Capitolo 8 (aggiornato)
8
Non Lora
Da quella sera le cose si sono fatte strane. Ogni volta che incontro Joslyn, mi fissa come se fossi uno scarafaggio da schiacciare. Kit è indaffaratissimo nel tenere le redini del ristorante a causa dell'assenza di Gavin che, chissà per quale motivo, si fa vedere sempre di meno. Mi rendo conto che la sua assenza mi pesa più della sua presenza. Mi ha detto che non vuole una relazione – di nessun tipo – con me, quindi dovrei smettere di pensarci. Più lo conosco, più mi rendo conto che è una persona distruttiva, incapace di gestire i propri sentimenti e le proprie emozioni. Cerca di controllare ogni aspetto della sua vita e il non riuscirci del tutto lo mette in crisi. Questo di solito mi spingerebbe a lasciar perdere, ma io so che ci sono delle ragioni per il suo comportamento; il suo dolore ha radici profonde e, benché non possa raggiungerle, posso almeno concedergli il beneficio del dubbio.
Una sera, quando ormai sono convinta che mi stia evitando di proposito, lo vedo entrare nel ristorante appena dopo la chiusura. Noto subito che si è rasato e che i capelli neri sempre un po' arruffati, sono più corti di prima. Ora il suo viso è più aperto e sembra sereno.
Sollevo una sedia e la sistemo sopra il tavolo, facendo finta di non averlo notato. Lui prende l'altra e la capovolge allo stesso modo.
«Ciao», mi dice come se niente fosse.
«Ciao», rispondo cercando di mostrarmi disinvolta, ma in realtà sono così tesa che riesco a stento a concentrarmi su quello che sto facendo. Gli volto le spalle e inizio a sparecchiare di fretta un altro tavolo, ma mi cade una forchetta. Lui l'afferra al volo.
«Vorrei invitarti a cena stasera», dice rimettendola nel piatto.
La mia espressione sorpresa dipinge sul suo volto un bel sorriso.
Non sono del tutto sicura che sia serio, ma decido di stare al gioco per scoprire le sue carte. «Va bene, ma a due condizioni: ceniamo da me e cucini tu».
«Affare fatto», allunga una mano con fare innocente. Titubante la stringo, anche se ho l'impressione che me ne pentirò.
«Ma anch'io ho una condizione», mi tira a sé imprigionandomi fra le braccia. «Se la cena ti piacerà, mi permetterai di restare».
Usciti dal ristorante ci dirigiamo verso un minimarket. Non posso credere a quello che sto facendo. E soprattutto non posso credere di aver accettato senza quasi alcuna esitazione. Adesso, però, comincio a pensare di aver commesso un grave errore. Lo osservo muoversi con perizia fra le corsie del market scegliendo con cura i prodotti, e mi chiedo se si possa capire l'indole di una persona da come fa la spesa. La prima parola che mi viene in mente osservando il suo carrello organizzato è "meticoloso". Se invece lui dovesse vedere me fare la spesa direbbe che sono confusionaria. Possono i due estremi coincidere?
Arrivati davanti alla mia porta, poso la busta con la spesa per terra e comincio a cercare le chiavi. Non sono mai stata così nervosa. Dopo infiniti minuti di imbarazzo, le trovo. Gavin osserva l'operazione senza mettermi fretta. Non sembra la stessa persona di qualche giorno fa. Non so cosa gli abbia fatto cambiare idea, ma una parte di me mi suggerisce di non fidarmi. Purtroppo però non è sufficiente. Faccio per entrare, ma il suo braccio mi blocca sulla soglia. Si appoggia allo stipite e mi guarda dolente.
«Non posso rischiare che tu fraintenda. Quindi, se non sei assolutamente sicura, ti prego di non lasciarmi entrare».
Le sue parole non sono altro che un sussurro che mi fa rabbrividire. E allora capisco. Non ha mai nascosto le sue intenzioni. Non ha mai cercato di apparire una persona migliore di quello che è. Né io, in fondo, ho sperato che lo fosse. Credevo di essere preparata. Invece ora, inchiodata dalle sue braccia fra la luce dell'ingresso e l'oscurità della mia abitazione, mi rendo conto che ho paura e che farei meglio ad ascoltarlo. A preferire il mio cuore al suo ego, la mia dignità al desiderio di lui, il mio benessere mentale all'appagamento fisico. Dovrei fare un favore a me stessa e cacciarlo, finché sono ancora in tempo. Invece, poso una mano sul suo braccio e supero la sottile linea di confine che separa la luce dall'oscurità.
Prende le buste della spesa e senza dire una parola entra, chiudendo con un gesto secco la porta. Mi supera e va in cucina. Io non riesco a muovermi.
«Pensi di venire ad aiutarmi?» Anche se si muove con apparente scioltezza, è nervoso. Lo capisco dall'espressione concentrata che gli increspa la fronte e gli contrae la mandibola. Questo mi tranquillizza. Lo osservo lavorare, ammirando la grazia dei suoi muscoli in movimento, mentre sbatte con la frusta il composto per le crepes.
«Vieni, fallo tu». Mi passa la frusta e si sposta dietro di me. «Continua così».
Sbatto il composto finché non diventa una crema vellutata. Mi giro. I suoi occhi azzurri mi fissano incupiti e troppo profondi perché io possa scorgervi i pensieri. Si appoggia al bancone, prima con un braccio, poi con l'altro, imprigionandomi. In ogni momento sembra combattere contro il suo stesso desiderio. Poi cambia posizione e la sua espressione si distende. Si sporge e intinge un dito nella crema ancora tiepida.
