Capitolo 16
Finalmente fuori. Tornai all'aria aperta, ben più gradevole di quella che avevo lasciato, nonostante una folata di vento gelido mi scompigliasse i capelli.
L'aria era piena di goccioline, un'umidità indefinibile che sembrava tanto salire dalla strada quanto cadere dal cielo.
Controllai l'orologio: ero stato dentro un'eternità. Quello però era un giorno che non sarebbe passato tanto facilmente.
Mi annodai la sciarpa intorno alla gola, presi un respiro profondo e mi accorsi che, fino a quel momento, ero rimasto in apnea. Ne avevo davvero bisogno, come uno storpio della sua stampella, nonostante l'inverno mi scuotesse le ossa. Ogni boccata mi graffiava i polmoni.
Attraversai la strada, lasciandomi alle spalle l'aspetto minaccioso dell'enorme budino di cemento della Centrale di polizia, che giaceva accovacciata dietro le sue mura.
Con la mente ancora avvolta da tutto ciò che era appena accaduto, accartocciai il foglietto con i miei appunti e lo gettai nel cestino dei rifiuti all'angolo della strada. Poi, tirai fuori il cellulare, sperando di trovare un messaggio di Emily. Le nostre comunicazioni erano ormai rare, quasi inesistenti. Nulla.
Poco distante vidi un anziano, seduto su una panchina. Indossava un cappotto scuro e un cappello calato sul viso. Sembrava un vecchio corvo, mentre se ne stava lì, appoggiato al bastone, con il cappotto svolazzante sotto il vento. Tirò fuori da una busta di plastica un pezzo di pane e lo sminuzzò. Poi, cominciò a lanciare le molliche intorno a sé. In pochi istanti fu circondato da decine di piccioni. Quando smise di sminuzzare la mollica, rimase immobile, a fissare un punto lontano, mentre i Comunitari andavano e venivano. Sembrava che il mondo non si accorgesse di lui.
C'era qualcosa in quel gesto meccanico e nel suo sguardo vuoto che mi colpì. Forse era l'apparente tranquillità di quel vecchio, o forse l'assenza di una direzione precisa. In quel momento capii che mi sentivo come lui.
E proprio come lui, fissavo un punto lontano, senza riuscire a vederlo. In fondo al cuore, però, sapevo quasi con certezza che si trattava di un omicidio.
Mi fermai qualche istante ancora a osservarlo, lo seguii con lo sguardo, finché non lo vidi, con l'aiuto del bastone, andar via.
Il pomeriggio invernale a quell'ora si stava già velando di oscurità. La giornata aveva cominciato a declinare, e nella semioscurità del tramonto sembrava che non vi fosse più nessuna luce. I lampioni si accesero, proiettando ombre inquietanti sull'asfalto.
Avvolto in quel primo buio, m'incamminai con le mani in tasca, mentre il vento gelido, simile a quello d'altura, portava nuvole nere dove poco prima c'era stato il sole. Il cielo ora si era fatto scuro e compatto, come una cupola di metallo, e qua e là scendevano, svolazzando incerti, sparuti fiocchi di neve, simili a farfalle ubriache.
Lungo la strada, mentre sfilavano fiacchi un'auto e un motorino sferragliante, seguiti dal pigro passaggio di alcuni taxi, incrociai il movimento lento, tipico del tramonto, dei Comunitari che rientravano dal lavoro: i loro volti, le loro parole si confondevano con altre parole al loro passaggio.
Mentre, davanti a me, le luci del traffico diventavano via via più numerose, osservavo dal marciapiede la strada affollata di automobili e motociclisti che lottavano per superarsi a ogni incrocio. Solo i motorini riuscivano a farsi strada in quel groviglio di macchine.
In mezzo a quel caos, ripensai a ciò che era appena successo, cercando disperatamente di mettere ordine nei pensieri che facevano il girotondo nella mia testa, seguendo il ritmo dei passi sulla strada. Quei pensieri si mescolavano alle facciate dei palazzi, alle scritte sui muri e ai cartelloni propagandistici del Dominio.
