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Si era seduta al solito posto: sul bordo dell'edificio, a un passo dal cadere. Era diventata un'abitudine, da dieci giorni il silenzio era diventato così insopportabile che alla fine si era arresa ad esso, si era lasciata semplicemente sommergere senza opporre resistenza. Non era stato perché volesse scomparire e non essere notata, anzi, Ben lo capiva, tutto quello di cui aveva bisogno non era la solitudine, ma il tempo, lei necessitava di tempo, dello scorrere lento di quei maledetti secondi che stavano rendendo sempre più impossibile ogni respiro. C'era stato quel preciso istante, cinque giorni prima, in cui aveva visto quella luce nei suoi occhi, esprimeva paura, terrore racchiuso in quello sguardo. Sapere che anche lei aveva visto il terrore, conosciuto l'oscurità e guardato il dolore l'aveva terrorizzato. Si era sentito così impotente, la paura era sempre stata sua nemica, ma l'aveva controllato per così tanto tempo che ormai credeva di essergli diventato indifferente, ma si sbagliava, riusciva ancora a immobilizzarlo, a destabilizzarlo, a bloccargli il respiro. Rey non era come lui, lei la controllava, anche se le costava molto, ce la faceva, anche se lei credeva di esserne sopraffatta lui vedeva la forza con cui resisteva ad essa.
È solo che volte arriva tutto troppo in fretta, ti colpisce con tale impeto da farti cadere a terra e ti si mozza il respiro, chiudi gli occhi ma il dolore non scompare e continui a fare respiri profondi, ma i minuti sembrano ore, inizi a sentire quella scarica elettrica che sale e non riesci a capire cosa ti sia preso. La differenza è che alcuni, invece di resistere, perdono il controllo. Non era per cattiveria, ma era giusto pensarla così: molte, troppe persone, non sanno sopportare il dolore, ne sono completamente sopraffatte, a tal punto dal non riuscire più a sentirlo e forse questa è la paura, perché è silenziosa, si annida dentro di te e, se trova qualcosa a cui aggrapparsi, resta lì in attesa del momento giusto per saltar fuori.
La realtà è solo una, anche se è difficile da ammettere: ne siamo tutti soggetti. Era normale in fondo, chiunque può provare dolore e forse è anche un dovere sentirlo almeno una volta, così si impara o a temerlo o a farne un proprio punto di forza.
Era una bella giornata, nonostante l'aria fredda. Non c'era ne troppa luce ne troppa ombra, c'era quella via di mezzo che rendeva il tutto così monotono. Eppure bastava poco per portare il caos, Rey se ne era accorta, bastava pochissimo.
Non aveva voluto vedere nessuno, solo un paio di medici si assicuravano che stesse bene e che mangiasse qualcosa, anche se il piatto rimaneva sempre mezzo vuoto. Si sentiva così esclusa da tutto che non si riteneva in grado di rivedere quei due droidi bizzarri, BB-8, il generale, gli amici e...Finn.
Sollevò la testa e si voltò, consapevole di non poter scappare e sorpresa al contempo di come potesse riuscire a stare ferma e a non esprimere nulla al di fuori della sua maschera impassibile. Ma quella superficie si crepò nell'esatto momento in cui si alzò. Senza dire nulla si diresse verso la persona che stava in piedi di fronte a lei e, arrivata a poca distanza, le si butto tra le braccia.
Finn si sentì bene, sollevato dal rivederla, ma aveva percepito la freddezza del suo sguardo e ciò l'aveva scosso, non aveva mai visto i suoi occhi così gelidi mentre osservavano il paesaggio freddo di quel pianeta, era così abituato all'espressione stupita di lei ogni volta che scopriva qualcosa di nuovo, al sorriso ogni volta che la vedeva, al non vederla così: distrutta.
Ricambiò l'abbraccio, ma quando si accorse di stare male così stretta tra le sue braccia Rey si staccò in fretta, fece qualche passo indietro e lo guardò.
Era felice di vederlo, ma si vedeva che cercava di reprimere ogni emozione, forse pensava che in questo modo sarebbe stata meglio.
