Capitolo 8

Nonostante mi fossi imposto una disciplina ferrea per non lasciarmi sopraffare dall'angoscia, cedevo continuamente, con doloroso compiacimento, a ondate di infelicità. 

Quando un giorno si concludeva, ne cominciava uno nuovo, in una sfocata successione di giorni, ciascuno praticamente indistinguibile dal precedente.

Le giornate scorrevano lente, e così mi lasciai ibernare per il resto della settimana. I quattordici giorni successivi al funerale furono un continuo susseguirsi di noia vuota. Una tristezza cresceva lentamente dentro di me, espandendosi fino a togliermi ogni voglia di uscire, perfino la domenica.

Dal giorno del funerale non mi ero fatto vivo con nessuno e, in generale, non uscivo quasi mai di casa. A dire il vero, uscivo solo una volta al giorno, per le necessità più urgenti. Per il resto del tempo, me ne stavo immerso in una profonda apatia, chiuso in camera come un recluso. Quella era diventata la mia routine. 

Questo mio modo di trascorrere le giornate si stava consolidando in un modus vivendi, tanto da non accorgermi più di quello che stavo facendo a me stesso. 

Ricevetti diverse chiamate da Emily, ma non risposi. Mi andava bene così; non ero pronto a parlare con nessuno, nemmeno con lei. L'unica eccezione fu un breve incontro, in cui non riuscii a chiederle ciò che avrei voluto. Sembrava evitarmi, e preferì cambiare discorso, come se sapesse già cosa volevo sapere.

Passavo le ore seduto sul letto, con lo sguardo perso nel vuoto, chiedendomi se sarei mai riuscito a trovare la forza per rimettermi in sesto. Stavo lentamente annullandomi, impegnato in una lotta senza fine per dimenticare il peso che mi portavo dentro... o forse il vuoto che mi trascinavo dietro. 

Poi, una mattina, mentre l'ennesima giornata inutile mi attendeva—le stanze di casa vuote, il tedio di una quotidianità implacabile—sentii la pressione schizzare alle stelle, disintegrando l'ultimo residuo di autocontrollo. Fu solo allora che capii quanto fosse difficile affrontare tutto da solo. 

Decisi che era giunto il momento di affrontare il presente; altrimenti avrei continuato a navigare alla deriva. Dopo giorni immerso in quel silenzio opprimente, aprii la porta d'ingresso ed emersi alla luce del giorno per la prima volta. La luce dell'alba accarezzava il Bellum, e veniva voglia di abbracciarla. Non potevo più restare chiuso in casa a rimuginare; avevo lasciato troppo spazio ai pensieri cupi. Era importante riuscire ad arginarli, perché sentivo le crepe dentro di me allargarsi.

Erano passati alcuni giorni da quando la pioggia aveva ceduto il passo all'arcobaleno, e finalmente il cielo si era aperto del tutto. Quel giorno, il sole splendeva più caldo, e le nuvole si diradavano, lasciando filtrare una luce vivida. Non so se fu il bel tempo a convincermi a uscire, o la prospettiva di affrontare nuovamente la casa vuota, ma alla fine decisi di fare due passi per le vie della ciittà, cercando di ritrovare almeno un po' di normalità.

Così mi incamminai senza meta per le strade del Bellum, notando che alcuni passanti sussurravano al mio passaggio, guardandomi con occhi bassi e carichi di pietà. Io, invece, salutavo e sorridevo ai volti familiari che incontravo, in particolare a chi aveva partecipato al funerale.

Chi mi conosceva, ma non era stato presente alle esequie, mi fermava con domande come: "Come stai? Ho saputo della morte dei tuoi genitori, anche se solo ieri." Altri esprimevano il loro dispiacere con frasi del tipo: "Mi è dispiaciuto tanto." La maggior parte dei conoscenti di mamma e papà, però, si limitava a commenti di circostanza, come: "Che terribile fatalità. Avrei voluto essere presente alle esequie."

A poco a poco, i saluti e le frasi di rito si confondevano nella mia mente. Era ormai da un po' che avevo smesso di ascoltarle davvero, tanto ripetevano sempre le stesse cose: quanto fosse stato assurdo. 