Ripercorsi mentalmente lo scambio di battute con il Comandante, cercando di dare un senso a tutto. Anche se non lo avrei ammesso, su un punto, però, aveva ragione: gli omicidi, di solito, hanno una motivazione. E all'apparenza non c'era un movente chiaro. Il problema, dunque, era che io quella motivazione non l'avevo ancora individuata. Ed è per questo che mi sentivo frustrato e disorientato. Volevo sentire, a fine giornata, di aver fatto qualcosa di degno.
Attraversai la quinta strada, poi tagliai per il Distretto finanziario. Gli edifici erano vuoti e immersi in quel silenzio che dopo l'orario di lavoro faceva calare sui grandi palazzi un senso di abbandono. Da lì a casa mia c'erano quasi dieci chilometri. Mi misi a cercare un taxi. Mi posizionai sul bordo del marciapiede, allungando un braccio per fermarne uno di passaggio. Poco dopo, un'auto gialla, una vetusta MetroCab con l'insegna luminosa sopra il tetto accostò subito.
L'autista, per bypassare il traffico, attraversò il ponte principale sulle acque ghiacciate del fiume Avon. A quell'ora era un nastro nero come l'ebano, anche se lievi increspature della corrente mandavano sulla sua superficie bagliori che duravano solo un attimo prima di spegnersi e riapparire altrove, in un gioco infinito.
Proseguì lungo una strada secondaria, incorniciata da palazzi grigi, fino a una piazzetta su cui si affacciavano tre edifici dall'aria decadente. Poco dopo si fermò a un semaforo rosso.
Dal finestrino osservai alcuni passanti attraversare davanti all'auto. Una madre avanzava lentamente sotto un lampione che diffondeva una circonferenza di luce giallastra. Con una mano spingeva un passeggino, dentro cui un bambino osservava il mondo con occhi sgranati, agitando ogni tanto le manine, come se cercasse di afferrare i fiocchi di neve o scacciare il sonno, che tardava ad arrivare.
Nell'altra mano teneva un piccolo, in età prescolare, avvolto in berretto e sciarpa. "E su, Ethan, andiamo," gridava, mentre il piccolo camminava con una lentezza esasperante.
"E su, andiamo! Dai, stronzo, che non abbiamo tutta la vita!" imprecò quasi nello stesso momento l'autista del taxi all'auto ferma davanti alla sua, sebbene il semaforo fosse ormai verde.
Nella maggior parte dei casi, iniziava con allusioni appena velate, del tipo "Dai, muoviti, lumacone!", che presto si trasformavano in frasi spesso grossolane e quasi sempre volgari. Altre volte, invece, il suo tono diventava più aggressivo e diretto.
Era il tipo di elemento che contribuiva a dare cattiva fama ai tassisti: arrogante, scurrile e convinto, in maniera assoluta, di occupare un gradino superiore nell'universo degli automobilisti, come se la strada fosse esclusivamente sua.
I colpi di clacson furiosi si fusero in un unico rumore di sottofondo. Bloccato in una fila interminabile di auto, l'autista tamburellava nervosamente con le dita sul volante, mentre dava sfogo a una vasta e variegata gamma di insulti e improperi. Le continue frenate e accelerate lo mandavano fuori di matto.
Io, invece, odiavo i litigi, e non sopportavo quando gli automobilisti si urlavano addosso.
Nella maggior parte dei casi, iniziava con allusioni appena velate, che presto si trasformavano in frasi spesso grossolane e quasi sempre volgari. Altre volte, invece, il suo tono diventava più aggressivo e diretto.
Alla luce rossa del cruscotto, vidi gli occhi del tassista nello specchietto retrovisore spostarsi per incrociare i miei. Era come essere spiati attraverso il buco di una serratura. Aveva un'espressione che, sull'odometro delle espressioni, oscillava tra affaticato, irritato e scontroso.
"È una gran brutta serata. Fa così freddo da ammazzare un gatto," disse il tassista, abbozzando un sorriso disinvolto dallo specchietto.
