Capitolo 6: 10 anni prima, Gavin (aggiornato)


6

Gavin

10 anni prima.

New York

Senza pace la cerco. Cerco il suo profumo fra le lenzuola fredde del mio letto. Seguo il suo sorriso nelle stanze vuote di questa casa. Ma ovunque mi volti mi sento sempre più solo. Passano i giorni e, mentre Kit ricomincia ad andare avanti, io non ci riesco, resto fermo. Non posso muovermi senza di lei. È quello che mi ripeto ogni mattina appena mi sveglio e mi chiedo come farò ad affrontare la giornata.

Un altro giorno senza di lei. Gli amici dicono che dovrei sforzarmi di reagire, che sono depresso e dovrei parlarne con qualcuno, un esperto, perché anche se non lo ammettono sono stanchi del mio umore tetro. Non c'è nulla di male, in fondo, nell'andare in analisi, dicono. Tutti lo capirebbero. Quello che non capisco io è come possa un estraneo comprendere il dolore che mi lacera l'anima ogni volta che mi giro e lei non è accanto a me.

Mi manca tutto di lei, anche le cose che pensavo odiare. Mi manca più dell'aria che ogni giorno sono costretto a respirare. Apro la portafinestra ed esco in terrazza. Il sole sta tramontando e tinge dei suoi colori il ponte di Brooklyn, una luce tersa e bellissima. È per questa vista che abbiamo deciso di comprare la casa. Ogni sera passeggiavamo mano nella sul quel ponte ammirando il sole calare sui grattacieli di Manhattan attraverso l'intreccio dei suoi cavi, sussurrando a nostro figlio, ancora nel grembo di Vivian, quanto può essere scuro ma anche luminoso il mondo. Vivian era la mia luce e, ora che non c'è più, tutto mi sembra più buio.

Kit entra senza nemmeno salutare e si piazza davanti a me. Noto che non ha il solito sacchetto con gli avanzi del ristorante che in questo periodo hanno sostituito i miei pasti. Brutto segno. «Stasera usciamo».

Sto per dirgli che non ho nessuna intenzione di assecondare un altro futile tentativo di tirarmi su il morale, quando tira fuori una cartolina dalla tasca posteriore dei jeans e me la sventola davanti.

«Ho trovato la soluzione che fa per te».

Gli strappo di mano il pezzo di carta e, dopo aver letto, lo lancio via.

«Un locale per appuntamenti? Non mi sembra una grande idea».

Lui si siede sul divano mentre io resto in piedi.

«Invece credo proprio di sì. Hai bisogno di distrarti. Non dico che qui troverai la tua anima gemella, non sono così stupido, ma devi ricominciare».

Capisco cosa intende. «Era Vivian la mia anima gemella. Non ci sarà mai nessun'altra come lei, fine della storia».

Poi però ci penso. Mi accascio alla parete e lascio cadere la testa all'indietro. È difficile ammetterlo, ma credo che Kit abbia ragione. Non posso andare avanti così.

«Va bene. Resterò un'ora, non di più. Ma non otterrai nulla».

Il locale è peggiore di quanto pensassi. Ragazze in abiti sgargianti e striminziti, uomini in camicia nera e jeans che cercano un modo disinvolto per approcciarle senza sfigurare davanti agli amici. La musica è altissima, l'odore di alcol e sudore mi dà la nausea.

«È stato un errore venire qui», dico a Kit. Mi volto e faccio per uscire.

Lui mi ferma. «Siediti e prendi qualcosa da bere. Vedrai che ti aiuterà a scioglierti».

Preferirei andarmene, questo posto non fa per me. Ma non è una cattiva idea annebbiare un po' i pensieri con l'alcol. Mi siedo a un angolo del bar, sperando di non essere disturbato prima di qualche minuto.

«Ciao. Cosa ti porto?», mi chiede la barista solo pochi istanti dopo, nonostante il locale sia affollato e ci siano altre persone che aspettano di essere servite.

Non rispondo subito. Lei mi rivolge un sorriso. È carina, devo ammetterlo. Ha quel fascino che spinge un uomo a non distogliere lo sguardo. Siccome non le ho ancora risposto, serve un altro cliente. La osservo chinarsi per prendere una bottiglia. Si vede che è molto giovane. La pelle chiarissima è messa in risalto dai capelli rossi e ricci, raccolti in un modo strano dietro la testa.

«È un pastello, quello?», le chiedo attirando di nuovo la sua attenzione non appena è abbastanza vicina da sentirmi e indicandole i capelli. Lei sorride mentre finisce di versare il liquido nel drink che sta preparando, e potrei giurare di vedere le sue guance arrossire.

«Beccata, sono venuta al lavoro da scuola, non ho avuto il tempo di sistemarli».

«Vai ancora a scuola?», chiedo sorpreso e non posso negare di essere anche un po' deluso.

«Mmm-hmm», annuisce versandomi nel bicchiere lo stesso liquido rosso, mischiato a qualcos'altro di più chiaro e servendomi un drink che non ho ordinato.

«Sono all'ultimo anno dell'istituito d'arte. Ma sono maggiorenne, altrimenti non potrei lavorare qui», precisa subito. Mi fa cenno di bere. «Questo cocktail l'ho creato io. Sei il primo a provarlo. Quindi, se non lo sputi, offre la casa». Mi fa l'occhiolino e va a servire un altro cliente. Bevo un piccolo sorso, che non è così male, e la guardo.

Troppo giovane, mi ripeto. Meglio lasciar perdere. Guardo l'orologio. L'ora è quasi trascorsa. Mi alzo e prendo la giaccia. Sto per andarmene quando una donna mi passa accanto camminando sui tacchi. Uno in quel momento si rompe, lei perde l'equilibrio e si aggrappa al mio braccio per non cadere.

Istintivamente la sorreggo e l'aiuto a rialzarsi. Le chiedo se sta bene e se riesce a camminare. Poi l'accompagno fino al bancone e chiedo alla barista un po' di ghiaccio avvolto in un canovaccio, che sistemo sulla caviglia.

«Grazie, sei molto gentile».

Quando sono sicuro che la caviglia non sia rotta né slogata, mi alzo e faccio per andarmene. Ma la sua mano si muove sul mio braccio.

«Mi chiamo Karen», si presenta lei.

«Gavin», rispondo impacciato, stringendogliela.

«Bevi qualcosa come me, Gavin?» E il suo sguardo malizioso non lascia dubbi sulle sue intenzioni.

Mi volto e vedo Kit che sta parlando con un'altra donna. Lui ci sta provando, perché non dovrei farlo anch'io? Che mi piaccia o no, la vita continua.

Mi risiedo. «Certo».

Più tardi, nel suo letto, mi rendo conto che non è così semplice. Fisso l'oscurità sopra la mia testa, sembra volermi divorare. Il suo corpo, fino a poco fa così caldo e invitante, ora mi è del tutto estraneo. Ma a differenza di prima non provo più né dolore né frustrazione. Solo un leggero intorpidimento che offusca ogni altro pensiero. Qualcosa dentro di me si è spento, un barlume della luce che Vivian mi aveva donato. Ho bisogno di rifarlo per provare di nuovo quel calore. Le mordo la spalla. Lei si gira con un sorriso.

«Hai fame?», mi chiede divertita.

«Sono affamato».

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