Nel frattempo, si era alzato un vento maligno, schiaffeggiando Comunitari e cose sul suo cammino, e aveva invaso le strade del Bellum. Nella via principale del centro cittadino solo cose, dal momento che la strada era deserta. Un cartello di divieto ondeggiava sotto le raffiche, come le ossa di un artrosico, annunciando: "Chiuso al traffico automobilistico e pedonale." Costretto dalla deviazione, imboccai un'altra strada. Proseguendo lungo quel percorso inatteso, sull'altro lato della strada notai una fila di attività: un negozio di fiori, una tabaccheria, un bazar pieno di oggetti vari, un'edicola, un bar frequentato da clienti facoltosi, che sembravano avere come unica occupazione bere qualcosa e osservare i passanti come me, e infine un Centro di psicologia clinica e psicoterapia. 

Era la prima volta che notavo quella clinica, e senza quel tragitto diverso, probabilmente non l'avrei mai scoperto. Su un pannello di alluminio, la vernice rossa su fondo bianco spiccava con la scritta: "A mente aperta." Mi fermai a guardare l'ingresso, leggendo più volte la targa con il nome del Centro. Mi sentivo indeciso, ma la curiosità e il bisogno di affrontare il mio dolore mi spinsero a cercare maggiori informazioni. Passai alcuni minuti a esaminare il depliant appeso alla bacheca esterna, e decisi di rifletterci ancora.

***

Al mio risveglio, il cielo del Bellum proiettava sul pavimento una lama di luce. Dai tetti degli edifici il vento spazzava via nuvole di pulviscolo gelato.

Nemmeno il freddo poteva distogliermi dalla mia decisione: raggiungere la clinica. Anzi, quando uscii di casa, quella sberla gelata mi sembrò una carezza. Dopo giorni di esitazione, avevo finalmente deciso di affrontare le mie sofferenze.

Sentivo l'urgenza di liberarmi dalle ansie che mi inghiottivano come sabbie mobili. Dovevo prendermi cura di me stesso, riempire il vuoto delle mie giornate e trovare un equilibrio nel caos che portavo dentro.

In passato parlavo di tutto con mamma e papà, e ora quella mancanza si faceva sentire più che mai. Avevo bisogno di qualcuno che mi dicesse come affrontare la mia situazione, uno scoglio a cui aggrapparmi in mezzo alla tempesta.

Fu quella consapevolezza a spingermi a varcare la soglia di quell'edificio. Non fu una scelta presa alla leggera, ma una mossa ponderata, motivata dal bisogno di alleviare le mie ansie. In un certo senso, era come cercare asilo dal mio dolore. 

Camminai veloce sulle mie sneakers fasulle che scintillavano ad ogni passo, succhiando una caramella al miele che avevo comprato al bar dopo aver fatto colazione.

Quando finalmente arrivai, abbracciai l'ingresso con un colpo d'occhio. Non era molto diverso da un grande ambulatorio, ma sembrava più accogliente rispetto a un comune ospedale.

Si trattava di un ampio locale adibito a sala d'attesa, arredato per sembrare un ambiente familiare, con numerose piante in vaso, diversi posti a sedere imbottiti, divani per accogliere i visitatori e riviste da sfogliare. Sul lato opposto all'entrata, come in un ufficio postale, c'erano vari sportelli per richiedere informazioni e prenotare appuntamenti. Le pareti erano tinteggiate in una gradevole tonalità violetto, un vero e proprio inno ai prati di lavanda, che avevo visto solo una volta in un documentario alla tv: "Un viaggio alla scoperta dei paesaggi incontaminati del Dominio." Nella stanzetta adiacente, in un angolo, si intravedevano distributori di cibo e macchinette del caffè.

Quando osservai i suoi ospiti, fui subito preso da uno scoramento profondo. Il posto brulicava letteralmente di giovani che attendevano il loro turno per essere chiamati a uno dei tanti sportelli. Alcuni parlavano con il vicino, altri borbottavano tra sé, mentre altri ancora eseguivano strani esercizi con le mani. Uno, in particolare, teneva le mani attaccate alle cosce e le stringeva con forza; un altro fissava il soffitto, immobile; un terzo, da seduto, si dava leggeri colpetti con la testa sulla coscia destra. Era una vera accozzaglia di comportamenti eccentrici. In una parola: caos.

Il brutto di quei posti è che, se avessi chiesto a ognuno di quei giovani di raccontarmi la loro storia, probabilmente sarebbero state tutte tristi. Mi bastò guardarli in faccia per capirlo. In attesa del mio turno per prendere dei moduli allo sportello e compilarli, i miei occhi vagavano, indugiando sui loro volti: da quelli che parlavano ad alta voce da soli a quelli che fissavano il muro davanti a loro. Uno, in particolare, si fermava teatralmente davanti a ciascuno dei presenti in sala e, con un ampio sorriso luminoso e appena disperato, diceva: "Buongiorno, signore, come state oggi?"

