Jeremy (aggiornato)
Lora
Ci incamminiamo verso la stazione della metropolitana. Lui scende le scale, schivando con movimenti rigidi la gente che corre verso i binari. Sembra che qualcosa lo turbi. Io invece inizio a pensare più lucidamente. Jeremy non ha bagagli con sé, solo uno zaino. Ha un aspetto stanco e trascurato. Le occhiaie, che spiccano violacee su una pelle chiara come la mia, mi dicono che non ha dormito molto negli ultimi giorni. Non si fa la barba da un po' e i capelli neri, rasati durante il servizio militare, stanno ricrescendo più ispidi e arruffati di prima. Sembra anche un po' dimagrito. Ha un'aria diversa, più cupa, quasi minacciosa. Piega la schiena in avanti e appoggia i gomiti sulle ginocchia, cercando una posizione comoda non appena il vagone quasi del tutto vuoto inizia a muoversi. Io però resto in piedi.
«Hai un posto dove stare?»
Mi guarda di sbieco, dall'alto verso il basso. «Sono appena arrivato in città, Lora».
«Puoi stare da me, se vuoi», dico con naturalezza, anche se l'idea di vedere mio fratello girare in boxer per la casa che è stata di Gavin e Vivian mi mette un po' disagio.
«Non ti devi preoccupare per me. Me la caverò. Piuttosto sono io che mi dovrei preoccupare per te».
«Non dire sciocchezze! E comunque so badare a me stessa, lo faccio da anni ormai», mi sfugge, ma me ne pento subito.
«Questo lo so». Vedo la sua mandibola contrarsi. Il vagone cambia di nuovo binario e io mi reggo alla sbarra. «Però mi chiedo se non abbia commesso un errore a lasciarti qui da sola. Cioè, guardati... guarda quanto sei fragile! Pensavo di potermi fidare di te, e invece torno e ti trovo mezza nuda fra le braccia di quel tizio...»
Queste parole mi fanno infuriare. Mi piazzo davanti a lui, puntandogli un dito contro.
«Sei tu che hai voluto a tutti i costi partire, Jeremy! Eri tutta la mia famiglia, tutto ciò che avevo, e un giorno ti sei svegliato e hai deciso che ti saresti arruolato. Ora con che diritto mi giudichi?»
«Non giudico te, ma le persone che frequenti».
«Non lo conosci nemmeno! E poi la cosa non ti riguarda», dico stringendo le labbra. Mi siedo imbronciata e incrocio le braccia al petto, segno che la conversazione è terminata.
«Cazzo, perché sei così cocciuta?», esclama.
Per il resto del tragitto non ci scambiamo più una sola parola. Restiamo fermi nelle nostre posizioni, aspettando che l'altro faccia la prima mossa.
Alla fine è lui a cedere: «So di averti abbandonata, mi dispiace. Ma adesso sono qua».
«Già, chissà per quanto tempo», mormoro risentita.
Mi prende per le spalle. «Sono tornato per restare e prendermi cura della mia sorellina. Fidati di me, ti prego».
Mi scosto, guardandolo dritta negli occhi. «Va bene, ma è l'ultima volta».
Arrivati a casa gli faccio un po' di spazio fra le mie cose, sistemo coperte e cuscini sul divano e poi salgo di sopra. Sotto la doccia comincio a ricomporre i frammenti della giornata, realizzando che non è ancora finita. Devo tornare al ristorante per il servizio serale. Ma le gambe non sembrano volermi sorreggere, il cuore non la smette di martellare nel petto, le lacrime si fanno di nuovo strada sul mio viso e forti singhiozzi mi scuotono il corpo. Sento il freddo delle piastrelle scivolarmi addosso, mentre mi accascio sul pavimento della doccia, stringendomi le gambe al petto. Resto a lungo in quella posizione, ma l'acqua calda non riesce a lavare via il ricordo delle mani di Gavin sulla mia pelle. Dopo essermi vestita, scendo in salotto con ancora i capelli bagnati, cercando ignorare lo sguardo sospettoso di Jeremy che ha preso possesso della tv.
«Pensavo ti fossero cresciute le branchie».
«Sono già finiti i Teletubbies?», lo canzono.
«Io non farei della facile ironia sui Teletubbies, sono dannatamente divertenti. E un uomo senza tv via cavo per tre mesi può letteralmente impazzire».
«Esistono anche i libri», dico dando un morso a una mela.
«Già, è vero. A proposito...» Si alza e prende qualcosa nello zaino. «L'ho letto tre volte, mi ha aiutato molto, grazie», dice consegnandomi il libro che gli ho spedito qualche mese fa, prima che partisse in missione. È ingiallito e molte pagine sono arricciate e sgualcite. Lo sfoglio e trovo tantissime annotazioni a margine. Lo poso di fianco alla mia copia, usurata quanto la sua, e sposto il peso da una gamba all'altra.
«Ti è piaciuto?», gli chiedo cercando di nascondere l'emozione.
«Beh... sì, diciamo che l'ho apprezzato».
Getto un'altra occhiata al suo libro tenuto insieme da dei pezzi di scotch.
«Allora, che facciamo stasera?», chiede cambiando argomento. Il suo sorriso sincero mi fa sentire in colpa.
«Devo tornare al lavoro, mi dispiace».
«Va bene, salutami Mr. Stoccafisso...»
«Gavin», preciso.
«Sì, sì, quello. Digli che ci rivedremo presto». E, se non lo conoscessi bene, direi che è una minaccia.
«Jeremy...» Butto un occhio all'orologio e scopro di essere in ritardo. «Ne parliamo dopo», concludo e vado di sopra.
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