Sfiorai il vetro del finestrino. L'umidità lo faceva lacrimare, e il freddo era tale che un brivido mi attraversò le dita. "Già," risposi, "fa freddo, non c'è dubbio." Parlavo più per educazione che per reale interesse.
Tra di noi si era creata una strana tensione, una specie di imbarazzo quasi, che rendeva difficile proseguire la conversazione. Così, tra silenzi imbarazzati, non ci scambiavamo più che qualche parola.
Eravamo come due estranei intrappolati in un ascensore, perché in realtà non ero in quell'auto, la mia mente era altrove. Incastrato nel traffico interiore: troppi pensieri parcheggiati alla rinfusa.
Lui continuava a guidare, e io rimanevo in silenzio, cercando di evitare qualsiasi parola che potesse alimentare le sue imprecazioni, che si facevano sempre più insistenti e rabbiose: "E vaffanculo! Muoviti, lumaca! Hai perso il pedale dell'acceleratore?"
Mi lanciò un'altra occhiata dallo specchietto, come se cercasse ancora la mia approvazione. Forse si aspettava che gli facessi eco, ma io preferivo altri modi, più ingegnosi, per inveire contro il traffico. Vedendo che guardavo fuori, con occhi vacui, alla fine distolse lo sguardo. "Odio gli ingorghi," borbottò, per poi tacere.
Su quella strada si passava continuamente da un imbottigliamento all'altro.
Le spazzole tergicristallo lottavano contro la neve che si accumulava sul parabrezza e attorno ai finestrini. Inoltre, si era appannato all'interno, così l'autista continuava a pulirlo con il dorso della mano. Folate di neve investivano i marciapiedi e sulla strada le tracce delle macchine erano rivestite di fango marrone. Intanto, le auto davanti alla nostra, dopo essersi fermate per l'ennesima volta, ricominciarono a muoversi lentamente, barrendo come elefanti e sbuffando nuvole grigiastre di gas di scarico.
Il tassista tornò a guardare la strada, scosse la leva del cambio, schiacciò la frizione e ripartì, superando un camion. I fari delle macchine che procedevano in direzione contraria si riflettevano sull'asfalto bagnato e sfumavano sulla carrozzeria del taxi. Nel riquadro del finestrino, le facciate iniziarono a rincorrersi lentamente, solo per fermarsi di nuovo poco più avanti. Su entrambi i lati della strada sorgevano varie attività commerciali.
Annoiato, distolsi lo sguardo dalla strada per osservare le facce dietro i finestrini delle altre auto. Un tipo col berretto da imbianchino, una Comunitaria di mezza età con bigodini rosa in testa, un giovane con gli auricolari che gli spuntavano dalle orecchie. Tutti esprimevano varianti dello stesso stato d'animo: irritazione.
In lontananza, su un edificio, un imponente pannello pubblicitario mostrava il viso di una giovane Comunitaria, il pallore esangue in netto contrasto con il suo sorriso smagliante. Sopra la sua testa, in lettere rosse che sembravano urlare, campeggiava la scritta: "IL DOMINIO CI PROTEGGE."
"E chi ci protegge, invece, dal Dominio?"
Il tassista interruppe il flusso dei miei pensieri, parlandomi di nuovo, ma senza ottenere la mia attenzione. La mia mente era altrove. Non parlammo più. Allora alzò il volume della radio che mandava una canzone sdolcinata, cantata da una voce monocorde.
All'improvviso, mi tornò in mente una frase letta da qualche parte: "Ancora prima che ci sia una vittima, esiste già un assassino."
Poi, un pensiero mi attraversò la mente: "Bisogna essere completamente pazzi per credere che si possa commettere un omicidio e farla franca."
Forse era il momento di riconsiderare i fatti.
E, sulla scia di quelle riflessioni, il notiziario sul traffico annunciò un incidente con un mezzo pesante sulla strada che stavamo attraversando. Lo speaker consigliava di evitarla, dato che si era già formata una coda di dieci chilometri. Intanto, le macchine avevano rallentato di nuovo.
