Capitolo 14
Il fumo della sigaretta aveva riempito l'ufficio, mentre fuori dalla finestra era tutto sole. La luce si mangiava i contorni dei tetti, e i rami spogli e neri brillavano come fili di vetro sotto il gelo.
Appena posò la cornetta, il Comandante fece cenno a Torrance e Holt di avvicinarsi. I due si scambiarono uno sguardo, poi obbedirono. Il Comandante sussurrò loro qualcosa, dopodiché si dileguarono senza aggiungere una parola.
"Un'altra morte," esclamò tra sé, scuotendo la testa.
Alzò gli occhi verso di me, come a dire: "Sei ancora qui?", con un'espressione di chi non ha tempo da perdere, come se avesse un compito più importante da seguire, mentre tutto il resto lo dedicava solo col contagocce.
Strinse gli occhi, scrutandomi dalla testa ai piedi, come se cercasse di inquadrarmi. La sigaretta pendeva dalle sue labbra. Lasciò cadere la cenere, e mi parve di vederla scendere sulla scrivania, come un tuffatore che si lancia dalla sommità di un trampolino, con le mani giunte davanti.
Dal lato opposto della scrivania, spinse verso di sé un grosso portacenere di cristallo, dove avrebbe potuto raggiungerlo più facilmente.
Ogni suo gesto trasudava autocompiacimento. Intuii che aveva capito di avere davanti un giovane deciso a perseverare. Si tolse la giacca dell'uniforme, la appoggiò sulla poltrona e mi parlò senza salutarmi.
"Lei chi diavolo è? Posso sapere cosa succede?" Il tono era lo stesso che si userebbe per lamentarsi di un bicchiere sbeccato.
Preso dall'ansia, mi guardai intorno, cercando da dove cominciare e di capire alla svelta che atteggiamento fosse meglio assumere. La lingua sembrava incatenata al palato, e così le parole mi evaporarono in bocca. Allungai la mano sudata, mi succedeva sempre quando ero agitato, e lui la strinse così forte che il sangue si ritirò dalle dita. Mi mostrai lo stesso sicuro, ma lui rispose con un sorriso lupesco.
"Mi scusi se la disturbo, ma ho bisogno di dirle qualcosa di importante."
Esitai qualche secondo, come per riordinare i pensieri, e per ripassare un discorso che mi ero già preparato mentalmente.
"Purché sia una cosa breve. Sono molto occupato."
"Si, almeno... lo spero. Mi hanno detto di aspettare, e io ho aspettato."
"Come tutti," replicò con sufficienza, prima di tossire per il fumo.
Trattenni la tentazione di dirgli che il fumo non gli faceva bene e replicai, fermo: "Si. so che le sembrerà assurdo, ma io non posso più aspettare. Lasci che le spieghi."
Aggrottò le sopracciglia. "Va bene, cominciamo dall'inizio. Nome?"
"Come?"
"Inizierei col dirmi chi è."
"Mi chiamo Kevin," risposi.
"Non il nome, il cognome."
"Parker."
Ripeté il mio cognome come se cercasse di memorizzarlo. Poi, inarcò le sopracciglia, stupito, ma sembrò fare mente locale. "Di cosa si tratta, Parker?"
Le parole che avevo in mente si intrecciarono come serpenti. Lui spostò lo sguardo su alcuni documenti davanti a sé, come per irritarmi.
"Forza, parli. Non ho tempo da perdere," disse, senza alzare gli occhi.
"Ho bisogno di chiarire alcune cose. La prego di credermi, per quanto sembri assurdo. Mi conceda il beneficio del dubbio."
"D'accordo, concesso."
Incapace di trattenermi oltre, affrontai finalmente l'argomento che mi tormentava. Senza troppi giri di parole, esposi i miei dubbi sull'incidente dei miei genitori. Serrai le mandibole. Volevo essere preciso, volevo usare le parole giuste. Ormai avevo deciso la linea di condotta che avrei tenuto con il Comandante. Lui mi osservava in silenzio, come se aspettasse con impazienza che arrivassi al punto, mentre stringeva la sigaretta tra le dita e socchiudeva gli occhi per non farsi bruciare dal fumo.
