Capitolo 14 (aggiornato)


Gavin

10 anni prima.

New York Medical Hospital

Le porte a vetri scorrono. Entro, intorno a me il caos. Cerco subito qualcuno che mi possa dire dove hanno portato Vivian. Ma né l'infermiera all'accettazione né i medici che stavano sostando nella sala del pronto soccorso riescono a darmi informazioni. Com'è possibile?

L'infermiera continua a ticchettare sui tasti. «Mi dispiace, signore, fra i ricoveri di stasera non trovo nessuna paziente con quel nome. È sicuro che l'abbiano portata in questo ospedale?»

«Certo che sono sicuro!» Sbatto la mano sul bancone.

«Stia calmo, per favore. Perché non si siede? La chiamo io quando saprò qualcosa». E riprende a battere sui tasti. Sto per dirle che non vado da nessuna parte, quando intravedo uno dei paramedici che ci ha portati qui dirigersi a passo svelto verso l'uscita. «Aspetti!», urlo. Lo raggiungo prima che oltrepassi le porte.

Sta iniziando a nevicare.

«Mi scusi, sa dirmi dove hanno portato mia moglie?» Ho il fiato corto.

Lui mi guarda sorpreso, come se non mi avesse riconosciuto. Poi risponde: «Dovrebbero averla portata in sala operatoria. Ma non glielo so dire con certezza. Chieda...», indica l'infermiera all'accettazione, che sempre più nervosa e indaffarata cerca di rispondere a tutte le richieste delle persone che si affacciano smarrite al suo bancone. Se non fossi sconvolto, proverei pena per lei.

Mi giro di nuovo verso il paramedico, come se fosse l'unica persona in grado di dirmi quello che ho bisogno di sentire. Anche se so che non è così.

«Ce la farà?» E il peso di quelle due parole mi spazza la voce.

Lui mi guarda, indeciso se rispondere. Poi sospira.

«Questo non sta a me dirlo...», fa una pausa come se volesse aggiungere qualcosa, poi indica con un dito il cielo scuro punteggiato di bianco. «Mi dispiace, ma ora devo proprio andare». Esce coprendosi la testa con il berretto e corre verso l'ambulanza.

Resto qualche secondo fermo davanti alle porte a vetri che si aprono e si chiudono, chiedendomi che cosa devo fare adesso. Una mano si posa sulla mia spalla.

«Signore? Ho trovato sua moglie. C'era stato un problema con la registrazione», mi spiega l'infermiera dandomi il numero del piano.

Corro verso l'ascensore. Blocco le porte con una mano e salgo. Arrivato al reparto, inizio a correre senza sapere dove andare finché un'infermiera mi ferma e, dopo avermi chiesto chi sono e chi sto cercando, mi indirizza verso la sala d'attesa giusta. Mi lascio cadere su una sedia di plastica, prendendomi la testa fra le mani. Non so quanto tempo rimango in quella posizione. I minuti si trasformano in ore lunghe quasi una vita. Provo anche a pregare, ma non ci riesco, convinto che se ci fosse un dio non priverebbe mai la mia vita di una luce intensa come quella di Vivian.

A un certo punto la stanchezza vince. Chiudo gli occhi per qualche minuto, ma li riapro poco dopo svegliato dal rumore strascicato di passi che si avvicinano. Mi tiro su passandomi una mano sulla faccia e fisso con occhi vacui l'uomo in camice verde di fronte a me, un chirurgo.

«Signor Forbs?»

Annuisco.

«L'intervento di sua moglie è terminato. Abbiamo fermato l'emorragia interna e cercato di ridurre l'ematoma subdurale. Le sue condizioni sono stabili, ma ancora molto critiche. Ora si trova in terapia intensiva».

Deglutisco a fatica, come se avessi degli spilli piantati in gola. «Crede che si riprenderà?»