Accanto ai più giovani, c'erano anche i genitori, che guardavano impotenti i loro figli spezzati. Probabilmente dovevano fare i conti quotidianamente con il loro disagio. Mentre osservavo le facce di questi pazienti e dei loro genitori, mi resi conto che anche loro avrebbero potuto fare lo stesso con me. Come sarei apparso ai loro occhi? Allo stesso modo spezzato come lo erano loro ai miei? Mi avrebbero giudicato criticamente, come stavo facendo io, sebbene astrattamente?

Mi sedetti accanto a uno di loro, che a prima vista sembrava tranquillo. Tuttavia, quando iniziò una conversazione strana,  faceva venire il mal di testa da ottovolante, lo troncai subito dicendo: "Sono venuto qui solo per prendere e compilare i moduli di accettazione." Era assolutamente vero, e non volevo essere giudicato o sottoposto a domande indiscrete sul motivo della mia presenza.

Dopo un po', mi stancai di stargli accanto e mi defilai in un angolo della sala. Per ingannare l'attesa, sfogliai una rivista presa poco prima. Così facendo, evitavo di attirare l'attenzione mentre rimanevo per conto mio. Mi persi in qualche articolo sensazionalistico: divorzi di celebrità, resoconti drammatici su modelle anoressiche e cronache rosa. Dopo aver letto qualche pagina, posai la rivista su un tavolino e mi avvicinai al distributore automatico per prendermi un caffè.

Mi seguì lo stesso tipo con cui poco prima avevo troncato la conversazione. Mi si avvicinò proprio mentre stavo mettendo una moneta nella fessura della macchina.

"Vuoi un caffè?" mi chiese, gli occhi sbarrati.

"Sì, lo vuoi anche tu?"

"Un caffè da quel coso?" replicò, scuotendo la testa. "Non sono mica matto! Poi dovrebbero farmi l'autopsia per capire cosa mi ha avvelenato."

Risi, ma con un sorso buttai giù il caffè, subito accompagnato da una smorfia di disgusto. In  bocca il liquido bollente sapeva di sciacquatura amara di piatti.

"Accidenti, che schifo!" esclamai.

"Perché lo hai bevuto se ti fa schifo?" ribatté.

"Forse per ricordarmi che la vita è dura e piena di difficoltà."

"E ti serve quella roba? Non basta guardarti intorno?" aggiunse, scappando via ridendo a squarciagola, fino quasi a strozzarsi, come se la sua stessa battuta fosse la più brillante del mondo. 

Non mi ero accorto che nella stanza ci fosse anche un'altra ospite della clinica. Nonostante la luce artificiale, che dava agli incarnati una leggera sfumatura arancione, la sua pelle era chiarissima, da torta di matrimonio, in netto contrasto con i colori del vestito.

Avanzò verso di me con passo deciso, come se seguisse una linea retta immaginaria. Si accese una sigaretta e mi accorsi che le mani le tremavano così tanto da dover tenere la destra con la sinistra. Il suo sguardo si muoveva in più punti, come se stesse osservando tutto e nessuno allo stesso tempo.

Si fermò davanti a me, piantandosi con gambe divaricate e mani sui fianchi, come se volesse occupare tutto lo spazio.

Probabilmente aveva ascoltato la conversazione, perché mi si rivolse con uno sguardo pieno di intenzionalità litigiosa, dicendo: "Un caffè di merda, una chiacchierata ancora peggiore col proprio analista, e ci si ricorda di essere vivi." La sua voce era squillante, acuta, come un grido di sfida. 

Rimasi muto, incapace di risponderle. Ovviamente, avevo già sputato tutto nel cestino accanto al distributore di ciofeche.

Finalmente, era arrivato il mio turno. La tipa del "caffè di merda" mi salutò con un cenno della mano, che io ricambiai distrattamente.

Non so perché, ma agitai anche la mano con l'impiegata dietro il vetro, come per attirare la sua attenzione, come se volessi farle capire che ero io, e le sorrisi, come se stessi salutando un'amica.