"Innanzitutto, mi dispiace per la sua perdita," disse con tono freddo. "Verificheremo. Faremo qualche domanda. Ma sono sicuro che non troveremo nulla."
"Voglio soltanto la verità. E voglio giustizia," aggiunsi.
A quelle parole, il suo atteggiamento cambiò. Il tono divenne sardonico.
"Lei parla di giustizia. Ma giustizia per cosa?"
"Penso che ci sia dell'altro da scoprire."
"Quindi lei crede che non sia stato un incidente?"
"È quello che vorrei sapere," lo interruppi, sentendomi come se stessi scartando un oggetto fragile. "Credo che ci sia dell'altro sotto."
"Davvero?" disse, stringendo il mozzicone tra le dita. Una smorfia attraversò il suo viso: si era bruciato. Borbottò qualcosa tra sé e sé, accese un'altra sigaretta e schiacciò il mozzicone nel posacenere.
Dopodiché utilizzò l'interfono, mantenendo lo sguardo fisso sul bordo della scrivania. Il telefono iniziò a lampeggiare, una spia rossa accesa. "Per favore, faccia venire nel mio ufficio gli Agenti Clark e Johnson, e che mi portino i documenti relativi all'incidente dei coniugi Parker, avvenuto domenica mattina del 30 novembre, sulla strada tra il Bellum e l'Urbe."
"Subito, Comandante," risposero dall'interfono.
Si lasciò cadere pesantemente contro lo schienale della poltrona.
Pochi minuti dopo, i due agenti entrarono nella stanza. Non appena oltrepassarono la soglia, mi sentii inchiodare dal loro sguardo. Uno, in sovrappeso, gli piazzò davanti, di piatto sulla scrivania, un fascicolo con la copertina di cartone gialla.
Il Comandante sospirò e disse all'agente in sovrappeso: "Fammi dare un'occhiata."
Il mio sguardo si posò su un foglio all'interno: lo riconobbi subito. Conteneva il verbale dell'incidente dei miei genitori, lo stesso che avevo in mano da giorni.
Poi, senza guardarlo, aggiunse: "Johnson, torna al tuo ufficio." L'agente annuì e uscì rapidamente.
L'altro Agente, alto e secco come un greyhound, con occhi sporgenti da pesce e mento sfuggente, si avvicinò e gli sussurrò qualcosa all'orecchio. Il Comandante ascoltò, poi indicò il computer. "Clark, siediti lì e trascrivi la deposizione. Voglio tutto in ordine. Parker, mi dia un documento d'identità." Gli porsi la mia carta, che lui passò all'agente. "Annota anche le sue generalità," aggiunse.
Clark si accomodò all'altro capo dell'ufficio, davanti al computer. Mi lanciò uno sguardo neutro mentre si preparava a scrivere. Un orologio appeso al muro ticchettava, scandendo il silenzio della stanza.
"Lei è proprio convinto che non si tratti di un incidente?" chiese il Comandante, fissandomi.
"Assolutamente," risposi, cercando di mantenere la calma, anche se involontariamente mi mordevo il labbro.
"Allora, se ne è così convinto, perché non è venuto da noi prima?"
"Ho dovuto pensarci. C'erano tante cose da affrontare: il riconoscimento all'obitorio, il funerale. È successo tutto così in fretta. Mi sono sentito a pezzi. Ho rischiato di crollare, tanto che sono andato da uno psicoterapeuta per rimettermi in piedi. Ma più provavo a elaborare il lutto, più cresceva in me la certezza: non è stato un semplice incidente. Ed è per questo che sono qui. Voglio delle risposte."
"Capisco." Poi, dopo aver passato rapidamente gli occhi sul foglio sulla scrivania, lo sventolò davanti a me con un gesto deciso, esclamando: "Lo vede cosa ho in mano?"