Il tassista, forse spazientito sia dal traffico che dal mio silenzio, cercò un pretesto per farmi scendere. Fece un'inversione a U proibita, tra lo stridore delle auto e le voci rabbiose dei conducenti.
Dopodiché, si fermò bruscamente sul ciglio della strada, apostrofandomi con tono secco: "Quando sei al capolinea, devi solo scendere." A dire il vero, sembrava più un invito che una semplice osservazione.
Sbuffò subito dopo, indicandomi con lo sguardo il tassametro. Meglio così, pensai. Quel suo guidare a strappi, con il continuo tira e molla dell'acceleratore, e l'urlo incessante dei clacson, mi avevano già fatto venire il mal di mare, aumentando il mio nervosismo sul sedile posteriore.
"Scendo qui. Ho la nausea."
Lo pagai e scesi. Ero di nuovo a piedi. Camminare non mi ha mai spaventato, nemmeno sotto il vento e la neve; anzi, mi è sempre piaciuto. Le lunghe distanze, poi, non mi hanno mai intimorito, anche se la metropolitana sarebbe stata più rapida. Ma quella volta scelsi volutamente la strada più lunga.
Intanto, i fiocchi di neve continuavano a cadere lenti, sciogliendosi a contatto con il suolo. Altri danzavano nel vento prima di disperdersi, mentre l'aria freddissima e tagliente mi penetrava nei polmoni come la lama di un coltello. Stringendomi nel giaccone, presi subito il passo lungo e deciso di chi è abituato a camminare. Camminare, inoltre, mi avrebbe aiutato a fare ordine nei pensieri, anche se l'aria ghiacciata e la neve mi pungevano la faccia.
Attraversai la strada, evitando per un soffio un autobus rosso a due piani, che mi redarguì con un colpo di clacson.
Fu proprio quel suono improvviso e acuto, che risuonò nella mia testa come l'eco in una stanza vuota, a richiamare alla mente una lezione di matematica: "Il sistema binario," diceva il mio professore, "risponde a qualsiasi domanda con un sì o con un no, perché segue una logica chiara. Ma quando riceve due segnali quasi, ma non perfettamente, contemporanei, può andare in fibrillazione. Invece di dare una risposta netta, si blocca e risponde con un 'non lo so'." Al momento, il mio cervello funzionava come un sistema binario impazzito. Le risposte del Comandante, per quanto nette nei loro 'no', erano accompagnate da espressioni che, interpretate, lasciavano spazio a un 'ni' che mi confondeva più di prima.
Proseguii lungo una serie di stradine tranquille per sfuggire al folle viavai di Comunitari sulle vie principali. Nel frattempo, cercavo di ricomporre i frammenti del puzzle nella mia testa. Cominciavo a mettere insieme qualche pezzo: alcuni trovavano il loro posto, altri sembravano non entrare affatto. Il problema era che quei pezzi non si fermavano mai, si muovevano, creando figure mutevoli. E quando pensavo di aver afferrato l'insieme, tutto cambiava di nuovo. Era come assistere a uno spettacolo teatrale dove la trama si riscriveva continuamente sotto i miei occhi.
Intorno a me, i vicoli imitavano quel caos. Si snodavano tra le case come rami di un rampicante selvatico, per poi sbocciare in una piazzetta nascosta in cui non ero mai stato prima.
Perché ero lì? Forse per curiosità. O forse, più semplicemente, perché volevo ritardare il ritorno a casa: un luogo ormai desolato, un tempo pieno di vita e confusione, ora avvolto da un silenzio insostenibile. Se facevo un rumore improvviso, se tossivo o chiudevo bruscamente un libro, l'intera casa, come un pianoforte colpito da mani inesperte, mi restituiva un'eco bassa, cupa, aspra.
In quelle mura avevo vissuto quasi vent'anni, e ogni oggetto, ogni libro, ogni odore raccontava il passaggio delle stagioni. Ma cosa mi tratteneva ancora lontano? Il motivo era semplice: non c'era nulla che mi spingesse a tornare. E dire che un tempo quella casa mi era sembrata accogliente, come un abbraccio.
