Capitolo 22

Fui circondato immediatamente dal caos. Facchini, una gran folla di Comunitari e molto rumore. La maggior parte di loro si dirigeva verso l'uscita come un'onda del mare. Ma, soprattutto, c'erano agenti ovunque, che abbaiavano comandi e incitavano tutti a muoversi. La loro attenzione vagava tra la folla, con occhi attenti e indagatori.

Mi sembrava che mi stessero guardando. Allora, feci del mio meglio per mescolarmi alla calca. L'istinto, anche in quel momento, mi suggeriva di intrufolarmi tra di loro, perché pensavo fosse il modo migliore per passare inosservato. Pregai addirittura che quella massa si compattasse ancora di più, per farmi sparire del tutto. Almeno in teoria, poteva funzionare.

Anche se esteriormente apparivo calmo, il cuore mi galoppava per il panico. Mi guardai attorno con diffidenza, cercando di capire che aria tirasse. Vidi soltanto gente che andava di fretta e immaginai che la maggior parte stesse tornando al calduccio di casa. Senza sapere nulla di loro, li invidiai. Io, invece, non sapevo dove andare né cosa fare.

Cercai di radunare le idee, mentre eravamo incanalati in un'unica fila, a testa bassa. Lo feci anche io, ma nonostante tutto, niente sfuggiva alla mia attenzione, almeno ciò che era a portata di udito.

A un certo punto, mi arrivò alle spalle un giovane Comunitario che passò con furia tra la folla, spingendo i viaggiatori che non capirono cosa stesse succedendo. Ma davanti a noi si appostarono due agenti con i berretti a visiera. Quelli che mi stavano dietro mi spinsero in avanti, facendomi esplodere l'ansia, che si trasformò in paura. Con estrema velocità, gli agenti si avvicinarono a quel tipo, lo afferrarono e lo spinsero fuori dalla folla.

Alcuni Comunitari di passaggio si voltarono a guardarli, curiosi e spaventati allo stesso tempo. Anch'io, istintivamente, alzai leggermente la testa e lanciai un'occhiata nella loro direzione, con il cuore che mi batteva sempre più forte. Per non destare sospetti, riportai subito lo sguardo davanti a me, fingendo indifferenza. Ma con la coda dell'occhio sinistro, ai margini estremi del mio campo visivo, scorsi un'agente mentre lo ispezionava. Gli frugava nelle tasche del cappotto e dei pantaloni, gettando a terra un oggetto dopo l'altro.

"Toglimi le mani di dosso e ridammi le mie cose!" disse, senza però essere ascoltato. Anzi, la guardia gli torse un braccio. Probabilmente non superava i trent'anni, ma la voce roca di fumatore e i tratti austeri del viso lo facevano sembrare un vecchio. Lui represse un urlo, limitandosi a imprecare tra i denti. Poco dopo, lo stesso agente lo spinse su una panchina, dove restò in disparte, sgomento e impotente, senza sapere cosa fare. Rimase con le mani affondate nelle tasche del cappotto, impassibile e in silenzio. I due agenti gli ordinarono infine di aprire il trolley. Obbedì immediatamente. I secondi scorrevano lenti mentre gli rovistavano tra le sue cose.

A un certo punto, la voce di uno dei due agenti ruppe il silenzio con un annuncio che lo gelò: "Qui non c'è nessun pass e nessun permesso di lavoro." Il poveretto restò senza parole.

Si stava mettendo male per lui, e adesso attendeva solo di essere portato via. Altri due poliziotti, accorsi in soccorso ai loro colleghi, si avvicinarono a passi decisi e rapidi. Dopo averlo ammanettato, lo trascinarono via senza tante cerimonie. Erano gli stessi che, all'arrivo in stazione, avevo sentito abbaiare ordini e incitare tutti a muoversi.

Accelerai il passo, cercando di confondermi nella ressa il più possibile. Un rumore di stivali si avvicinò minaccioso, e poco dopo una voce tagliò l'aria: "Alt! Documenti."

In preda al panico, il cuore cominciò a battermi forte, minacciando di uscirmi dal petto. "Vedrai che ora tocca a me," pensai, mentre un fremito d'allarme mi scuoteva.

Era esattamente ciò che temevo: una scena che sembrava uscita da un copione già scritto e ripetuto infinite volte. Un sorriso nervoso mi si spense sulle labbra. Chiusi per un attimo gli occhi e provai a respirare a fondo, nel vano tentativo di mantenere la calma.