"Il verbale, sì, ma non vedo cosa c'entri."
"Qui c'è tutto, nero su bianco: un incidente stradale, registrato e documentato. Davvero non vedo che altro ci sia da dire."
"Per me non è sufficientemente chiaro."
"Ha frequentato le superiori?"
"Si, certo. Mi sono diplomato quest'anno."
"E non le hanno insegnato che i fatti veri sono quelli scritti nei rapporti della Centrale? Legga lei stesso."
Ma sapevo già cosa c'era scritto. Ogni parola era incisa nella mia mente, e avevo parecchie cose da obiettare: il malfunzionamento dei freni, lo scoppio di un pneumatico, un possibile colpo di sonno. Ipotesi che non mi avevano mai convinto.
"L'ho già letto," risposi. Ripensai a quando l'addetto dell'obitorio mi aveva consegnato il referto medico e il verbale della polizia. Da allora non avevo mai smesso di analizzarlo.
Il Comandante sembrò ignorare le mie parole. Sfogliò il verbale come se non avessi parlato, poi mi chiese: "E quando?"
"All'obitorio, dopo aver riconosciuto i corpi dei miei genitori," risposi, lasciandomi cadere contro lo schienale della sedia. "Mi hanno consegnato il verbale e il referto medico, insieme agli oggetti che avevano addosso. Mi è rimasto impresso l'orologio di papà, rotto e fermo esattamente alle 4:46. Eppure, qui nel verbale si legge 'tra le cinque e le sei del mattino.' Non è un dettaglio irrilevante. È chiaro che le indagini sono state condotte in modo approssimativo, Comandante."
Alzò gli occhi e sollevò appena le sopracciglia. Non disse nulla, ma il suo sguardo sembrava voler troncare la conversazione. Ignorai il silenzio e continuai: "Ed è per questo che sono qui. Cosa può dirmi su queste indagini? A che punto sono?"
Per un attimo, il suo volto tradì un'ombra di sorpresa. Poi scacciò quell'espressione con un gesto impaziente.
"Ufficialmente, per quanto ci riguarda, le indagini sono chiuse. Erano state fatte, inizialmente, solo per scrupolo e per rispetto dei familiari. Ma cosa vuole da me?"
"Quindi, mi sta dicendo che non state seguendo una precisa linea d'indagine?"
Lui scosse la testa. Poi, con voce ferma, rispose: "No. Non esiste niente del genere."
"E perché non mi è stato detto nulla?"
"In caso di incidente mortale, le informazioni vengono fornite solo previa presentazione di un nulla osta dell'autorità giudiziaria. Lei ce l'ha, questo nulla osta?" Fece una pausa, osservandomi con freddezza.
Usò tutte quelle parole del mestiere come se fossero magiche.
"Non sapevo fosse necessaria un'autorizzazione."
"Sì, è necessaria. Servirebbero prove concrete per ottenerlo. Senza quelle, la documentazione resta riservata. Ad ogni modo, gli agenti sul luogo dell'incidente hanno fatto tutti i rilievi del caso e non hanno trovato nulla di anomalo. Tutto quello che c'è da sapere è scritto nel verbale."
"Ma c'è un dettaglio che non mi torna," dissi, stringendo i denti. "Non si accenna minimamente alla possibilità di un coinvolgimento esterno, eppure ci sono elementi che non sono stati considerati."
"In che senso parla di un coinvolgimento esterno? Quali elementi? Cosa sta cercando di insinuare?"
"La verità non è forse la somma di fatti isolati?" risposi.
"Lo è, ma solo se quei fatti sono inequivocabili." Si sporse in avanti, fissandomi. "Lei parla di una probabile aggressione. Ma, quando qualcuno viene aggredito, ci sono sempre dei segni sulle vittime. Materiale organico sotto le unghie, contrazioni muscolari, abrasioni. Non è stato riscontrato nulla di tutto ciò. Mi dispiace per la sua perdita, ma forse sta vedendo cose che non ci sono. Dorme abbastanza?"