Allo sportello mi attendeva un viso femminile con due occhi enormi e un naso altrettanto grande. Non capii perché, ma in quell'istante mi sentii fuori posto, tanto che mi sudarono le mani. Forse perché, dietro quel vetro, mi accoglieva una figura inquietante che indossava un camice azzurro su cui spiccava il logo della clinica. Dato che non dicevo nulla, lei mi guardò un po' perplessa e, con un tono che denotava scetticismo, mi chiese con una vocina asciutta e rapida che la faceva assomigliare a un topo che squittiva: "Ma sa parlare?"

Mi sentii improvvisamente in imbarazzo, come se fossi stato colto in fallo. Deglutii, avvicinandomi a qualche centimetro dal vetro per risponderle. «Beh, sì,» dissi, cercando di mantenere la calma, mentre continuavo a fissare i suoi capelli verdi sparati in tutte le direzioni e la bocca tinta di nero.

"Bene. Allora, nome e motivo della sua richiesta".

Dopodiché, mi fece compilare il modulo d'iscrizione al programma di cura, spiegandomi il numero minimo di incontri che avrei dovuto seguire. Mi registrai, rispondendo alle domande in modo elusivo e sorprendendo me stesso con quanto fossi abile a farlo.

Mi indicò che l'unico dottore disponibile, da lì a poco, quella mattina era il dottor Wallace, situato al terzo piano, secondo corridoio a destra.

"Le va bene?"

Restai zitto per un attimo e lei interpretò quel silenzio a denti stretti come un sì.

"Va bene. Allora confermo," aggiunse, prima di consigliarmi di cercare l'ascensore proprio in fondo a quel corridoio.

Presi il primo ascensore libero e salii al terzo piano.

Il percorso indicatomi dall'impiegata dell'accettazione si snodava lungo tutto il perimetro dell'ala est dell'edificio, seguendo una traiettoria simile a una S, che sembrava quasi un labirinto psicologico. Tuttavia, una volta compresa la struttura, non era così difficile orientarsi.

Avanzai lungo un corridoio interminabile, illuminato dalle fredde luci al neon, mentre una moquette verde prato attutiva i passi. Camminandoci sopra, quasi non sentivo il rumore dei miei piedi.

C'erano file di sedie rosse disposte parallelamente, simili a quelle delle sale d'attesa degli aeroporti. Alcuni pazienti sedevano lì, chiacchierando tra loro come se fossero al bar. Dietro di loro, le pareti erano adornate da fotografie incorniciate: immagini in bianco e nero di aerei, treni e barche, alcune delle quali notevoli per il suggestivo gioco di luci e ombre catturato dal fotografo.

Alla mia sinistra, invece, le pareti erano spoglie, segnate solo da tracce di nastro adesivo, residui di avvisi o manifesti ormai rimossi. Scrutai con inquietudine gli studi che si aprivano da quel lato: dalle stanze con le porte spalancate proveniva il suono incessante dei telefoni che squillavano.

La porta del Dott. Wallace era la mia meta.

Raggiunsi finalmente il fondo del corridoio, percorrendo gli ultimi metri con una certa goffaggine. Identificai lo studio grazie alla targa esterna. La porta era socchiusa, lasciando filtrare un sottile bagliore di luce soffusa. Con un misto di eccitazione e ansia, bussai sullo stipite.

"C'è qualcuno?" chiesi, cercando di addolcire la voce come avrebbe fatto l'infermiere di un manicomio.

 Attesi, i sensi all'erta, ma dalla stanza non giunse alcuna risposta. Bussai nuovamente, ma anche questa volta senza esito. Non c'era nessuno, era ancora presto.

Con cautela, spinsi leggermente la porta e mi affacciai oltre la soglia, consapevole che avrei esplorato quel luogo a fondo col tempo. Il mio arrivo era caratterizzato da un'ansiosa anticipazione. Non avevo voglia di sedermi su una delle scomode sedie di plastica saldate alle pareti lungo il corridoio, così preferii restare in piedi, aspettando accanto alla porta.

Mentre attendevo l'arrivo del Dott. Wallace, cercai di distrarmi osservando lo studio. Vagai con lo sguardo lungo il perimetro delle pareti, concentrandomi su ogni dettaglio e particolare.

L'ambiente, a una prima occhiata, trasmetteva un senso di comfort e ordine. Le pareti, austere e bianche, racchiudevano il misterioso mondo del professionista.

In un angolo della stanza, una grande scrivania era sommersa da volumi, con un fermacarte posato su una pila di fogli, penne e appunti sparsi.

