Capitolo 21

Quando guardai l'orologio a muro e il display delle partenze, le lancette erano puntate quasi sulle otto. Giusto in tempo per prendere un treno.

 La facciata della stazione era rivestita da grosse lastre di bugnato bianco, che con il tempo si erano scurite. All'ingresso, enormi archi decorati con ornamenti in bronzo evocavano un passato glorioso. L'imponente edificio monumentale, costruito alla nascita del primo Governo, rappresentava uno dei più ambiziosi progetti architettonici del Dominio. A quell'epoca, questa stazione era considerata quasi come la "cattedrale dei treni". Era conosciuta anche come il Palazzo del Dominio, collegando il Bellum con l'Urbe e viceversa.

Nel corso degli anni aveva subito diversi interventi di ristrutturazione, ma nessuno di essi aveva alterato l'aspetto originario. All'interno, il pavimento era composto da ordinate lastre di granito scuro, ormai sbiadite. Il lavorio del tempo aveva cancellato gran parte della loro pigmentazione. Ora, al centro del grande atrio, troneggiava l'emblema del Dominio, il cui significato era fin troppo chiaro.

Ben presto mi accorsi che ogni angolo della stazione brulicava di Agenti speciali, i Dominion. Erano corpi scelti inviati dal Dominio, dotati di armi pesanti e delle consuete divise scure. Operavano soprattutto nelle stazioni più importanti e venivano chiamati a intervenire per sedare qualunque tentativo di ribellione.

Alcuni di loro erano appostati all'ingresso, scrutando attentamente la folla. Sebbene facessero fatica a muoversi tra la calca, si occupavano di controllare a campione permessi di viaggio e bagagli. Ne notai altri in sala d'attesa.

Sentii lo stomaco sobbalzare, ma per fortuna, i Dominion erano abbastanza lontani da permettermi di sgattaiolare all'interno senza attirare troppo la loro attenzione.

Le pareti di marmo grigio mi davano una sensazione fredda e impersonale, quasi fossero quelle di una macelleria. 

Mi colpirono le destinazioni sul tabellone. Erano tante e mi fecero pensare a come sarebbe stato bello, in un'occasione diversa, percorrerle tutte. In quel momento, invece, la mia destinazione sembrava così casuale. Quella per l'Urbe era anche la più frequente. I treni per l'Urbe passavano circa ogni mezz'ora. 

Non valeva la pena correre. La biglietteria self-service era davanti a me, con una coda che si snodava lentamente. Era possibile pagare in contanti. Acquistai un biglietto di sola andata per l'Urbe e raccolsi il resto.

Dopo aver posizionato il biglietto nell'apposito lettore dei tornelli, inspirai profondamente, cercando di pensare a qualcosa di piacevole che potesse distrarmi. Ma nella mia testa c'era solo una consapevolezza: stavo lasciando per sempre i luoghi della mia infanzia.

Respirai per l'ultima volta l'odore dell'aria umida e pulita del Bellum, prima di voltarle definitivamente le spalle. 

Trovai l'ingresso delle scale mobili e iniziai a scendere, fino a raggiungere i binari. Intorno a me c'era un brulicare di rumori e di Comunitari.

Mi tuffai nella folla che si addensava lungo i lati delle banchine. Mi guardai attentamente intorno per vedere se riconoscevo qualcuno tra i volti che mi sfioravano, ma per fortuna non incontrai nessuno di familiare.

Mi sentivo come se potessi perdermi in quel marasma, addirittura annegare in mezzo a quella moltitudine. Ma da dove provenivano tutti? Avevo incontrato solo un camion lungo la strada. Allora non riuscii a darmi una risposta. Mi chiesi anche: perché mai tutti quei Comunitari dovevano spostarsi ogni giorno da un Distretto all'altro? Anche questo l'avrei compreso soltanto più avanti.

La scena era un panorama caotico di migrazioni pendolari interne al Dominio. Diseredati del Terzo Distretto, stipati di Comunitari fradici, arrivavano ogni mattina nel Bellum per lavorare, per poi tornare la sera nei loro quartieri. Alcuni dormivano per terra, altri mangiavano negli angoli, mentre c'era chi occupava le panche in attesa del prossimo treno. 

