Ricordi (aggiornato)
Cammino avanti e indietro stringendo fra le mani l'ultima di una lunga serie di fatture. «Ma ti rendi conto, duemila dollari per i traslocatori! Avranno trasportato sì e no cinque mobili e due li hanno anche danneggiati!», sbotto.
«Calmati», mi ripete per l'ennesima volta Kit.
«Per non parlare degli operai, dell'elettricista e...», continuo imperterrito.
Kit si appoggia al bancone, un gomito a sorreggere la testa, e la sua solita espressione calma tradisce un velo di irritazione.
«Se il problema sono i soldi, posso prestarveli io. Il locale sta andando bene ultimamente».
Mi fermo e mi siedo sconfortato.
«Grazie, amico, ma io e Vivian vogliamo cavarcela da soli».
Mi torna in mente la promessa di ieri sera. Come farò a dirle che forse non sarò in grado di mantenerla?
Kit esce da dietro il bancone e si siede accanto a me. Mi posa una mano sulla spalla. «Vivian è mia sorella e come te voglio il suo bene e quello del bambino. Quindi me ne frego del tuo ego, lascia che vi aiuti». Sto per ribattere, ma lui mi ferma alzando un dito. «Ascolta, sto cercando un nuovo socio per un locale di Manhattan. Vorrei lì un aprire un ristorante di alta classe. Pensavo che potresti aiutarmi tu».
Non credo alle mie orecchie. «Non pensi di essere un po' troppo ambizioso?», gli chiedo scettico guardoni intorno.
«C'è qualcosa di male? Questo locale era dei nostri genitori e Vivian ha voluto lasciarlo esattamente com'era. Ma io sono stanco di servire hamburger e pappatine. Voglio attirare un altro tipo di clientela.»
«Capisco». La proposta sembra allettante e, anche se di primo istinto rifiuterei, mi rendo conto che, anche se non so molto di come si gestisce un ristorante di alto livello, potrebbe essere la soluzione ai nostri problemi economici.
«E chi lo dirà a Vivian?»
«Ovvio, tu», replica Kit con un gran sorriso.
Torna dietro il bancone e passiamo le due ore successive a discutere dei dettagli. Di tanto in tanto osservo che Vivian si aggira maldestramente fra i tavoli con piatti e bicchieri in mano. Il trasloco di ieri l'ha distrutta e, anche se le avevo raccomandato di restare a letto e riposarsi, lei è voluta venire lo stesso.
Ma avrei Fin dai tempi del college, è sempre stata una ragazza forte e determinata. Molto più propensa ad aiutare gli altri che se stessa, anche quando questo andava a discapito dei suoi voti o della sua salute. Lo spirito altruista, unito a un caratterino niente male, mi ha attratto fin da subito. Ma mi ci è voluto un po' per abbandonare le mie arie da pallone gonfiato e capire cos'è che conta davvero nella vita.
È stata lei a insegnarmelo. Non ho mai conosciuto nessuna come lei. Mi ha cambiato. Mi ha svelato un mondo nuovo, fatto di persone vere e di veri sentimenti. Ma ho imparato anche che se si mette in testa una cosa è impossibile farle cambiare idea. Dovrò dire a Kit di tenerla d'occhio, quando tornerò al lavoro. Anche se temo che nemmeno lui ne sia in grado. Nonostante questo, sono stregato da lei. Da suoi movimenti goffi, ma allo stesso tempo aggraziati. Da come si sfiora la sommità della pancia e parla con il bambino, commentando ogni cosa senza farsi notare. Loro hanno già stabilito un canale di comunicazione, mentre io non conosco ancora mio figlio. Ma anche adesso so che sarei pronto a gettarmi nel fuoco per lui. Come farei per Vivian.
Quando la vedo uscire un'altra volta carica di piatti, perdo la pazienza. Mi alzo e corro a salvare quelle povere pietanze. Le prendo il vassoio da una mano e un piatto dall'altra. Lei sbuffa.
«Vuoi impedirmi anche di fare il mio lavoro?» Però noto che è sollevata.
«Se necessario, sì», ribatto con le mani sui fianchi cercando di apparire irremovibile.
Si siede. «Gavin, ne abbiamo già parlato. Non puoi controllarmi in continuazione. Non sei responsabile per me».
