa' – che la loro pargoletta era: "Quella che si è inventata la storia dei tappi del campari, mettendoci dentro i nani... nani, tappi, sai?".

Io volevo fare grana. Subito.

Proprio per non dover stare a spiegare ogni giorno a pa' e ma' cosa avevo fatto quel giorno o quell'altro con uno squallido contrattino a progetto oppure curando a nero la comunicazione di una decina di localini serali che prendevo per il culo programmando post-fotocopia qua e là sui social.

Volevo un lavoro disgustoso da raccontare.

Con le parole, con i giochi di parole, però, non ho mai smesso. Sono uno dei pochissimi modi che mi sono rimasti di ripetermi che so ancora emozionarmi, so ancora giocare e divertirmi con poco, non sono poi la bella stronza inacidita che cambia cateteri ai vecchi e pulisce il culo alle vecchie con la stessa candida dolcezza con cui nega qualsiasi attenzione a un povero ragazzo down follemente innamorato di lei.

Senza dargli nemmeno il gusto di potergliela dedicare fino in fondo, quella quotidiana sega mattutina, restando almeno un attimo a dirgli: "Bravo!"

Cristo, non so nemmeno se tecnicamente non sia quest'ultimo pensiero, così come l'ho formulato, il segno più tangibile di che bella cinica stronza io sia diventata.

Comunque m'è venuto, il nome, per quei cosi. Tanto complicato quanto spaventoso, ansiogeno.

I morribondi: i moribondi che errano.

Morribondi.

Mi piace.

Da cagarcisi sotto abbastanza.

Ok, dov'ero e cosa facevo ieri sera? Ero giù in portineria. Guardiola o come diavolo volete chiamarla. Gli ambienti al piano terra sono tutti quanti adibiti alle attività comuni in questa struttura. Politica della residenza Dopo di Noi – Villa Sole, è quella di praticare quotidianamente attività d'inclusione che occupino almeno i due terzi della giornata.

Considerando che i pazzerelli sono anche sotto stretta terapia farmacologica e che l'effetto di sedazione li porta solitamente a dormire tranquilli per otto o nove ore, sì, potete ben dirlo: qui da noi nessuno resta solo.

Anche quando non gli andrebbe di dividere del tempo con altri.

La portineria, guardiola o come volete chiamarla, insomma il mio ambiente di lavoro fuori dalla medicheria, si affaccia sulla zona d'ingresso, una sala comune, ampia, con poltroncine e divanetti comodi per i visitatori che siano in attesa dell'arrivo di un congiunto ospite.

Quando sono qui seduta, ho anche compiti di buona rappresentanza e accoglienza.

La storia tra me e Marco è cominciata così un paio di mesi fa. Sì, in sostanza subito dopo il suo arrivo qui in struttura come guardia giurata che tenesse ladri, tossici e cattivoni fuori dai piedi.

Tecnicamente Marco ha proprio il fisico del supereroe buono che salva i deboli dalle ingiustizie e dalla malvagità del mondo, lì fuori. Come il cacciatore di Cappuccetto Rosso ha il suo fucile: una beretta 92F che lui stesso ha più volte definito un residuato bellico degli anni '80. Quasi come i tromboni con cui disegnano il Cacciatore, roba da brigante calabrese. Ha anche un coltello, ma quello non è tecnicamente in dotazione, quello è più un suo vezzo personale.

Il problema di Marco? Presto detto: pistola, bicipiti gonfi, pettorali robusti, coltellaccio a scatto e la Nissan Qashqai lì fuori sono tutte protesi psicologiche in sostituzione di un cazzo, il proprio, che il vigilante non sente all'altezza.

Una bella, cinica stronza queste cose le capisce. Le capisce proprio di volata. Diciamo che mi sono bastate due notti di fila per capirlo.

Quel machismo spudorato, l'ansia da super-controllo che spesso si traduceva in uno zapping compulsivo sul telecomando della sua auto: "Ma ho chiuso la macchina?"

Ah, sì, sommate anche il bisogno ossessivo di toccare il coltello, guarda caso ben sistemato nella tasca davanti e non nella fondina, a confondersi col pisello, ogni volta e ripeto, credete a me, ogni volta che nei primi tre o quattro giorni gli allungavo una battutina su quanto quella situazione di forzata convivenza mi facesse tornare alla mente le commedie all'italiana di serie Z su: le infermiere di notte, i marmittoni alle manovre, la clinica in collina.

No, la prima volta non l'ho fatto apposta. Giuro!