"Va bene, e ora che faccio?" Rimasi immobile, incapace di muovere un muscolo. Dopo aver riaperto gli occhi, mi infilai con cautela tra due donne, facendo attenzione a non urtarle. Poi mi fermai, rimanendo in silenzio.

In quel momento avrei voluto tornare indietro, riprendere il treno e rifugiarmi a casa mia, ma non c'era nessuna via di fuga. Non ero mai stato fermato dalla polizia in vita mia, eppure ora sentivo la loro presenza come una morsa attorno a me. Percepivo il peso del loro sguardo addosso e sapevo che, se mi avessero controllato, sarebbe stata la fine. Non c'era nessun posto dove nascondermi, nessun angolo sicuro in cui sparire. Allora tenni la testa abbassata perché non volevo che le guardie mi vedessero sul viso la paura. 

Ero rigido, teso, come se anche solo respirare potesse tradirmi. L'adrenalina mi inondava, facendomi tremare le gambe, e con la coda dell'occhio intravidi lo stemma sopra la visiera dell'agente. Non osavo guardarlo direttamente, temendo che incrociare il suo sguardo potesse attirare la sua attenzione su di me.

Aspettai il momento in cui mi avrebbe chiesto di mostrargli il pass, ma intravidi che il suo sguardo non era su di me. I suoi occhi erano scivolati avanti. Ma appena notò che mi stavo avvicinando troppo, mi tirò indietro con uno strattone violento e doloroso, e sollevando il manganello, mi ringhiò: "Fatti da parte, se non vuoi una manganellata."

La sua voce rauca e piena di minaccia sembrava scavare dentro di me, lasciando che le sue parole si sedimentassero lentamente. Poi, mi trascinò di nuovo verso la folla, spingendomi in avanti con un gesto brusco. Per un attimo, un millesimo di secondo, alzai la testa e incrociai il suo sguardo. Aveva le palpebre gonfie e le sclere di un giallo epatico, iniettate di sangue, che mi trapassarono come una lama, lasciandomi senza fiato.

"E voi altri, circolate tutti! Non c'è niente da vedere!"

Nonostante la violenza verbale, fui invaso da un sollievo immenso. Fortunatamente, l'agente — un tipo dall'aria minacciosa — non si era rivolto a me, ma a un altro Comunitario che mi aveva appena superato, correndo tra la folla nel tentativo di confondersi.

I colleghi appena arrivati in supporto si mossero con decisione. Fu il più basso e grasso ad abbaiare l'ordine, mentre l'altro, magro, con gli occhi infossati e il viso scavato, gli fece un cenno energico del capo, un ordine senza parole. Senza esitazione, lo afferrarono per la spalla, trascinandolo fuori dalla mischia.

Lui non oppose resistenza. Nel giro di pochi secondi, i due gli furono addosso, afferrandolo per i polsi. Sembrava disorientato, forse intimidito dalla violenza improvvisa della situazione.

Tirai un lungo sospiro di sollievo. Avrebbe potuto succedere a me. E la sensazione che mi travolse in quel momento, a pericolo scampato, fu incredibilmente liberatoria. Quasi bella, in un modo paradossale. La verità era che l'Urbe cominciava a spaventarmi.

"Cosa vorranno da lui?" pensai, osservando la scena con crescente ansia.

Stringeva in mano il suo Pass. Glielo strapparono, esaminandolo con attenzione maniacale, prima di sbraitargli di restare fermo, anche se non si stava muovendo. Uno degli agenti gli teneva una mano premuta sulla schiena, mentre lui, con le mani contro il muro e le gambe divaricate, rimaneva immobile. Gli frugarono le tasche del cappotto e dei pantaloni, facendo cadere a terra un oggetto dopo l'altro.

Non trovando nulla di compromettente, lo lasciarono andare: era stato solo un controllo di routine. Passarono al successivo, con la stessa bruschezza, soprattutto nei confronti di quei poveretti che tardavano anche solo un attimo a obbedire.

E se fosse toccato a me? Al pensiero, il cuore mi si mise a battere furiosamente. Di cosa avrei potuto essere scoperto? Di non avere il pass, ad esempio? O di essere ricercato, con un'accusa infondata? Non lo sapevo nemmeno io, ma l'angoscia mi fece temere che qualcuno delle guardie mi fermasse da un momento all'altro.

