La dama in blu (aggiornato)
Lora
Seduta sul letto, fisso il vestito appeso sulla porta della mia camera. È di un blu intenso e scuro ma ricco di sottili sfumature, simile a quelle di un cielo notturno dopo un temporale. Jeremy batte le nocche sulla porta.
«Sei sicura di voler andare?», mi chiede per l'ennesima volta. «So che ti ho detto che gli avrei dato una possibilità, ma non mi piace quel tipo».
«È solo un appuntamento, Jeremy».
«Ed è per questo che fissi da mezz'ora quel vestito?»
«Penso al modo migliore di indossarlo senza sgualcirlo».
«Prova dalla testa», mi suggerisce lui.
Mi alzo e faccio per chiudere la porta, ma lui la ferma con una mano.
«Sai, nell'esercito avevamo un detto: quando non vedi il tuo prossimo passo, stai camminando nel vuoto».
«Oh, ma davvero? E da quando tu segui queste massime?»
«Da quando mia sorella esce con un co...»
Gli pesto un piede e gli chiudo la porta in faccia.
Il vestito di raso scivola leggero come l'acqua sulla mia pelle, adattandosi alle curve del mio corpo. Ma la zip è troppo profonda perché possa chiuderla da sola. Una rapida occhiata alla sveglia sul mio comodino mi dice che sono in ritardo. Scendo le scale a piedi nudi, la schiena quasi del tutto scoperta, i tacchi in mano e una forcina per capelli in bocca. Sistemo le spalline, provo a raccogliere i capelli in uno chignon, ma poi decido di lasciarli sciolti.
Saltello nervosa sul posto.
«Jeremy, ho bisogno di aiuto con il vest...»
Una mano si posa sulla mia schiena indugiandovi un po' più del dovuto, mentre l'altra tira su la zip. Il vestito ora è chiuso, ma io mi sento più nuda di prima. Jeremy è di fronte a me, una tazza di cereali in mano e gli occhi infuocati. Mi giro e incontro quelli di Gavin, che invece sono carichi di passione. Li sento scorrere lungo tutto il mio corpo e questo non fa che accrescere il mio imbarazzo.
Jeremy manda giù il boccone.
«Beh, vi direi "divertitevi", ma non credo sia il caso». I suoi occhi incrociano i miei e vi scorgo un avvertimento. «Non fare tardi, sorellina». Torna in cucina e sbatte la porta.
Gavin mi aiuta a indossare il cappotto. Apre la portiera e aspetta che sistemi il lembo del vestito prima di richiuderla. Mi chiede se voglio che accenda il riscaldamento o che metta un po' di musica. È teso, lo vedo. Sembra che faccia di tutto per apparire impeccabile. Non sono abituata a questo lato gentile del suo carattere. È come se mi aspettassi di rivedere da un momento all'altro il Gavin acido e scontroso dell'inizio. O quello tormentato e afflitto della tempesta. O ancora l'uomo dolce e passionale della dispensa.
«Non ti facevo tipo da macchine d'epoca», dico per smorzare l'imbarazzo.
«Ti aspettavi che guidassi solo macchine sportive?»
«Una cosa del genere. Di che anno è?» Sembra sorpreso dalla domanda.
«Del '69. L'ho restaurata pezzo dopo pezzo con mio padre. Era il nostro progetto padre-figlio». È la prima volta che lo sento fare un simile riferimento.
Segue un lungo silenzio.
«Vuoi vedere la cosa che preferisco?», mi chiede dopo un po'.
«Certo».
Preme un interruttore e la capote della vettura inizia ad abbassarsi svelando un po' alla volta il cielo stellato. Abbandono il capo all'indietro e ammiro quello spettacolo, i capelli che si agitano come fiamme intorno al mio viso. Chiudo gli occhi e lascio che l'aria sferzante della sera porti via ogni insicurezza.
«Siamo arrivati».
Apro gli occhi e noto che la capote è chiusa e che nell'abitacolo si è creato un tepore invitante che mi rende un po' restia scendere. Mi sorregge mentre camminiamo sul selciato del parcheggio ingombro di macchine. Mi sfila il cappotto e lo passa al guardarobiere. Trovo questa galanteria davvero eccessiva. Ho l'impressione che si stia trattenendo, non so per quale motivo, ma non glielo dico.
La sala è gremita. Dei piccoli faretti posti sul soffitto e ai lati di ogni quadro creano bellissimi giochi di luce azzurrognola sulle pareti. Uomini e donne, vestiti sulle tonalità dell'azzurro e del blu, commentano le opere. Dei camerieri passano fra gli invitati offrendo flûte di vino e stuzzichini. Osservo i disegni a matita, gli acquerelli e le acqueforti raffiguranti scene marittime o collegate all'acqua e riconosco dietro a ognuna la mano sicura e fluida della stessa persona. Gavin mi posa con disinvoltura una mano sulla schiena, indicandomi di tanto in tanto qualche dettaglio. Sembra che conosca bene l'artista.