Lasciò andare l'aria che aveva trattenuto e osservò incuriosita la piccola nuvola opaca che il respiro caldo aveva formato a contatto con l'aria fredda, fu sul punto di lasciar perdere la logica e ritornare dentro la base, se non fosse stato che notò l'espressione interrogativa di Finn.
-Come stai?- una semplice domanda, si aspettava di essere sommersa da domande alle quali sarebbe stato difficile rispondere e si ritrovò impreparata.
Stette in silenzio e, dopo secondi pieni di tensione, rispose.
-Bene...- probabilmente Finn voleva sentire di più, ma lei non se la sentì di dire altro.
-No, non è vero.- Rey si sentì poco stabile sulle gambe, alla fine doveva dire le cose come stavano, perché mentire?
-Hai ragione, non lo è.-
Finn fece un passo avanti, lei rimase immobile, anche se in realtà voleva voltarsi e allontanarsi, lui lo notò, era fastidioso, quasi insopportabile per Rey essere come un libro aperto di fronte a tutti. Era così evidente che fosse...diversa?
-Cos'è successo?- ecco, era questa la domanda che non voleva sentire, perché le persone sono sempre così maledettamente prevedibili? Perché fanno sempre le solite e difficili domande?
Non sapeva cosa rispondere, cosa poteva raccontare? Aveva troppo da dire e così poche parole per dirlo, perché non sarebbe riuscita a dare un breve riassunto di tutto quello che era successo, non poteva ridurre tutto a qualche frase.
-So perché eri lì.- questo non la stupì più di tanto, in fondo non poteva rimanere segreta la sua missione.
-Non riesco a parlare, perdonami.-
-Non importa, se vuoi mi trovi al solito posto, vicino alla sala comune...c'è ancora la cioccolata che ti piaceva.- le sorrise. Un semplice piegamento delle labbra che rese l'atmosfera meno pesante. Rey ne fu sollevata e cercò di imitare quel suo gesto al meglio che potè, ma non disse nulla, non tentò di fermarlo quando lo vide voltarsi e scomparire dalla sua vista.
Rimase ancora ferma per qualche secondo, minuto, non sapeva quanto stette lì a guardare per terra.
Fu come vedere qualcosa passarle velocemente davanti agli occhi: la neve che ricopriva il tetto dell'edificio sembrò sciogliersi e lasciar spazio ad uno strato sottile di polvere grigia, la luce divenne meno forte, un'ombra oscurò il cielo, sollevò la testa. Era circondata da pezzi di cenere incandescenti che ricadevano attorno a lei, osò fare qualche passo avanti, mantenne gli occhi fissi su un punto lontano qualche metro da lei. Si stava avvicinando, era inquieta, non spaventata, ma era quella sensazione di sbagliato, di vuoto, quello che ti divora, che stava provando. Quando arrivò a poca distanza da ciò che voleva raggiungere percorse con lo sguardo la strada fino ad esso e lo vide. A terra, fermo, immobile. Era così reale, così distruttivo da vedere. Perché lo stava vedendo? Cosa stava succedendo? Non lo poteva sopportare. Ma non era reale! Continuava a ripeterselo: non è reale, non è lui, non lo è, non lo è. Per qualche istante le sembrò di impazzire, era dolore quello che stava provando e lei stava tentando di scacciarlo in ogni modo. Come poteva essere stata così debole? Era bastato poco, un istante di vulnerabilità e la sua mente era stata un facile bersaglio: Snoke era riuscito a colpirla.
Era troppo da sopportare, per qualche secondo temette di perdere il controllo, ma si ricordò di una cosa: lei era forte, gliel'aveva detto Ben, lo era.
-Basta! Esci dalla mia testa!-
Respirò, ma, poco prima di entrare a contatto con l'aria gelida che circondava la base, sentì qualcosa: un urlo, qualcuno stava urlando il suo nome.
Crollò in ginocchio sulla superficie gelata, tastò con le mani la neve che la circondava, cercò di controllare il respiro, di calmarsi, doveva calmarsi, ma più cercava di imporsi un po' di autocontrollo più le sembrava di soffocare.
Sapeva chi era, sapeva chi stava urlando.
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