Cercai di imprimermi nella mente i loro volti, le rughe profonde, i rossetti sbiaditi, le lentiggini, i nei. Ognuno di loro sembrava portare con sé una storia che avrei voluto ascoltare. 

Decisi di mescolarmi a loro, tenendo la testa china e girando il viso ogni volta che incrociavo qualcuno troppo da vicino. Stare in mezzo al gruppo mi sembrava la scelta più sicura. Cercavo di non attirare attenzione, senza però sembrare uno che cerca di non attirare attenzione.

"Quando devi fare qualcosa di nascosto, fallo alla luce del sole", mi dissi, convincendomi che, in mezzo a quel mare di Comunitari, sarebbe stato difficile per chiunque notarmi davvero.

Nonostante il mio aspetto anonimo, la paura di essere riconosciuto mi stringeva la gola, negandomi ogni pace. Per quanto potessi apparire paranoico ai miei stessi occhi, un'ombra di tensione mi seguiva ovunque e, malgrado i miei sforzi per restare calmo, non riuscivo a scrollarmi di dosso la sensazione di occhi puntati su di me. D'altronde, la mia apparente disinvoltura non escludeva che qualcuno volesse la mia pelle. In fondo, poteva essere stato chiunque a spararmi.

Mi feci strada tra quei viaggiatori di ogni genere, guardandomi intorno con il cuore in gola, come se stessi commettendo una mascalzonata. Cercavo di accertarmi che nessuno mi stesse osservando o seguendo, ma la sensazione di sguardi insidiosi, come lame fredde sulla nuca e sulla schiena, non mi abbandonava. Il collo mi doleva per quanto lo giravo, scrutando ogni angolo.

A quanto pare, quei bastardi del cazzo non erano entrati solo in casa mia, ma anche nella mia testa! Però dovevo smetterla. Avevo già oltrepassato la soglia del pericolo e, se mi fossi mostrato impaurito, allora sì che avrei finito per destare sospetti.

Alcuni mi osservavano mentre passavo, seguendo i miei movimenti con sguardi assorti, pensierosi o assonnati, mentre altri, invece, non mi degnavano nemmeno di un'occhiata.

Fuori, la pioggia continuava a scrosciare, battendo sul tetto della stazione. Il suo tambureggiare si mescolava al caos di voci e suoni metallici che rimbalzavano ovunque, assieme al gracchiare degli altoparlanti e dei sibili che precedevano gli annunci di arrivi e partenze. Quest'ultimi mi fecero pensare alla fuga. 

A questi rumori incessanti, si univa il movimento frenetico della stazione. Intorno a me, tutto sembrava agitarsi: la folla vociferava ad alta voce, mentre la stazione era invasa da un fracasso indescrivibile. 

Sentii un'improvvisa nausea, probabilmente causata dall'aria densa e pesante all'interno, intrisa di odore di ferro, condensa e del tanfo acre delle sigarette. Poi uno sbattere d'ali mi distrasse. Alcuni piccioni si levarono in volo, frullando le ali per appollaiarsi sulle travature di ferro delle pensiline. Da lì, riparati dalla pioggia e dal freddo, osservavano impassibili il viavai sottostante.

Un gruppo di venditori ambulanti si fece avanti con arance e altra frutta in contenitori di plastica. Si muovevano tra la folla, urtando spesso altri Comunitari. Le scuse si intrecciavano con il rumore di sottofondo della stazione. Mi sentivo disorientato come mai prima.

Mi posizionai sulla banchina, il più lontano possibile rispetto alla direzione di marcia del treno. Fissai i binari con occhi vuoti. Per quanto potesse sembrare assurdo, avevo la sensazione che quei binari volessero parlarmi, raccontarmi qualcosa sull'Urbe.

Il treno che aspettavo non era ancora arrivato. Doveva fermarsi al binario A, che nel frattempo si era riempito di pendolari. La luce artificiale illuminava i binari grigi, mentre quelli B, C e D si perdevano verso l'oscurità. Non sapevo dove conducessero, ma l'unica certezza era che portavano lontano.