Intorno, alcuni Comunitari di passaggio lanciavano occhiate furtive, curiosi e spaventati allo stesso tempo. Io, invece, preferii abbassare ulteriormente lo sguardo, convinto che, se non li vedevo io, nemmeno loro avrebbero potuto vedere me.

Nonostante ciò, non riuscii a resistere alla tentazione di controllarli con la coda dell'occhio. Voltai appena la testa e li vidi, sempre più lontani dal punto in cui mi trovavo. Guardavano dritto davanti a sé, concentrati, avanzando con una lentezza esasperante, come lumache. Procedevano avanti e indietro lungo la banchina, fermandosi e poi scattando ogni volta che individuavano qualcuno di sospetto.

A quanto pareva, entrare e uscire dalla stazione dell'Urbe era altrettanto rischioso. Mi assalì il pensiero di poter incappare in altri controlli. Era come se stessi già vivendo la vita di un latitante, pur non avendo fatto nulla di male.

Non perdevo mai di vista le Guardie. A testa bassa, stringevo le cinghie dello zaino, che rimbalzava ritmicamente sulla mia schiena. Nel frattempo, la stazione si stava trasformando in un fiume in piena.

Il caos era palpabile. La marea di persone arrivava a raffica dalla direzione opposta, urtandomi, spingendomi indietro. Era la prima volta che mi trovavo immerso in una massa indistinta di corpi in movimento. La sensazione di quegli sconosciuti che mi premevano addosso, mi spingevano, mi sfioravano, era opprimente. Mi sentivo soffocare.

La folla era diventata un'unica massa indistinta, vorticava intorno a me come se l'intero Dominio stesse migrando nella direzione opposta alla mia.

Non appena scorsi un varco libero, avanzai spedito verso l'uscita della stazione, ma mi accorsi di stare quasi correndo. Mi costrinsi allora a rallentare, a camminare normalmente. Tuttavia, non mi fermai fino a quando non mi ritrovai di nuovo a lottare contro decine di braccia, contro corpi che si ammassavano l'uno accanto all'altro.

Più mi avvicinavo all'uscita, più la stazione era intasata da Comunitari, che presero addirittura a sgomitare, quasi qualcuno li avesse vietato di andare piano. Mi feci largo a forza, ma mi spingevano da dietro, e io allora a mia volta spingevo quelli davanti, anche se un'altra ondata in senso contrario ci travolse di nuovo tutti, annullando i miei sforzi. Non avevo mai visto così tanta gente radunata nello stesso luogo, né così tanti Comunitari tutti insieme. Era come se l'intero Dominio stesse migrando. Mi ritrovai di nuovo a combattere decine e decine di braccia, di corpi ammassati uno accanto all'altro. 

Mi sforzai di calmarmi, anche se mi feci largo tra quella calca con difficoltà, come una barchetta che avanzava nella tempesta, senza sapere se sarei affondato o rimasto a galla. Aspettai che un'ondata favorevole mi spingesse di nuovo avanti, verso l'uscita. La vidi. Adesso i miei piedi sapevano dove andare. A testa bassa avanzai ancora un po', scansando deciso quelli che mi erano accanto.  

Con un ultimo scatto, corsi verso l'aperto, riuscendo finalmente a proiettarmi in strada, in un caos di ombrelli che si chiudevano e si aprivano. Fuori la pioggia scendeva come una cortina lucida. Il piazzale davanti alla stazione era immerso nel solito rumoroso caos di una grande città.

Ero finalmente in Urbe. I controlli snervanti della stazione erano ormai alle spalle. Una volta dentro la città, sarei stato libero di muovermi. A quel punto, la città mi si aprì davanti, e per la prima volta sentii su di me i suoi occhi. Mi sembrò addirittura che i suoi abitanti, che andavano e venivano da quella parte della città, dopo avermi osservato, mi facessero un largo sorriso di benvenuto. Quella sensazione mi avvolse come un calore inaspettato, un'ondata di benevolenza che mi fece sentire, per la prima volta, accolto. 

Ora, che ero giunto, Il mondo che una volta era il mio, mi sembrò, in quel momento, più piccolo. Quella era la zona più estesa dell'intero Dominio. Gli abitanti dei vari Distretti dell'Urbe, tanto tempo fa, non poterono fare ameno che chiamarla così. In realtà era più di una semplice città, era la capitale di tutto il Dominio. La sede istituzionale del Governo. L'orgoglio della nazione. L'apice della modernità.  Era sempre stata descritta in questo modo.

"Visto? Dopotutto l'Urbe non è poi così male," pensai, sospirando al pensiero di non poter condividere con nessuno il mio entusiasmo.