Davanti alla scrivania, si trovavano un paio di sedie. Al lato opposto, un piccolo divano a due posti, rivestito in pelle chiara, mostrava i segni del tempo. Sopra il divano, una parete era decorata con un diploma di laurea in psicologia comportamentale e cognitiva applicata, insieme ad altri certificati e alcuni dipinti astratti. La parete di fronte alla porta era occupata da una vetrata che dava sulla strada.

Dietro la scrivania, una maestosa libreria raggiungeva il soffitto, stracolma di libri che avrebbero fatto invidia persino alla biblioteca del Bellum. Tra i volumi spiccava un'enciclopedia con lettere dorate sul dorso. I pochi spazi vuoti sugli scaffali erano riempiti da ninnoli e soprammobili impolverati, mentre una begonia in vaso cresceva in diagonale in un angolo della stanza. Tutto ciò conferiva al luogo un tocco personale.

Tra gli oggetti, una fotografia incorniciata sulla mensola attirò irresistibilmente la mia attenzione. Mostrava il Dottore con occhi scuri e uno sguardo penetrante, mentre abbracciava affettuosamente una giovane dall'aria sbarazzina. Il tutto sembrava un arredamento più da salotto che da studio.

Cominciavo ad averne le scatole piene di aspettare sull'uscio. Stare lì fermo e immobile mentre il tempo trascorreva non faceva che aumentare la mia ansia. Mi sentivo come se stessi inciampando e stessi per cadere. I minuti sembravano trasformarsi in mezz'ora, anche se in realtà ero arrivato in anticipo. Nonostante lo sapessi, l'attesa era comunque insopportabile. A quel punto, non volevo più restare lì, forse perché, da quando ero arrivato, sapevo che quegli incontri sarebbero stati imbarazzanti per me. Purtroppo, mi costrinsi a farlo.

Mentre rimanevo immobile davanti allo studio dello psicologo, provai a respirare lentamente, spinto dalla convinzione, emersa chissà da dove, che questo mi avrebbe calmato. Intanto, mi rimbombava nella testa con forza questa consapevolezza: "se sono qui, è perché non sono più quello di prima."

Mi sentivo la bocca secca e, stupidamente, abbassai lo sguardo verso i miei piedi, cercando di capire cosa ci stessi ancora facendo lì. Un rumore ovattato di passi alle mie spalle, che echeggiava con il ritmo di un battito cardiaco e un respiro, mi avvertì che qualcuno stava arrivando.

Restai un attimo in ascolto e poi gettai un rapido sguardo indietro. Era il Dottor Wallace. Una targhetta d'ottone sulla giacca lo identificava con il suo nome. Era un tipo basso e tarchiato, con i capelli brizzolati e la barba ingrigita. Poteva avere circa cinquant'anni. Indossava un abito tutto spiegazzato.

Avevo un aspetto da schifo. Mi sistemai i capelli in fretta con le dita, giusto il minimo indispensabile, poco prima che lui, con passo deciso, mi superasse per entrare. Quando mi vide, sembrò sorpreso di trovarmi già lì.

Abbozzai un sorriso fiducioso, ma lui, mentre mi oltrepassava, rispose solo con un timido sorriso e un rapido: "Aspettami qui." Non si fermò, né si prese la briga di salutarmi.

Si avviò verso la scrivania e si accomodò su una grande poltrona da ufficio in pelle.

Mentre spostavo il peso da un piede all'altro, attendevo ancora fuori.

Lui, intanto, cercava l'interruttore della lampada. L'accese, proiettando un cerchio preciso sul piano della scrivania. Nel frattempo, si tolse la giacca e la lasciò cadere sullo schienale della poltrona.

Poi si mise a sistemare delle penne sparse sulla scrivania, riponendole una per una in un barattolo. Quando ebbe finito, si guardò intorno, come per controllare che tutto fosse in ordine. Dopodiché si mise a esaminare una cartellina.

Dopo alcuni interminabili minuti, il dottor Wallace la chiuse, tirando un sospiro che non prometteva nulla di buono.

Infine, si sistemò nella poltrona dallo schienale quasi dritto e appoggiò i gomiti sui braccioli di legno.

Non so perché, ma fui subito pervaso da una profonda sensazione di disagio. Mi sentivo sempre così quando mi trovavo su un terreno sconosciuto.

Solo allora mi fece segno di entrare. 

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