"No, ma non è questo il punto. La mia mancanza di sonno non cambia i fatti. Ecco perché ho deciso di andare sul luogo dell'incidente."
Alzò un sopracciglio. "Ah sì? E cosa avrebbe scoperto?"
Tirai fuori un foglio dalla tasca e glielo consegnai. Il Comandante lo lesse distrattamente. Sul foglio compariva una lista numerata:
Sul luogo dell'incidente, l'asfalto è intatto e il lampione contro cui si sarebbero schiantati non presenta danni.Non mi è mai stata mostrata l'auto. Ci sono rilievi o fotografie disponibili?All'obitorio, i miei genitori erano completamente vestiti, cosa insolita per un'identificazione. Perché?Il referto medico menziona traumi allo sterno, nonostante l'airbag. Inoltre, a mio padre è stato rilevato un trauma all'osso temporale destro. È insolito per un incidente d'auto. Non ho visto nessun trauma del genere sul suo viso.
A quel punto, il Comandante mi interruppe, sollevando lo sguardo dal foglio. "D'accordo, d'accordo," disse, con un tono meno sarcastico rispetto a prima. Sembrava riflettere su quelle informazioni, percependo finalmente che c'era più di quanto avesse inizialmente pensato.
Ma poi, gli notai un'espressione di perplessità sul volto, mentre le sue narici grosse si dilatavano, come a voler prendere aria.
Con voce ferma, gli dissi, indicando gli appunti: "C'è qualcosa che non va? Non capisce quello che ho scritto? Ogni dettaglio ha il suo peso." Mi fermai un attimo e poi aggiunsi, indicando nuovamente il foglio: "Prenda ad esempio l'orario dell'incidente. Non le sembra strano che nel verbale si parli di un intervallo tra le 5 e le 6 del mattino, quando invece l'impatto è avvenuto con precisione alle 4:46? Come mai questa discrepanza? Inoltre, mi sono chiesto quanto possa essere stata accurata l'analisi medico-legale. Questi appunti sono solo un aiuto, un aiuto per arrivare alla verità. È un mio diritto."
Il Comandante, con un ghigno amaro, replicò: "Diritto?" mentre gli occhi gli erano diventati due punte di spillo. "Non esiste il Diritto. Esiste solo l'Ordine, e questo è ciò che conta davvero." Fece una pausa, guardandomi con un'espressione di crescente irritazione, come se le mie parole lo infastidissero sempre di più.
Incominciai a pensare che non fosse l'Agente più adatto con il quale condividere i miei sospetti.
Poi, cambiò tono e chiese: "Suo padre aveva mai accennato a un proposito suicida nell'ultimo periodo?"
"No, nemmeno alla lontana."
"Aveva tentato di togliersi la vita? O si era mai comportato in modo strano in passato?"
"Mai. Mio padre non aveva alcun motivo per suicidarsi. E comunque... secondo lei, avrebbe mai voluto farlo portando con sé anche mia madre? No. Mio padre è sempre stato buono, tranquillo, premuroso, sia con me che con mia madre. Non c'era alcuna ragione per cui avrebbe voluto fare una cosa del genere."
"Ultimamente, è successo qualcosa di particolare in famiglia?"
Mi limitai a scuotere la testa. Pensai alla discussione che mamma e papà avevano avuto prima dell'incidente. Ma non volevo parlarne. Tuttavia, da quelle domande e dalle mie risposte, mi resi conto che i miei argomenti non lo avevano impressionato. A quanto pare, non c'era nulla di interessante per lui.
"E lei, che rapporto aveva con suo padre e sua madre? Era tranquillo?"
"Cosa intende dire?"
Nemmeno il Dottor Wallace mi aveva posto domande del genere. Al massimo mi chiese se ero molto legato a loro.
"Voglio sapere se andavate d'accordo, se litigavate spesso, quasi, mai, o se c'erano problemi in famiglia."
