Assedio
Sono quattro, almeno, quattro ne vedo spuntare dall'angolo nel cono di luce che il faro disegna poco discosto dalla struttura.
Tutti maschi, non so dire altro, credo non interessi altro.
Avanzano meno rapidi della morribonda che ho appena steso a colpi di mazza, eppure mi scuotono di paura ancora di più. Istintivamente porto la destra sul calcio della pistola, la libero dalla stringa di velcro ed estraggo.
Col pollice faccio scattare in avanti la sicura.
Non avrei mai pensato che operazioni del genere mi sarebbero venute così automatiche. Eppure, quando alzo l'arma per tirare, mi rendo conto che il braccio trema. Non riesco a prendere la mira, sto tremando, il puntino bianco impazzisce disegnando davanti ai miei occhi ghirigori sconosciuti.
Faccio qualche passo indietro, ritorno all'interno della struttura e faccio scattare la serratura della cancellata. Almeno, adesso non potranno avvicinarsi più di tanto. Non smetto di tremare. Vederli lì fuori, in quattro, mi fa sentire in trappola.
Non sono loro a doversi preoccupare di essere prigionieri lì fuori; paradossalmente sono io che mi scuoto nel sapermi qui dentro, bloccata, con queste bestie affamate a qualche passo da me.
Mi sposto ancora indietro: i vetri anti intrusione ci avevano fatto dimenticare completamente di avere delle grate a cancello proprio fuori dell'ingresso. Se le avessimo chiuse, nel primo pomeriggio, se le avessimo tenute chiuse, quei due bastardi non sarebbero arrivati fin qui dentro. Non avrei dovuto sparare in testa ad entrambi, fuori, nel giardino, probabilmente attirandoli col rumore. Temo che anche il faro abbia fatto la sua parte... ma, ormai, è troppo tardi per chiederselo.
Corro a svegliare Marco; non me la sento di aprire il fuoco: nel caricatore ho solo sei pallottole e finirei per sprecarne con loro più della metà. Magari potremmo provare ad ignorarli, magari per fame, una volta che saranno attirati da altri rumori, si sposteranno e libereranno il passaggio.
Ho bisogno di confrontarmi con qualcuno.
Tremo. Non solo per paura.
E' anche il maledetto peso delle scelte, il peso della responsabilità, la consapevolezza che devo decidere tutto io, ma che non sono sola.
Li lascio lì fuori, non richiudo nemmeno la porta alle mie spalle.
Busso alla medicheria: "Marco?"
Lo sento scattare nel sonno, sento che si alza chiedendomi con la voce impastata cosa sia successo.
"Marco, sono qui fuori, sono in quattro e ne ho già uccisa una..."
Nella penombra regalata dalla luce che entra dal corridoio, la faccia di Marco è una maschera di disagio e terrore.
"Non ho sentito spari, come hai fatto?"
"Era sola, la prima, l'ho colpita con la mazza, le ho rotto la testa... questi sono quattro, però!"
Marco si muove verso la hall, mi toglie la pistola di mano e controlla la sicura. Arma il cane. Quando alza gli occhi di fronte alla grata, lo vedo fermarsi di colpo.
Le luci al neon del disimpegno proprio sulla soglia regalano un panorama osceno. Sono stati tutti morsicati qua e là, hanno i vestiti laceri, lordati di sangue. Ad uno di loro, con la gola squarciata, la testa pende di lato, inutile, innaturale. E' l'unico a non gorgheggiare, a non fare un fiato. Le mani sporche e spastiche si infilano tra le inferiate. Solo uno le afferra e le scuote, sbattendo con la testa contro di esse.
"Cristo santo che schifo..."
Marco alza la pistola, prende la mira su quello più a sinistra.
Lo fermo: "Aspetta, Marco... di là dormono, forse dovremmo svegliarli."
Non so perché questa premura, questa urgenza.
"Che ti cambia, Sonia? Togliamoli davanti e facciamola finita..."
"Credo che debbano vedere, anche loro. Se non vedi qualcosa del genere, il dubbio che sia tutto finto ti rimane."
Il vigilante mi fissa, ha gli occhi di chi vorrebbe chiedermi cos'ho in testa, chi me la fa fare.
"Sonia, se devi chiamarli sbrigati... - torna a mirare sui quattro fuori del cancello – a me questi cosi fanno venire il voltastomaco. Non voglio più sentirli, non voglio vederli che si muovono lì fuori..."
Mi volto, faccio tre o quattro passi verso la stanza dove abbiamo sistemato i letti. Mi fermo solo un attimo, prima di aprire la porta. Chi sono, io, per decidere per tutti? Per un attimo penso ai quattro poveri cristi lì dentro, al fatto che non posso pretendere di affidarmi ad un consiglio, ad una loro scelta.
Mi ripeto che non sono nelle condizioni di scegliere, quei poverini.
Guardo Marco. Che male c'è a voler far saltare la testa a quei quattro senza starci troppo a pensare? Che male c'è ad ammettere che vorrebbe vederli finalmente per terra, immobili, perché così fanno paura, fanno ribrezzo?
Ho la mano sulla maniglia, sto per spingere giù. Ci ripenso.
Vaffanculo!
Che si sveglino con i colpi di pistola, che li vedano domani questi cinque cosi morti per terra.
"Hai ragione, Marco. Spara!"
Lo so, dovrei dirlo che il rumore li attira. Voi lo avreste fatto? Voi avreste proposto al socio di aprire il cancello, farli entrare e risolvere tutto all'arma bianca? Io no, io questa forza e questo coraggio non ce li ho. Non li ho avuti in quel momento. Ne arriveranno di altri? Forse. Quasi sicuramente. Del resto, con soltanto undici cartucce quanto speriamo di resistere qui dentro?