Vorrei ribattere che sono più responsabile di lei che di me, ma decido di non insistere per il momento. Il sudore che le imperla la fronte e il respiro corto mi preoccupano. Si massaggia un piede indolenzito.
«Queste scarpe mi stanno uccidendo. Credo che farò un salto a casa a cambiarle».
«Va bene, ti accompagno, si è messo a piovere», dico buttando un occhio fuori dalla finestra.
«No. Fra poco sarà l'ora di punta e Kit avrà bisogno di una mano».
Sto per rispondere che l'unica persona ad avere bisogno del mio aiuto in questo momento è lei, ma mi ferma con un bacio.
«Non ti preoccupare. Ci metto poco, prendo un taxi».
Poco dopo la porta tintinna e un refolo d'aria mi raggiunge. Guardo un'altra volta fuori. Piove a dirotto e la fermata dei taxi non è così vicina. Forse avrei dovuto insistere per accompagnarla.
Quel pensiero mi segue per i minuti successivi, che a ogni occhiata all'orologio si espandono, si dilatano diventando quasi interminabili. Guardo la porta che si apre e si chiude in continuazione, ma non tintinna per me. Alla fine, assillato da questi pensieri, prendo un ombrello e vado a cercarla. Cerco di individuare il suo maglione rosso fra le gocce di pioggia e i passanti. Ma tutto mi sembra troppo grigio.
A un certo punto qualcosa cattura la mia attenzione. Attraverso di corsa la strada riparandomi con una mano dalla pioggia battente. Man mano che mi avvicino al drappello di persone intorno a quella che dev'essere una macchina incidentata, l'ansia per qualche motivo cresce.
Mi ripeto che non mi devo preoccupare, Vivian avrà deciso di ascoltarmi e restare a casa e stanca com'era si sarà dimenticata di avvertirmi. Mi faccio forza così, mentre mi apro un varco fra le persone ma, non appena anche l'ultima si sposta, un lampo rosso squarcia la mia attenzione.
Una donna giace a terra. Un paramedico le sta controllando i parametri vitali.
«Polso e respiro assenti», dice al collega che inizia la rianimazione. Osservo la scena inebetito, come se quella donna non fosse lei, come se a ogni scarica del defibrillatore non fosse il suo petto ad alzarsi e ricadere a terra. Al secondo tentativo il cuore riprende a battere.
«Forza, ragazzi, sbrighiamoci». La sollevano facendo attenzione a immobilizzare bene la testa e le braccia, mentre la trasportano sull'ambulanza.
Resto ancora immobile, poi il rumore secco del portellone dell'ambulanza che si chiude, mi sveglia da un incubo che so essere realtà.
«Aspetti!», urlo.
Il paramedico si ferma e mi guarda di sbieco. «La conosce?»
«Sì, è mia moglie», rispondo come se accentuare il legame fra noi potesse servire a trattenerla.
«Ok, venga».
Salgo sull'ambulanza e comincio a prendere coscienza dell'accaduto.
«Allacci la cintura», mi avverte l'autista accanto me, mentre gli altri due uomini salgono dietro.
«GCS 7», dice uno dei due. Non so cosa significhi, ma il tono non sembra incoraggiante. L'autista accende subito la sirena e il lampeggiante rosso.
Continuo a voltarmi verso Vivian, il cui corpo inerme traballa nonostante le cinghie a ogni scossone, fissando il suo petto alzarsi e abbassarsi a ogni pompata di ossigeno che il soccorritore spinge a forza nei suoi polmoni. Immagino di accarezzarle la testa, ripetendo frasi incoraggianti, nell'assurda speranza che lei possa sentirmi e aprire gli occhi. O forse sto solo cercando di farmi forza.
«Stia calmo, l'ospedale è vicino», mi rassicura l'autista.
Finalmente arriviamo in vista delle luci dell'ospedale. Il mio primo istinto è di scendere e correre da lei, ma il soccorritore mi trattiene.
«La prego non ci intralci. Aspetti che la portino dentro».
Mio malgrado faccio come mi dice, resto un passo indietro. Rimango fuori, a pochi metri dalla porta, lasciando che la pioggia mi bagni viso.
E mi rendo conto che non voglio entrare.
TO BE CONTINUED...
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