"Se andavamo d'accordo? Assolutamente sì. Se litigavamo? Mai. Problemi? No, nessuno."
Poi, aggiunse con tono sempre più agitato: "Ma, poi, cosa si aspetta da me? Cosa vuole sapere esattamente?" Si mosse nervosamente sulla poltrona, incapace di nascondere il suo disappunto.
"Voglio che le indagini vadano avanti, fino in fondo. E ci sono cose che deve sapere..." Mi trattenni, mordendomi le labbra. Ero sul punto di rivelare il discorso inquietante che avevo sentito dai miei genitori la notte prima dell'incidente. Ma, anche se le parole premevano per uscire dalla bocca, alla fine mi bloccai. "Volevo dire che dovreste controllare..."
Il Comandante mi interruppe bruscamente. "Ehi, freni un momento. Controllare cosa?" obiettò, fissandomi con uno sguardo sospettoso.
"... tutto ciò che riguarda quell'incidente, e in particolare i punti che ho annotato su quel foglio," risposi, cercando di mantenere la calma.
Mi schiarii la gola, determinato a proseguire. "Come ha fatto il medico legale, che ha esaminato i corpi dei miei genitori, a dichiarare un trauma cranico senza aver eseguito un'autopsia? Come poteva essere così sicuro? Non ha senso... qualcosa non torna."
Il volto del Comandante si oscurò leggermente dopo avermi ascoltato, e il suo respiro divenne più pesante. Corrugò la fronte, immerso nei suoi pensieri, e poi sollevò la testa con un'espressione interrogativa. Mi fissò a lungo, senza alcuna traccia di cordialità, sporgendosi sulla scrivania con aria severa. Il suo sguardo era carico di domande mute; era evidente che non capiva.
"Li ho visti con i miei occhi," aggiunsi, mantenendo lo sguardo fisso su di lui.
"Cosa ha visto?" chiese, come se non fosse ancora pronto a credere a quello che stavo dicendo.
"I corpi dei miei genitori, all'obitorio... Ho notato che non avevano segni, nessun trauma sui volti. Come si spiega l'assenza di lividi?"
Mi fermai un attimo, cercando di valutare l'effetto delle mie parole, poi insistetti con voce incrinata dall'indignazione: "Mi sono sbagliato anche su questo?"
Il Comandante sembrava messo alle strette. Era evidente che stava riflettendo se rispondere o lasciarmi nel vuoto.
Andai avanti, il tono più deciso: "E se le chiedessi di esumare i corpi dei miei genitori e di far fare su di loro un'autopsia per determinare le cause cliniche della loro morte? Se qualcosa non tornasse, verrebbe fuori solo in questo modo."
Aggrottò la fronte e scosse la testa. "Lei sta davvero pensando di far disseppellire i corpi di suo padre e sua madre? No." Si alzò di scatto, gli occhi fissi su di me, e scartò l'ipotesi con un gesto secco della mano.
Tagliai corto con la madre di tutte le domande. "Neppure se si tratta di un omicidio?".
Il suo pomo d'Adamo si mosse in un moto nervoso. Mi colpì allora il pensiero: Perché non sono rimasto zitto? Forse avevo esagerato, e in questo modo avevo solo peggiorato la situazione. Ma ormai le parole erano uscite da sole, senza riflettere.
"Un omicidio?" balbettò, incredulo. "Ma... è assurdo. Prima parla di complotto, e ora addirittura di omicidio? Non ci sono prove, niente che porti in quella direzione." Si passò una mano sulla nuca, evitando il mio sguardo. "Ascolti, capisco che sia sconvolto, ma questa è un'accusa davvero pesante."
Lasciò quest'ultima frase sospesa nell'aria, per qualche secondo, con tutto il suo greve carico di gravità.
"Se pensa che ci sia un colpevole, dov'è l'assassino?" Il suo sguardo era pieno di disprezzo. "E se fosse un omicidio, ci dovrebbe essere anche un movente. I moventi di un assassinio sono tanti: vendetta, gelosia, odio, fanatismo, interesse. Quale di questi potrebbe valere per i suoi genitori?"