Ero lì da meno di dieci minuti, circondato dal caos, dai passeggeri con i volti contratti e dalle valigie accatastate. Intanto, i treni andavano e venivano, mentre la folla si riversava continuamente sulle carrozze. La voce asettica della speaker risuonò negli altoparlanti, annunciando l'arrivo dell'interurbano al binario A: il treno che mi avrebbe portato nella capitale.

Mi avvicinai, con altri viaggiatori, accanto alla striscia gialla, che non si doveva oltrepassare per motivi di sicurezza. Immediatamente dopo un lungo sibilo e un forte soffio d'aria, mi avvertirono del suo imminente arrivo.

"Ci siamo, eccolo." pensai, mentre due fari, che sembravano occhi luminosi, precedevano la sua apparizione.

La folla avanzò minacciosa, spingendo verso la banchina mentre il convoglio rallentava. Sul fronte della carrozza motore brillava il simbolo "D", un rosso sgargiante impresso sul metallo. Le ruote smisero di girare, le porte si aprirono, e pochi passeggeri scesero.

Masse di Comunitari si riversarono verso le carrozze, afferrando valigie e zaini prima di salire. Si infilavano all'interno in cerca di posti a sedere, come file di formiche che marciano verso il formicaio.

Era chiaro che altri passeggeri si sarebbero aggiunti lungo il percorso. Entrai anch'io, e in piedi, lanciai rapide occhiate in cerca di un posto libero. I convogli sembravano già pieni al loro arrivo, e la folla si precipitava sempre sui pochi posti disponibili. Dopo pochi secondi, per fortuna, ne trovai uno.

 "Scusate, quel posto è occupato?" chiesi con gentilezza ai cinque passeggeri già seduti nella carrozza, ostentando una calma che non provavo affatto.

Mi guardarono distrattamente, senza rispondere subito. Alla fine, fu uno di loro, un anziano dai capelli bianchissimi e dalle mani sporche, scosse da un lieve tremito, a distogliere lo sguardo dal giornaletto che stava leggendo. Mi sorrise con aria bonaria.

"Lo è adesso. Forza, amico, siediti pure. Stai andando in Urbe?"

Sembrava sul punto di aggiungere altro, ma si limitò a sorridermi di nuovo e si lasciò andare sul sedile. Non risposi a parole, preferendo fargli un breve cenno di assenso. Mi guardai intorno come una preda accerchiata, ma nessuno sembrava fare caso a me. Poi, con un filo di voce, dissi: "Scusatemi."

Mi infilai tra di loro e mi sedetti accanto al finestrino, a capo chino, con una goffaggine che non passò inosservata. La ragazza di fronte mi lanciò uno sguardo curioso, forse per il modo impacciato in cui avevo preso posto. Mi resi conto di avere una postura rigida, quella di chi non sa occupare lo spazio del proprio corpo.

Cercai comunque di confondermi con gli altri passeggeri. Trattenni aria e pensieri in un unico, lungo sospiro, mentre con una mano tormentavo la spalla dolorante, cercando di sondarne il male. Appoggiai lo zaino ai piedi e, per sembrare tranquillo, mi misi a guardare distrattamente l'interno della carrozza. Scrutavo i volti e gli oggetti, senza pronunciare una parola.

Il Comunitario gentile era seduto tre posti più in là. Notai di nuovo le sue mani sporche di terra. Le dita erano l'impronta della fatica, testimoni di una vita dura. Su ogni ruga del suo viso c'era scritto lavoro. Quello vero. Anche il suo giaccone, più simile a una tuta, era sudicio.

Feci appena in tempo a sistemarmi, che il portellone del nostro vagone si richiuse con uno scatto secco.

In quel momento, un impulso irrazionale mi spinse a immaginare di correre verso quella porta, aprirla e scappare. Tornare nel Bellum, tornare a casa. E pensare che solo qualche ora prima desideravo soltanto fuggire. Ma il mostro d'acciaio era indifferente ai miei ripensamenti. Protestò con uno stridio di lamiere e un ruggito cupo, iniziando a snodarsi lungo i binari. Non avevo scelta: era troppo tardi per tornare indietro. A volte, il corso della vita è come un treno lanciato: impossibile fermarlo.