«Assaggia». Esito e alcune gocce cadono dal suo dito sulla mia maglia. Non accenna a spostarlo, quindi mi avvicino e inizio a leccare. La bocca mi si riempie del sapore della sua pelle mischiato a quello della vaniglia e del succo di limone. Ma non mi basta. Sto per chiedergli di lasciar perdere la cena, quando lui si allontana. Prende uno spicchio d'arancia e torna da me. Avvicina il frutto alle mie labbra e io inizio a succhiarlo, prima piano poi più avidamente, inebriata dal suo sapore e dallo sguardo eccitato di Gavin.
Ora però decido che tocca a me. Prendo un altro spicchio e glielo porto alla bocca. Lui mi afferra la mano e inizia a succhiarlo, lasciando che il succo coli sulle mie dita per poi leccarle a una a una, dentro e fuori dalla sua bocca, con ingordigia. Lo fisso esterrefatta e allo stesso tempo così eccitata che, quando mi solleva e mi fa sedere sul bancone, grido per la sorpresa.
Si ferma. Mi guarda, malizioso e maligno, consapevole del suo potere su di me. In quegli occhi però scorgo anche qualcos'altro, dolore o forse rammarico, e so che se volessi potrei fermarlo e digli di andarsene. Invece non lo faccio. Lo osservo sollevare piano un lembo della gonna. Poi si inginocchia, scosta gli slip e inizia a stuzzicarmi, succhiando il mio sesso come aveva fatto prima con lo spicchio d'arancia, con gusto e avidità, a fondo nel mio umore, portandomi sempre più vicina al limite. Solo in quel momento, mentre in preda ai tremori mi lascio andare a quella sensazione di puro piacere, capisco il suo avvertimento. Ma ormai non ho più scelta. Si alza e con il dorso della mano si asciuga la bocca. Lentamente l'orgasmo si ritira si ritira insieme all'ondata di passione che lo aveva scatenato e io resto imbambolata a fissarlo. Mi ricompongo. Lui si allontana e mi scruta, anzi no, mi divora con gli occhi.
Restiamo immobili così per qualche secondo, finché lui cambia di nuovo posizione. Insinua una mano nello scollo della maglia per massaggiare un muscolo contratto e quel gesto così naturale mi fa tornare in me. Vorrei sfilargli la maglia e massaggiarlo io stessa, quel muscolo.
«Hai fame?», la sua voce mi arriva distante, come se non mi aspettassi di risentirla così presto. «Devi mangiare», insiste. Mi dà le spalle, butta via la salsa ormai inutilizzabile e si rimette ai fornelli. Lo sento chiudersi, e non so perché.
Mangiamo in silenzio, osservandoci ogni tanto di sbieco. Il calore e la passione che mi avevano attraversato pochi minuti fa sono svaniti, lasciando il posto a un'indifferente freddezza. Bevo un sorso di succo di arancia, consapevole che non riuscirò mai più a fare una cosa del genere senza pensare a lui. Quando abbiamo finito, prende i piatti, li porta in cucina e inizia a lavarli. Questo è troppo, la tensione che ho accumulato durante la cena mi sta soffocando.
Lo raggiungo, l'acqua scorre nel lavello. Mi avvicino e lo mordo nell'incavo del collo, appena sopra la clavicola, lasciando un evidente segno rosso sulla sua pelle. Lui lo sfiora sorpreso con le mani ancora bagnate di schiuma, poi si volta verso di me.
«Hai ancora fame?», il tono tranquillo con un lo dice non riesce a nascondere la sua eccitazione.
«Sono affamata», rispondo.
Non gli lascio il tempo di ribattere, lo spingo indietro contro il lavello. La sua mano scivola dietro la mia testa, cercando di prendere il controllo, ma questa volta non glielo permetto. Lo bacio sotto il mento, all'altezza della giugulare e del pomo d'Adamo, tracciandone la linea con la lingua. Infilo le mani sotto la sua maglia e la sollevo, facendola passare dietro la testa. Con i polpastrelli sfioro la pelle tesa dei suoi pettorali, girando intorno ai capezzoli, leggera come una piuma, seguendo la linea degli addominali fino all'invitante sentiero di peluria appena al di sopra dei jeans.
Lì mi fermo. Lo guardo, è visibilmente sconvolto. Questo mi dà la forza di proseguire. Gli sbottono i jeans e mi inginocchio, proprio come lui ha fatto con me prima. Schiudo le labbra e lo sento, il potere che fino a poco fa era nelle sue mani, gonfiarsi umido e duro nella mia bocca al ritmo della sua eccitazione, sempre più pressante, sempre più incontenibile a ogni movimento rapido della lingua, a ogni affondo nella mia gola, fino a esplodere a pochi millimetri dalle mie labbra.
Si ritrae di scatto, l'espressione contratta come in preda al dolore. Apre l'acqua, si sciacqua, riabbottona i jeans, si infila la maglia ma rimane di spalle davanti al lavello. Temo quasi voglia andarsene, quando si volta e mi bacia fino farmi mancare il fiato. È un bacio possessivo e violento, profondo quanto il dolore che scorgo nei suoi occhi. Non so se è questa sensazione che mi spinge a prenderlo per mano e a condurlo in camera da letto.
Lo spoglio, questa volta con tenerezza. Inizio a massaggiargli i muscoli delle spalle finché non si sciolgono sotto le mie dita e lui si abbandona al calore di dolci carezze e tocchi leggeri.
Ci addormentiamo così, una nelle braccia dell'altro, svuotati di ogni energia, consumati dal piacere di aver condiviso qualcosa di unico, spaventoso e bellissimo.
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