Siamo in sei: tempo tre settimane dovremmo comunque uscire a fare incetta di provviste. E se anche ne trovassimo, tra due mesi al massimo non avrei più medicine: scorte azzerate.
Spara e vaffanculo, Marco. Credo faremmo bene ad andare via stanotte.
Il primo colpo schianta la testa del morribondo. Il corpo cade di lato, immediatamente, senza scosse. Si affloscia su se stesso, le ginocchia cedono di schianto, rimbalza contro le inferiate e va giù all'indietro, ingombrando le scale. Marco prende ancora la mira, fa fuoco sul secondo. Vedo la testa scoppiare, liquido brunastro investire di colpo l'essere che, vicino, è aggrappato alle sbarre e le scuote provando ad oltrepassarle.
Alberto grida.
Mi volto verso la porta dello stanzone, vedo il battente aprirsi verso l'interno e Marina comparire, con il tutone che usa come pigiama.
"Oh cazzo... ma che..."
La guardo.
Marco si è fermato, girandosi: "Tranquilli, mettiamo a dormire anche questi altri due e decidiamo cosa fare... - si volta verso di me – Sonia, va dentro e calma Alberto.".
Spara ancora, facendo crollare il morribondo di faccia sull'uscio, le mani molli attorno alle sbarre. Entro nella stanza, accendo la luce. Enza è in piedi, vicino ad Alberto. Lo tiene abbracciato, piange assieme a lui singhiozzando sommessa.
Riccardo non si muove dal letto, mi guarda stranito. Non capisce cosa stia succedendo.
"Chi è Sonia? Chi è? Sono tornati quei ladri? Sono tornati quei ragazzi cattivi?"
Mi affretto verso di lui: "No, Al' sta tranquillo... - gli prendo la mano mettendo la sinistra sulla spalla di Enza – Però forse dovete venire fuori anche voi, adesso. Forse è giusto che vediate anche voi."
Enza alza gli occhi, scuote la testa: "No, Sonia, ti prego, no..."
Le stringo la spalla: "Enza, proprio tu che mi hai chiesto di prometterti... Proprio tu dovresti uscire là fuori."
La guardo, le sorrido, cerco di infonderle un minimo di coraggio. Lo so, lo so bene che vi aspettavate un'eroina diversa, ma ci sono momenti in cui non si può essere quella che esce da un fumetto tutti spari, schizzi di sangue e parolacce.
Cazzo, siamo umani!
Alberto mi tiene stretta la mano, mentre arriviamo nella hall. Procede un passo indietro, sempre. Sento il suo respiro dietro di me, quasi sul collo. Solo adesso mi rendo conto di quanto grottesca sia la scena che abbiamo avanti. Solo adesso capisco perché Alberto, di colpo, uscendo dal cono d'ombra che il mio corpo gli disegnava addosso e guardando, scoppia a ridere in modo incontrollato.
Marco... Marco è in mutande, con la pistola puntata contro il morribondo, l'ultimo rimasto.
Di fronte all'abominio, dall'altra parte delle sbarre, Marina si diverte a stuzzicare la bestia con degli scatti in avanti e indietro, rapidi. Si avvicina, aspetta che le mani di quel mostro cerchino di avvinghiarla impazzite, lo fa avanzare fino ad aderire o a sbattere alle sbarre, poi si tira indietro.
"Marco, dai finitela, spara a quello stronzo... Non abbiamo tutto questo tempo!"
Il vigilante mi guarda, sorride imbarazzato. Guarda Alberto che lo indica tenendosi la pancia e continua a ridere in modo sguaiato, poi fa spallucce: "Dai, Marina ha ragione, è divertente: guardalo... - lo indica con la pistola – Non ho mai visto qualcosa di così stupido!"
"Marina, spostati! Abbiamo già fatto troppo casino, c'è un faro acceso lì fuori: tra poco il piazzale d'ingresso sarà pieno di quelle bestie, dobbiamo decidere cosa fare."
La ragazza mi guarda con una faccia perplessa: "Perché scusa, che cos'hai in mente?"
Lo sparo ci scuote. Il morribondo crolla per terra, raggiungendo gli altri.
"Guardate, io non so... - cerco di guardarli tutti, Marina, Enza e Alberto, mentre Marco si sta rivestendo di là – Io non lo so, ma ci sono rimaste sette cartucce. Le sbarre lì fuori sono resistenti, ci proteggeranno, ma non so davvero quanto noi potremo resistere qui dentro. Quando finirà il cibo, quando finiranno le medicine, come faremo?"
La ragazza mi fissa spaventata, deglutisce. Alberto si alza per venirmi vicino: "Io vengo con te, Sonia... - mi prende la mano e la stringe tra le sue – Io voglio restare vicino a te."
Enza mi guarda, alza la mano e si fa coraggio: "Sonia, io non voglio parlare... Non voglio decidere... Tu sai cosa ti ho chiesto... - abbassa lo sguardo, incapace di sorreggere il mio, anche se nei miei occhi non c'è traccia di nessun rimprovero – Io voglio rimanere qui."
La voce di Marco interrompe la discussione: "Il problema è diverso: anche se dovessimo scegliere di andare via, lontano di qui... - si siede accanto al cerchio che abbiamo formato – Dove? Non abbiamo idea di cosa ci sia là fuori."
Lo fisso, quasi spazientita: "Hai una idea migliore?"
**Nota dell'autore: Inutile ricordarvi che noi autori artigiani abbiamo un solo modo per far conoscere in giro le nostre storie. Il passaparola dei lettori che hanno amato le nostre parole è uno dei migliori. Qui su Wattpad ti basta inserire questa storia in elenco lettura - credo poi che se ti piace quel che hai letto, la cosa dovrebbe anche tornarti utile :)
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