Con il sollievo dell'arrivo, la tensione che mi aveva accompagnato fino a quel momento si dissolse all'improvviso. Dovevo solo essere più ottimista. Era stato tutto così... facile. L'avevo fatta franca. Finora era andato tutto bene. 

Quasi non ci credevo, ma era vero: nessuno mi aveva fermato o controllato. Per la prima volta, ero uscito dal perimetro. Avevo attraversato il confine ed ero entrato nel territorio dell'Urbe.

L'Urbe e il Bellum erano separati da un'area che non aveva un nome ufficiale. Se pur difficile da immaginare, per me era come se avessi appena saltato un grosso ostacolo o tagliato un traguardo, o una cosa del genere. Si, in effetti avevo finalmente varcato la linea di demarcazione, anche se fino a quel momento una parte del mio cuore era troppo spaventata per crederci davvero.  

Il dolore alla spalla riprese di colpo. Sempre meno, ma si fece comunque sentire. Forse fu anche per questo che percepii crescere in me l'agitazione, facendo eclissare rapidamente ogni accenno di esaltazione. Se n'era andata come fumo da una stanza. 

Ma poi quest'ansia si mescolò di nuovo al sollievo di aver lasciato il Bellum e di essere arrivato in Urbe senza problemi, e per un secondo venni invaso da una nuova spumeggiante e pura esaltazione. In preda all'eccitazione, oscillavo tra ansia ed entusiasmo, tra un momento di radiosa beatitudine a un momento di grigia cupezza. Mi sembrava di essere sulle montagne russe. In un continuo gioco di alti e bassi, in un caotico urtarsi di su e giù, come se fosse quello il mio nuovo inevitabile stato d'essere.  

Non sapevo se essere felice per essere lì o spaventato per quello che sarebbe potuto accadere. Quell'oscillazione mi faceva sentire sbilanciato, perché, a quanto pare, il passo dalla gioia al panico era brevissimo. Con tutto questo turbinare di pensieri e sensazioni, non trovavo lo spazio per esplorare la vera fonte della mia euforia, né avevo il desiderio di farlo.

Ma, ad ogni modo, l'arrivo in Urbe era stato un momento emozionante. Probabilmente ero ancora influenzato dall'immaginario che mi ero creato da bambino. Nella mia mente, l'Urbe era come l'avevo vista in Amore in Urbe: una città di canali e fontane, dove le pietre spezzate dei templi si mischiavano con i palazzi affondati nel terreno. Certo, nel film non c'erano Guardie né controlli oppressivi.

Osservai la marea umana che mi scorreva accanto. Erano impiegati, operai, funzionari che si affrettavano verso la metropolitana o altri mezzi pubblici, desiderosi di tornare a casa dopo una giornata di lavoro. Ma sopra il brusio della folla, si alzava un altro suono: il frastuono dissonante del traffico cittadino che scorreva accanto alla stazione, lungo una vasta arteria.

Ero talmente eccitato che, a un certo punto, la confusione sembrò dissolversi: il rumore della folla, del traffico e delle auto si zittì. Rimase solo il suono della pioggia che tamburellava sugli ombrelli aperti.

Tutto era nuovo, inebriante. I grattacieli svettavano come giganti, mentre le luci al neon pulsavano nella notte, creando un mosaico di colori vivaci. Auto e taxi si affollavano per le strade, e i Comunitari occupavano ogni spazio possibile. In quell'istante, mi sentii diverso, come se tutto fosse possibile, come se il mondo si aprisse davanti a me per la prima volta.

Ero entrato in un mondo completamente diverso da quello che avevo conosciuto fino ad allora. Le luci mi abbagliavano. I Comunitari camminavano sugli ampi marciapiedi, si fermavano nei caffè dietro vetrate illuminate, parlavano e ridevano come se la città fosse loro. Intorno a me, auto e pullman scorrevano senza sosta. Insegne luminose emergevano dal buio, spezzando la notte con i loro colori vivaci.

L'Urbe non era come l'avevo immaginata. Era rumorosa, sfacciata, caotica. Un universo di leggi e regole che sembravano scritte per un altro mondo.

E dire che il Bellum mi era sempre sembrato il mondo intero. Invece non era altro che una minuscola tessera di un mosaico molto più grande. Per la prima volta vidi una società più grande di quella a cui ero abituato. Sicuramente ero sbarcato su un altro pianeta. Solo che l'alieno ero io.

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