Avrei voluto dirgli: "Lo saprò quando scoprirò il motivo per cui sono stati uccisi."
Mentre balbettava le sue parole, notai che aveva un leggero tremolio sotto il suo occhio destro. Era possibile che avessi colto un'emozione sul suo volto? Pensava davvero di riuscire a dribblare ogni mia domanda così facilmente? Decisi di incalzarlo.
"Nemmeno dopo averle parlato della mancanza di lividi sui loro volti, lei mi sta dicendo di non far esumare i corpi?"
Il Comandante mi fissò, poi rispose con sarcasmo: "E lei cosa pensa di risolvere con questa autopsia? Che risposte cerca, esattamente?"
"Beh, non lo so. È proprio per questo che sono qui. Ma siete voi che dovreste indagare. Solo perché non avete trovato un colpevole, non significa che non ci sia qualcuno là fuori che meriterebbe di marcire in galera."
Intanto, il Comandante si passò una mano sulla fronte, come se cercasse di scacciare un brutto incubo. Dopo aver riflettuto per un momento su cosa dire, si rivolse di nuovo a me.
"Vediamo di capirci. La causa della morte era chiara. Non ho dato ordine di far eseguire un'autopsia invasiva per rispetto della famiglia, per lei e per consentire un'eventuale visita prima della sepoltura. Ma mi sembra che lei, invece, stia cercando di insistere su dettagli che, a mio parere, non hanno una reale rilevanza. Ma visto che ci tiene, posso darle, intanto, qualche chiarimento riguardo a quanto ha scritto su questo foglio," disse, indicando le annotazioni che gli avevo consegnato. "Comincerò rispondendo al suo ultimo punto."
Si fece una pausa, come se volesse raccogliere i pensieri prima di continuare.
"Tengo a precisare che l'anatomopatologo si attiene a un protocollo e mi risulta che lo abbia seguito alla lettera. Deve, anche, sapere, che i traumi cranici, come quello di suo padre, possono essere interni e quindi non visibili dall'esterno. In molti casi, è la natura stessa di questi traumi a non lasciare segni evidenti all'esterno. Non è raro che la maggior parte dei traumi cranici più gravi si verifichi durante incidenti stradali. Ho visto casi simili molte volte in passato, e i referti medici lo confermano. Inoltre, i dati raccolti mostrano che tali incidenti sono più frequenti nei fine settimana. L'incidente dei suoi genitori, non a caso, è avvenuto di domenica, come riportato nel verbale. Nel Bellum, l'incidenza di questi incidenti è aumentata parallelamente al numero di Comunitari che possiedono veicoli a motore."
Nel frattempo, il telefono del Comandante squillò. Senza nemmeno alzarsi, rispose con una serie di "sì, sì, sì, capisco," chiuse la chiamata e rimase a fissarmi per qualche istante.
Dopodiché, le folte sopracciglia del Comandante si inarcarono sopra i suoi piccoli occhi freddi. "Clark" chiamò l'Agente, che era seduto accanto all'altra scrivania dall'altra parte dell'ufficio, ad avvicinarsi. Abbassò la voce, che divenne un raschio che grattava contro la gola, e i due si misero a bisbigliare nervosamente tra loro.
Un silenzio denso di sgomento e incredulità calò per qualche minuto, come se l'aria stessa fosse carica di domande non dette. Infine, il Comandante, con l'espressione di chi avrebbe voluto trovarsi altrove, si alzò con movimenti lenti, quasi da bradipo, e disse: "Sta bene. È tutto chiaro."
Era veramente arrivato a una conclusione? Poi mi disse che avremmo fatto una pausa di un quarto d'ora prima di riprendere. Uscì richiudendo la porta dietro di sé con cura, senza fare rumore. A quel punto mi guardai attorno, cercando un segno per capire la situazione.
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