Era davvero questo che provavo adesso? Il solo pensiero mi colpì con una fitta di dolore fisico. Ad aspettarmi non c'era altro che il vuoto, un'assenza che ormai si era fatta definitiva. Non ero ancora riuscito a convivere con la crudezza di quella nuova normalità, e solo col tempo avrei imparato ad accettare quella perdita.
Continuai a camminare, scrutando i negozi che superavo, finché, non riuscendo più a sopportare i denti aguzzi del freddo e dei miei pensieri, entrai in un bar d'impulso.
Dentro fui subito aggredito da un odore di alcol e zucchero a velo. Piacevole, come l'abbraccio di un'amante. Era caldo e quasi vuoto. In prima serata c'erano solo pochi clienti abituali sparsi qua e là. Quando entrai, solo un paio di loro sollevarono lo sguardo con scarso interesse.
Lampadine fioche illuminavano l'ambiente, dandogli un'aria raccolta. L'odore di torte di mele si mescolava al suono sommesso di un gruppo che chiacchierava in fondo alla sala. Era un po' come stare a cena a casa di amici.
Mi avvicinai al bancone. Davanti a me, un tizio di spalle beveva qualcosa, tenendo i gomiti appoggiati sulla sua superficie. Era grasso ed era nella sua tenuta da bevute: una felpa bianca, stropicciata e macchiata, e pantaloni neri scesi sotto la linea del sedere. In fondo alla sala, invece, un altro tipo era chino su un giornale, intento a leggere le pagine dedicate alle corse dei cavalli.
"Buonasera."
Il barista, magro e calvo, mi sorrise e salutò con un cenno del capo.
"Prende qualcosa?"
Invece di ordinare una buona tazza di tè bollente, con una spruzzata di limone – la bevanda ideale per una giornata invernale – mi sorpresi a chiedere un drink. Forse ne avrei ordinati due. La lingua e la gola bramavano davvero qualcosa che mi aiutasse a scrollarmi di dosso la brutta esperienza vissuta in Centrale.
"Avete birra alla spina?"
"Ce l'ho, fresca."
"Allora dammene una pinta."
"Fuori com'è? Brutto come sembra?"
Annuii.
Mentre aspettavo, la mia mente ricominciò a lavorare. Dovevo ricostruire gli ultimi mesi di vita di mamma e papà, o almeno capire cosa avevano fatto quel giorno. Avevano incontrato qualcuno? Forse, scavando abbastanza a fondo, avrei trovato qualcosa.
Ero assorto in questi pensieri quando il tizio, che prima era di spalle, si girò e si mise accanto a me, dandomi una pacca sulla spalla. Doveva avere una cinquantina d'anni e puzzava di calzini sporchi. Le sue guance chiazzate e il naso venato di rosso tradivano l'eccesso di alcol.
Mi fece sentire a disagio, e un impulso quasi irresistibile mi portò ad abbassare gli occhi per non guardare le macchie di birra sulla sua felpa e il suo naso da alcolizzato.
Buttò un'occhiata circolare al locale, come per assicurarsi che nessuno, oltre me, potesse ascoltarlo. Poi smozzicò tra i denti: "Ehh... lo sciai qual è... il sceen..."
Gli rivolsi uno sguardo interrogativo.
"Scusi, cosa mi stava chiedendo?" risposi, confuso.
Mi lanciò un'occhiata di chi la sa lunga. Poi prese un sorso dal bicchiere e tossì due volte, come se gli fosse andato di traverso. Si schiarì la voce. "Il... scenso della vita," ripeté, agitando le mani come se fosse in bilico su un dirupo. "È tipo... tipo il sgioco della palla asve... asveleenata."
Il suo respiro sapeva di birra e qualcosa che pareva caramello. "Quando la sciipassi, tu scei scialvo. Capitooo? Scialvo!"
Era come se dicesse a me e a nessuno allo stesso tempo, perso in un delirio tutto suo. Poi si guardò intorno, sbattendo gli occhi, come se avesse improvvisamente dimenticato di cosa stesse parlando.