L'ambiente nella carrozza era saturo di odori corporei e del calore proveniente dai bocchettoni del riscaldamento, che sputavano aria calda. Nonostante tutto, quel calore fu un sollievo.

Quando il treno cominciò a muoversi, aumentando gradualmente la velocità, mi sentii proiettato violentemente all'indietro, come se la forza di gravità avesse improvvisamente invertito la direzione. Repressi un gemito, quando il dolore sulla spalla ferita e in parte sul costato, grazie a quello scossone, si ravvivò.  In quel momento, pensai ad altro, anche se seguì, subito dopo, un altro fortissimo sobbalzo, che me lo fece ricordare nuovamente, facendomi ricadere sul sedile.

Al di là del finestrino si stendeva un mondo sconosciuto. Stavo lasciando il Bellum alle spalle. Non aveva senso ripensarci: il treno ormai puntava dritto verso l'Urbe.

Alla mia sinistra, un Comunitario pallido tirava su col naso. Lo fece una volta. Poi di nuovo. Sbuffava ritmicamente. Probabilmente per il raffreddore che gli intasava il petto. Davanti a me, una giovane coppia parlava a bassa voce, piegandosi l'uno verso l'altra con movimenti intimi e rassicuranti.

Di fianco alla coppia sedeva la ragazza che poco prima mi aveva guardato con curiosità. Aveva gli auricolari infilati, e con la testa poggiata contro il finestrino sembrava persa nelle sue fantasie. Batteva le mani a ritmo sulle cosce, forse seguendo una melodia. A un certo punto, si voltò di nuovo verso di me, ma subito dopo distolse lo sguardo, tornando a fissare il paesaggio che scorreva veloce.

Intanto, il Comunitario anziano lottava con le sue palpebre che volevano a tutti i costi chiudersi. Nel mentre, si abbandonò allo schienale. Poi, posò un gomito sul bracciolo del sedile, finché un colpo di sonno gli fece cadere il mento sul petto. Per un attimo aprì gli occhi. Ma immediatamente dopo, brontolando, le richiuse di nuovo. Premette, allora, la guancia sul palmo della mano aperta, e infine si appisolò in questo modo, in equilibrio precario, respirando rumorosamente come una pentola a pressione dal naso. 

Probabilmente il ritmo incessante del treno, trasformandosi in una ninnananna lo aveva fatto addormentare delicatamente con il suo rollio. Ogni volta che il Comunitario anziano faceva l'ennesimo respiro profondo con la pancia, si aggiungeva una nota nuova, ed era sempre più forte, tanto che anche quelli dello scompartimento accanto lo potevano sentire. Sembrava che quei fischi e i dondolii che faceva con la testa, andassero al ritmo delle rotaie. 

Nessuno aveva voglia di parlare, men che meno io. La stazione del Bellum svaniva lentamente nell'oscurità. Inizialmente sembrava ritirarsi, come se esitasse a lasciarmi andare, per poi scomparire del tutto alle nostre spalle, dissolvendosi in un'assenza quasi irreale. Era come se cessasse di esistere.

Feci un sospiro, intriso di sollievo e nostalgia al tempo stesso. Sentii i muscoli del corpo rilassarsi a poco a poco, finalmente. Mi appoggiai contro lo schienale del sedile, adattando il mio corpo alla sua forma. Chiusi gli occhi per qualche minuto, lasciandomi cullare dal dondolio ritmico del treno e dal monotono sferragliare dei binari. Caddi in un dormiveglia agitato, gremito di fantasmi indistinti. Alcuni li conoscevo. La maggior parte no.

Nel frattempo, altre immagini riaffioravano nella mia mente con la stessa cadenza regolare del movimento del treno sulle rotaie. Il ricordo della vita di un tempo mi stava provocando una sofferenza quasi fisica. Avevo dovuto sopportare una cornucopia di traumi negli ultimi tempi. Ma più di ogni altro pensiero, uno in particolare mi tormentava, girandomi nella testa come un uccello nero che non voleva andarsene: perché ero sopravvissuto?