L'uomo si siede accanto a me, segno per nulla incoraggiante. «Purtroppo non glielo so dire in questo momento. Le prossime ore saranno decisive. Abbiamo di fronte due scelte: possiamo far nascere il bambino, ma viste le sue condizioni non credo che sua moglie riuscirebbe a sopportare le conseguenze di un cesareo. Oppure possiamo aspettare sperando che l'ematoma si riassorba e i valori salgano abbastanza da consentirci di procedere con un secondo intervento, ma anche se questo andasse a buon fine le probabilità che sua moglie si risvegli sono comunque poche».

«E il bambino?», chiedo aggrappandomi anche al più flebile barlume di speranza.

Scuote la testa. E allora capisco cosa sta cercando di spiegarmi.

Non posso salvarli entrambi.

«Deve prendere al più presto una decisione. Ogni minuto è prezioso», dice il chirurgo alzandosi. Mi batte una mano sulla spalla. Prima di voltarsi indica la mia mano sinistra. «Da quanto siete sposati? Ho notato che anche la signora non porta la fede».

Alzo la mano fissando l'anulare. «Non lo siamo ancora. Dovevamo sposarci fra due giorni».

L'uomo mi guarda dolente. «Capisco, allora in questo caso temo che lei non possa fare niente. Non essendo di fatto il coniuge, non può prendere decisioni mediche per la signorina. La decisione spetta alla famiglia. Dirò alla caposala di accompagnarla...»

«Cosa?» Scatto in piedi. «Si tratta di appena due giorni! Il figlio che porta in grembo è mio! Questo non conta nulla?»

«Certo. Ma purtroppo per la legge non è sufficiente. Infermiera...», dice cercando con lo sguardo qualcuno che possa aiutarlo.

Lo afferro per un braccio. «Aspetti, non può farmi questo!»

«Mi lasci andare, per favore», dice il medico perdendo un po' della sua gentilezza.

«Mi faccia restare, la prego», lo supplico senza mollare la presa.

«Vedrò se posso fare qualcosa, ma ora si calmi o non potrò aiutarla». Le lacrime iniziano a solcarmi il volto non appena realizzo che sto per perderla per sempre. Un infermiere sopraggiunge alle mie spalle e cerca di allontanarmi. Mi volto e noto la scritta terapia intensiva a qualche metro da me, nella direzione opposta rispetto a quella in cui mi sta trascinando l'uomo.

«C'è un'altra sala d'attesa appena fuori di qui, potrà aspettare lì la famiglia e discutere con loro la situazione», cerca di tranquillizzarmi il chirurgo.

Vedo la porta del reparto in cui si trova Vivian allontanarsi sempre di più. Non sono pronto a lasciarla andare. Non ancora. Mi giro di scatto e colpisco sul naso l'infermiere con il gomito, poi inizio a correre verso quella porta. Non ho idea in che stanza si trovi Vivian, ma in questo momento non ci penso. Tutto ciò che voglio è sentirmi un altro passo più vicino a lei.

Alla fine due uomini della sicurezza mi bloccano, premendomi la faccia a terra per tenermi fermo. Sento un ago perforare la pelle e il sedativo entrare in circolo, annebbiandomi la vista. Le gambe cedono e io scivolo in un innaturale torpore.

Apro gli occhi sbattendo più volte le palpebre per mettere a fuoco l'ambiente circostante e capire dove mi trovo. Dopo poco un'infermiera entra nella stanza.

«Ben svegliato», mi sorride. Si avvicina e mi sfila dal braccio l'ago che mi collega alla flebo sopra la mia testa. La fisso sospettoso.

«Tranquillo, è solo soluzione fisiologica. Per smaltire più in fretta il sedativo». Si china. «Mi hanno detto quello che hai fatto. È stato stupido... ma molto coraggioso», dice con il tono di una che legge troppi romanzi d'amore. Prende la sedia a rotelle sistemata in un angolo della stanza e l'avvicina al letto.

«So che me ne pentirò ma... che ne dici di andare a fare un giro?» 

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