Rimase in silenzio per un po', poi si scosse e mi sorrise improvvisamente in modo quasi amichevole. Prese un sorso lungo e rumoroso dal suo bicchiere. Io gli sorrisi di riflesso, mentre lui annuì con foga, come se mi avesse appena svelato un segreto.
Non dissi nulla, anche perché non sembrava aspettarsi una risposta. Il suo scarso interesse per ciò che avrei potuto dire mi diede sollievo.
Le parole dello sconosciuto continuavano però a risuonarmi nella testa, insistenti, come un'eco che non voleva spegnersi. Le ripetevo a mente, lentamente, quasi scandendole, per essere certo di afferrarne il senso: "Sai qual è il senso della vita? È come il gioco della palla avvelenata. Quando la passi, tu sei salvo."
Aveva davvero detto così?
Ma poi arrivò il barman, interrompendo il flusso della mia mente con il suono familiare di un bicchiere posato sul legno del bancone. La mia pinta vorticava all'interno del calice. Guardai il liquido, un bruno dorato che virava verso un color cannella, come se contenesse la chiave per fermare quella spirale di domande. E così preferii non pensare più a cosa volesse alludere con quelle parole.
Chiusi gli occhi e presi un sorso. L'amarezza del luppolo si distese sulla mia lingua, e per un attimo tutto il resto sembrò sparire. Mentre i clienti cominciavano ad arrivare alla spicciolata, decisi che era il momento di godermi quella birra, come avevo sentito dire: assaporandola, un sorso alla volta.
Nel frattempo, il barista si allontanò dal bancone con un vassoio tra le mani. Dopo aver servito i nuovi arrivati, mentre giocherellavo col sottobicchiere su cui era appoggiato il mio bicchiere, tornò dietro il banco e fece capolino, chiedendomi se fossi pronto per un altro giro. Mi limitai ad annuire, nonostante fosse una birra che ti scavava un solco in gola quando scendeva, garantendoti una rapida sbornia.
Riempì il calice e me lo porse con un sorriso. "Ecco qui," disse.
Prima di berlo, lo rigirai il nella mano, osservando le fioche luci riflesse sulla sua superficie.
Mi sentivo come un cacciatore impegnato in una battuta grossa, che si fa strada nell'erba alta senza quasi respirare. Ma per scovare cosa, esattamente, mi ero appostato? Diciamo che stavo cercando di ricomporre una storia dai molti lati oscuri.
Finita anche quella, sentii il fluido scorrere nelle vene, diventando benefico. Lo percepivo circolare, e un'improvvisa felicità brillò in tutto il corpo, mentre la testa iniziava a girare leggermente.
Il tipo accanto a me finse di bere da un bicchiere invisibile, invitandomi a ordinare un altro drink. Sorrisi e scossi il capo.
"No, grazie. Sono già a posto," gli dissi, cercando di non scoppiare a ridere come lui, con quella sua risata da sbronza. Mi strizzava l'occhio mentre il calice di birra forte e scura, ormai quasi vuoto, gli tremava nella mano inanellata. Notai che aveva l'occhio sinistro un po' più in basso del destro. Alla fine, ordinò lui al mio posto.
"No, tu sei scemo e pure ubriaco! A te non do proprio niente," gridò il barman al tipo alticcio. Quello provò a insistere sottovoce, ma il barista rimase inflessibile. "No, basta! Ne hai bevute troppe." Il tipo allora aggrottò la fronte, creando onde di rughe, e infine si strinse nelle spalle.
Depositai dieci coin sul bancone, congedandomi con un cenno del capo.
Quando feci per uscire, il tizio alticcio mi si piazzò davanti. Provai a scansarlo, ma mi bloccò con una mano sul petto. Barcollai leggermente all'indietro, oscillando sui talloni. Mi fissava, respirando rumorosamente dal naso, con gli occhi lucidi e le pupille proiettate all'infuori. Mi preparai ad ascoltare un'altra perla di saggezza, ma tra di noi, invece, calò un silenzio greve, quasi animalesco. Poi, senza dire una parola, ci scambiammo un cenno d'intesa.