Avrei voluto spegnere la consapevolezza di non avere più una casa né dei genitori. E forse fu proprio per questo che, per un attimo, si fece strada nel mio petto un ottimismo inconsapevole, per certi versi inaspettato: tutto sarebbe andato per il verso giusto.

Quando rialzai le palpebre, notai che il vetro del finestrino era appannato dall'interno. Non si vedeva nulla, se non il mio riflesso, deformato dal gelo che sigillava la superficie. Mi guardai e mi accorsi che ero perfetto per non dare nell'occhio: capelli sporchi e bagnati, vestiti ordinari.

All'esterno, alcune gocce d'acqua correvano verso l'alto, tremando sotto la spinta della velocità del treno. Lentamente allungai una mano fino a poggiare le dita sul vetro freddo. Con l'indice tracciai una linea nell'appannamento, e per un istante intravidi, attraverso l'oscurità velata di nebbia, alcuni alberi lontani e perfino i tetti di alcune abitazioni.

Per tutto il tragitto restai a guardare fuori, quel poco che riuscivo a vedere, sentendomi desolato. Tutti quei cambiamenti... come avrei fatto ad affrontarli?  Dovevo fare forza su me stesso, cercando qualcosa, qualsiasi cosa, che potesse infondermi speranza.

Il Bellum ormai era lontano, e con esso la mia vita di prima. Il paesaggio all'esterno si fece monotono e bianco, avvolto da uno strato spesso e denso di nebbia che sembrava animarsi: si muoveva, si infittiva e scivolava via al passaggio del treno, per poi diradarsi lentamente. Quando questo accadeva, dietro quella coltre riuscivo a intravedere solo campagna, un'enorme macchia scura e collosa. 

Tenni gli occhi fissi su quell'oscurità, osservando la pianura senza fine e le luci dei treni che giungevano in senso opposto, gettando ombre intermittenti dentro la cabina. Guardavo gli abeti verde scuro, spruzzati di neve, avvolti in filamenti di nebbia bianca sotto nubi grigie e minacciose.

Il treno continuava la sua corsa, e dentro il vagone il calore era opprimente. I vetri si appannavano di nuovo, e io ci passavo sopra la mano ogni volta, tracciando nuove impronte che sparivano in pochi istanti, risucchiate dal gelo del vetro.

Man mano che il treno divorava il paesaggio, una domanda si faceva sempre più insistente nella mia mente: cosa diavolo stavo andando a fare in Urbe?

C'era qualcosa, nella situazione – la stanchezza, lo sferragliare costante del treno, la pioggia che batteva sul finestrino – che mi faceva sentire come se avessi perso tutto, come se mi stessi dirigendo verso il nulla.

Poi la mia mente tornò a quelle schegge di legno e intonaco sul pavimento di casa. Fu allora che ricordai perché ero stato spinto da un bisogno disperato di allontanarmi da lì.

Dopotutto, potevo esserci anch'io accanto a quelle schegge, con il mio sangue che avrebbe formato una grossa pozza sul pavimento, visibile a tutti. La mia bocca sarebbe rimasta spalancata, i miei occhi fissi verso l'alto, cercando Dio.

Dopo un'ora dalla partenza, chiusi gli occhi per la prima volta in ventiquattro ore. Cercai di farmi cullare dal ritmo sussultorio del treno per scivolare nel sonno e, insieme, nel passato. Tanto il treno sapeva dov'era diretto; non dovevo dirgli io cosa fare.

Sprofondai in un sonno leggero, necessario, finché un pianto acuto e incontrollabile proveniente dalla stesso vagone non mi svegliò. Un neonato gridava come se lo stessero operando senza anestesia. La madre gli cantava una filastrocca, nel tentativo di trasmettergli una sicurezza che neanche lei sembrava sentire. Un altro bambino, probabilmente aggrappato alla sua gamba, cercava la sua attenzione. Con pazienza, la donna lo riprese, dicendogli di staccarsi da lì. Gli altri passeggeri restavano silenziosi, ma i loro sguardi parlavano chiaro: erano esausti.