La prima volta che ne abbiamo parlato era perché in TV, su un'entusiasmante emittente locale, passavano "Avere vent'anni" ed io, che il cinema degli anni settanta italiano lo adoro, mi ero messa a parlare di Lilli Carati.

Avrei voluto essere come Lilli Carati, ve lo giuro.

Almeno fino ad un certo punto della sua carriera.

O come Moana, almeno fino a un certo punto della sua vita.

Non ho mai pensato che il corpo di una donna non possa essere la sua arma vincente. Nel porno, nel film erotico, io non ci ho mai visto una donna che si fa mercificare... piuttosto una che ti dice: ce l'ho ma è mia e se ci muori cazzi tuoi!

Anche perché, se non mi andava, nella vita, non m'è mai andata. Quindi, niente, alle prime battutine sul tema vedo Marco diventare paonazzo, abbozzare qualche risposta imbarazzata, studiarmi, sempre con la mano sul coltello.

Non voleva farmi paura; rassicurarsi era quello che gli serviva. La cosa ha preso a divertirmi, anche perché, alla fine, dai, brutto Marco non lo è per niente e quella sensazione di tenere io le redini del gioco anche di fronte ad un pistolero palestrato e col coltello in tasca mi arrapava sinceramente.

E' un momento in cui non ho maschi intorno, non ne voglio e Marco, diciamo, fa al caso. Quindi dopo le battutine comincio a stuzzicargli la fantasia: "Pensa se un giorno vieni qua e invece che con questo camicione verde da portantina mi trovi con una di quelle divise che si vedono sui giornaletti? Con le autoreggenti bianche e il reggicalze? Con la crocetta rossa sul berretto bianco modello SS fatta col nastro isolante rosso?"

A Marco la cosa è cominciata a piacere.

L'ho visto farsi sicuro di quel gioco che tanto sarebbe sempre rimasto sui lidi confortevoli del pensa se... giochiamo che... immagina un po'...

Il gioco mi ha stufato dopo un paio di settimane.

Così mi ci sono fatta trovare, in modo curioso. Non pensate all'infermiera cosplay hot. No, niente di tutto questo. Semplicemente niente intimo sotto il camicione verde e le autoreggenti nere. Gli ho chiesto di accompagnarmi in bagno; ci sono le telecamere in tutte le aree comuni della struttura, veniva male. Almeno la prima volta.

Gli ho chiesto di farmi la guardia in bagno perché la luce fulminata mi faceva paura. E' rimasto voltato tutto il tempo, che tenero. Che bacchettone: l'ho dovuto prendere in giro dicendomi che mi ero rivestita, per farlo girare e lasciarmi guardare. Ok, è andata così. E sto faticando, almeno, stavo faticando fino ad oggi, per fargli capire che dovrebbe dismettere un po' di queste fobie e paure e necessità di protesi psicologiche.

Perché è tutto, perfettamente, nella norma in lui.

Quel che mi fa faticare di meno, ovviamente, è convincerlo che non è il caso che la nostra relazione si strutturi a un livello diverso.

Ma ho la sensazione che ci riuscirò.

Oppure, che sarà inutile riparlarne.

Perché lo schianto della porta di quella che temo sia la suite numero quattro mi fa saltare a piè pari e lanciare un urlo. Sì, cazzo, un urlo.

M'infilo il pugno in bocca, serro i denti per non urlare ancora.

Se mi concentro non urlo, se mi concentro i passi biascicati e pesanti di Vincenzone non mi spaventano. Se mi concentro forse non faccio più un fiato.

Difficile, cazzo difficile...

Uno schianto come quello precipiterebbe nel panico incontrollato chiunque. A me rimette nelle orecchie lo schianto che mi ha svegliato nemmeno un'ora fa, quello prodotto da un Vincenzone ancora vivo che scaraventa la porta della sua suite, la numero tre, in mezzo al corridoio con una spallata...

Brutto risveglio, cazzo.



* Nota dell'autore: Grazie della lettura. Spero davvero che sia stata una esperienza piacevole. Se le avventure di Sonia ti piacciono, se questo capitolo ti ha emozionato, lasciane traccia con una stellina. Se hai domande, consigli, considerazioni, non farmi mancare un tuo commento. Se ti va, consigliaci ad amiche e amici a cui potremmo piacere: il passaparola è un regalo enorme per noi autori. E prima di andare, non dimenticare di inserire il libro nella tua lista di lettura; restare aggiornato sull'uscita dei capitoli sarà di sicuro più facile. 


Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top