Fuori, la neve e il vento m'investirono di nuovo, e i rumori della città ristabilirono l'equilibrio col mondo reale. La testa mi girava ancora un po', e le luci della strada sembravano più vive, quasi pulsanti. Prosegui per altri cento metri, in Chancery Walk, la via degli antiquari, fino a ritrovarmi davanti a una galleria d'arte.
Dietro la grande vetrina c'era un quadro unico. Mi colpì come un pugno allo stomaco. Rappresentava una ragazza dal volto tormentato, con una felpa nera su cui era stampato un teschio dorato. L'oro brillava nel buio, un contrasto violento e magnetico.
Non riuscivo a distogliere lo sguardo. C'era qualcosa di sbagliato in quel dipinto, qualcosa che sembrava riguardarmi. La morte lo avvolgeva, così come sentivo che avvolgeva me. Ma non era solo morte. Era qualcosa di più grande, più opprimente, un peso che non riuscivo a definire.
Oppure era solo la birra che mi confondeva ancora di più? Le gambe mi si fecero molli, tanto da costringermi ad appoggiarmi al muro esterno della galleria d'arte.
Un miagolio interruppe i miei pensieri. Ai piedi di un lampione, un gatto intirizzito e bagnato mi guardava. Mi si avvicinò in cerca di un po' di calore, si strusciò contro le mie gambe, poi si distese pancia all'aria. Quando iniziai ad accarezzarlo, le sue fusa erano rumorose come un motore. E, come fanno i gatti, se ne andò via all'improvviso, in cerca di un riparo.
Lo seguii con lo sguardo mentre spariva verso la strada, ma proprio in quel momento un movimento catturò la mia attenzione. Con la coda dell'occhio, al margine estremo del mio campo visivo, scorsi Emily.
Sarà stato per il baccano del traffico e lo strombazzare dei clacson, o forse per i postumi della bevuta che non volevano andarsene, che, lì per lì, non la riconobbi mentre la vedevo attraversare. O forse non era nemmeno lei?
Il vento le sollevò l'orlo del cappotto nero, spruzzato qua e là di fiocchi di neve che vi si erano posati, rivelando la sua figura slanciata. Era a una ventina di metri da me, il viso giovane, lo sguardo fisso davanti a sé, orgogliosa del proprio corpo, del potere della sua bellezza. Ad ogni passo, i capelli ondeggiavano come se stesse interpretando la pubblicità di uno shampoo. Tutto il contrario del giorno del funerale, dove sembrava appena uscita da un attacco influenzale. Provai una sensazione indecifrabile, qualcosa che somigliava all'attrazione.
Nonostante la distanza, percepii la tensione nel suo incedere, il passo incerto su quelle scarpe eccessivamente alte, complicato dall'asfalto bagnato.
Andai verso di lei, con un cocktail d'incredulità e confusione in testa.
Le urlai: "Aspetta." Si voltò per un istante, il volto impassibile. Non sembrò esattamente felice di vedermi.
Più che altro, rimase impassibile, guardandomi senza tradire alcuna emozione, sembrava risucchiata altrove, incapace di vedermi davvero. Ero solo un'ombra nel suo cammino.
Poi tornò a fissare la strada davanti a sé e riprese a camminare, incerta sui tacchi alti, con ogni passo smorzato dalla neve sul lastricato. La mia educazione, puntuale e fuori luogo, mi trattenne dall'urlare il suo nome, facendomi esitare nel momento sbagliato.
La seguii con lo sguardo, mentre si avvicinava alla sua auto. Il cappotto, per effetto del vento, le sagomava il corpo.
Quando raggiunse la sua Artemis, aveva gli occhi lucidi e i capelli che le cadevano storti sulla fronte. Salì, infine, in macchina con un movimento rapido, lasciando intravedere, per un attimo, una generosa porzione di coscia. Chiuse la portiera, ingranò la marcia e partì.
L'auto ondeggiò sulle sospensioni, scossa dalle buche della strada dissestata, finché non scomparve all'orizzonte, su un lungo nastro nero d'asfalto, ora diventato bianco, lasciando dietro di sé dei grigi gas di scarico.
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