L'anziano Comunitario teneva la bocca socchiusa, mentre un filo di saliva gli bagnava il mento. La giovane, invece, con lunghi capelli neri, infilati negli auricolari, aveva il viso paffuto nascosto da una cascata disordinata di ciocche.

Sbattei le palpebre più volte, cercando di orientarmi. Sentii di nuovo la madre, ora in preda a una crisi di nervi, che tentava invano di calmare il neonato con un ciuccio. Ma lui continuava a piangere, ostinato. Così piccolo, e già così combattivo. Alla fine, capii che la donna preferì scoprirsi il seno per offrirglielo. Il bambino si calmò subito. Immaginai che succhiasse soddisfatto. Dopo la poppata, lei lo cullò con una ninnananna fino a farlo addormentare.

Più avanti, sentii che un altro Comunitario in piedi stava discutendo animatamente al telefono. Urlava da almeno venti minuti, ignorando gli sguardi sdegnati degli altri passeggeri. Qualcuno, accanto a me, scuoteva la testa, altri, invece, fissavano altrove. Io riuscivo a vedere solo una porzione del suo viso: troppo distante per distinguerlo davvero.

Per distrarmi, mi misi a tracciare disegni sul finestrino appannato. Li cancellavo con la mano e ricominciavo da capo, in un ciclo monotono. Stufo, spostai lo sguardo verso la campagna sterminata, dove un nastro nero lucido, la ferrovia, divideva le colline che salivano e scendevano seguendo le ondulazioni del terreno.

Il treno attraversò, poi, chilometri di boschi, come se fossero stati trapanati per creare un corridoio diretto verso il Bellum. La velocità iniziò a calare, e il paesaggio cambiò gradualmente. O almeno, così sembrava.

Dalla mia postazione, tutto ciò che vedevo era un'oscurità sfrecciante e vellutata. Tuttavia, all'orizzonte si intravedevano intense luci che, pian piano, si trasformarono in quelle di un paesaggio urbano illuminato splendidamente. Solo allora mi resi conto che la città non era altro che una linea sottile, separata dal Bellum da una campagna che la circondava come un confine.

Poco dopo, il treno si infilò in una galleria e subì un brusco scossone. La velocità diminuì progressivamente, mentre i freni sibilavano. Quando uscimmo dalla galleria, le ruote continuarono a fischiare per centinaia di metri.

Un annuncio sonoro ruppe il silenzio, avvisandoci dell'imminente arrivo in Urbe. Fu come se una scatola di luce si fosse calata sul treno: la stazione apparve, avvolgendoci.

Durante il viaggio, nessuno dei Comunitari aveva scambiato una parola con me. Quando il convoglio si fermò, un sibilo accompagnò la chiusura del viaggio, ma dentro di me qualcosa non riusciva a credere che fossimo davvero arrivati.

I sensori si attivarono, aprendo le porte. Quasi in sincronia, la giovane con gli auricolari aprì gli occhi, alzandosi con movimenti automatici, come un automa. Gli altri passeggeri la seguirono, afferrando i loro bagagli con una fretta quasi grottesca, come se fuori stessero distribuendo monete gratis.

Il Comunitario anziano fu l'ultimo a svegliarsi. Sbadigliò, sgranchendo le gambe con un rumore sordo delle ginocchia. "Forza, amico. Tocca a noi adesso," disse, prima di disincagliarsi dal sedile per poi sparire con una rapidità sorprendente.

Lo osservai allontanarsi, poi mi chinai a raccogliere il mio zaino. Prima di scendere, mi specchiai nel finestrino, lisciandomi i capelli con le mani. Avevo l'impressione di dovermi presentare in ordine, come se l'Urbe esigesse decoro.

Uscito dal vagone, I miei piedi toccarono per la prima volta il suolo dell'Urbe. Tirai un respiro profondo. Lo lasciai uscire e poi ne tirai un altro, come se fossi in procinto di tuffarmi in acque molto, molto profonde.

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