«Vieni, il meglio è di sotto», allunga una mano e mi conduce verso una scala che sembra piuttosto ripida e rischiosa da scendere con i tacchi. Mi precede, guidandomi.
Qui l'atmosfera è diversa, più soffusa e avvolgente. I quadri hanno lasciato il posto a delle strane sculture fatte con un materiale plastico che non riesco a identificare: investite dalla luce dei faretti rimandano giochi di luci e bagliori iridescenti che sembrano quasi animarsi al ritmo della musica. Le tende che coprono le pareti accentuano questo contrasto, dando l'impressione che gli oggetti fluttuino nel vuoto.
«Torno subito». Gavin si allontana per salutare delle persone e io ne approfitto per avvicinarmi a una di queste sculture e immergere la mano nel suo fascio di luce, ammirando i riflessi colorati che si creano sulla mia pelle.
«Incredibile come sia facile irretire gli occhi, vero?», mi chiede una voce femminile alle mie spalle. Ritraggo subito la mano.
«Tocca pure, se vuoi», mi invita la donna. È bionda, di mezz'età, e indossa un meraviglioso vestito blu cobalto con delle piume sul corpetto. Faccio come mi dice, allungo la mano e sfioro la superficie dell'oggetto scoprendo che è liscia.
«Di che materiale sono fatte?», chiedo affascinata.
«Queste sono tutte in policarbonato alveolare, un polimero termoplastico», dice indicando con un gesto della mano le altre opere. La guardo accigliata.
«Mi scusi, non ho capito nemmeno una parola di quello che ha detto».
Lei scoppia a ridere. «Tranquilla. Quasi nessuno capisce cosa intendo quando lo spiego, almeno tu hai avuto il coraggio di ammetterlo!» Mi sorride. «Sono Vanessa, la Dame in blu, come ormai mi chiamano da queste parti. Tu devi essere Lora. Ho sentito molto parlare di te».
«Davvero?», chiedo sorpresa.
«Oh, sì. A Manhattan tutti parlano della nuova fiamma di Gavin Forbs».
Ora mi sento davvero a disagio. Lei sembra accorgersene.
«Oh, non fare troppo caso alle voci. Parlano solo per invidia. Gavin è un uomo misterioso e molto affascinante. A volte può sembrare cinico e arrogante, e infetti lo è, ma come per queste sculture...», preme un interruttore e i faretti posti sotto il cubo accanto a me si spengono, «basta la luce giusta per illuminarlo». I faretti si riaccendono animando l'opera di bagliori ancora più incredibili e colorati. «... più intensamente di prima», conclude con un sorriso.
Resto incantata di fronte a quello spettacolo, finché non sento la sua voce.
«Cosa combinate ragazze?» Gavin si fa largo tra gli invitati e ci raggiunge. Si sposta al mio fianco e saluta con calore la padrona di casa.
«Complimenti, Vanessa, la serata è un successo».
«Il merito è anche tuo».
Gavin la ringrazia con un cenno della testa, poi ci congeda e mi fa strada verso un punto meno affollato della sala.
«Dov'eri finito?», gli chiedo più acida di quanto volessi.
«Dovevo parlare con dei clienti».
Sapevo che era qui per lavoro, ma non riesco comunque a nascondere la mia delusione. Mi ero illusa che questo fosse un appuntamento.
«Portami a casa per favore, Jeremy mi sta aspettando».
«Di già? Ma siamo arrivati da appena mezz'ora».
Non rispondo ed evito di guardarlo.
«Ok, come vuoi». Ma anziché dirigerci verso le scale, mi spinge di lato contro la parete, dietro una tenda. Mi prende il viso e mi bacia. Non riesco a scorgere l'espressione del suo volto, anche se è vicinissimo; il tessuto nero blocca la luce, ma avverto il desiderio sulla punta delle sue dita quando sollevano un lembo del vestito, che fruscia delicato sulla mia pelle. Inspiro quando le sento sfiorarmi. Una mano sale a chiudermi la bocca, l'altra torna a scendere, strappandomi soffocati gemiti di piacere man mano che si fa strada nel calore sempre più intenso e profondo del mio basso ventre.
«Vieni da me», sussurra al mio orecchio, a metà strada fra un ordine e una supplica. Continua a muoversi dentro di me, impedendomi di pensare. Annuisco. Ritrae la mano, fa un passo indietro e mi permette di riprendere di fiato. Aspetta ancora qualche secondo, poi scosta la tenda ed esce. Io resto lì, finché il mio cuore non rallenta, poi lo seguo.
Si passa un dito sulle labbra, mi porge il braccio e mi invita a salire.
In macchina non mi guarda né dice una sola parola. Fissa la strada ma sembra preso da pensieri suoi.
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