Capitolo 12

Una volta uscito dall'edificio, tirai su il cappuccio, affondai le mani nelle tasche profonde del giaccone e sgusciai via, accelerando il passo fino a correre, diretto a casa, come se i miei piedi avessero deciso da soli.

Lungo il fiume Avon, l'acqua blu elettrico scintillava sotto il ciglio della strada coperta da alberi a mo' di ombrello, le cui foglie scendevano con grazia fino a terra.

Dopo mezz'ora di cammino, arrivai a casa. Mi misi a guardare fuori dalla finestra della mia stanza. L'oscurità calava lentamente, mentre alcune automobili in strada accendevano i fari.

Il chiarore lattiginoso dei lampioni illuminava alcune cornacchie appollaiate sui fili della corrente, che rompevano il silenzio della sera con il loro verso rauco, come se discutessero animatamente.

All'improvviso, un paio di cornacchie si alzò in volo, gracchiando, mentre uno stormo di piccoli uccelli neri si levava, in ordine sparso, da dietro i tetti, tracciando il confine tra Bellum e l'Urbe.

Li osservai a lungo, mentre nella mia testa prendeva forma una conversazione immaginaria con il Dottor Wallace. Mormoravo fra me e me, muovendo le labbra, tanto che ebbi l'irragionevole impressione che il dottore fosse davvero lì con me nella stanza. 

Sapevo già che nulla sarebbe cambiato. La decisione di smettere era già stata presa: il mistero della loro morte stava diventando un'ossessione ingestibile.

Pensai di chiamare Emily, sperando che parlarne potesse alleggerire il peso che mi opprimeva. Ma il dubbio mi assalì: e se parlarne mi avesse fatto sentire ridicolo anche con lei? Rimasi con il cellulare in mano, esitante. Emily era l'unica persona a cui sentivo di potermi rivolgere, ma anche lei mi sembrava lontana, come intrappolata in un altro mondo, proprio come me.

Alla fine, decisi di non chiamarla. Coinvolgerla sarebbe stato ingiusto. Mi tornò in mente quel momento al funerale: i suoi silenzi, i suoi sguardi, come se volesse dirmi qualcosa che non riusciva a spiegare.

Mentre mangiavo un'omelette ormai fredda, un lampo di luce illuminò per un istante l'esterno. Intanto cercavo di immaginare cosa avrebbe detto il dottor Wallace. "È ora di fare un passo in più. So che ce la puoi fare." Ma fu un tuono, potente e improvviso, a spezzare i miei pensieri.

Non so se fu quel tuono a scatenare qualcosa, ma iniziai a considerare le ipotesi più assurde. 

Era tempo di scoprire la verità. 

Me ne andai in camera, mi distesi sul letto e fissai il soffitto, i ricordi che martellavano nella mia mente.

Mi voltai sul fianco, cercando di dare ordine a quei pensieri, ma l'idea che potessero essere stati uccisi iniziò a tormentarmi, insinuandosi come un tarlo inarrestabile. Perché proprio loro? In cosa potevano essere coinvolti? Non potevo ignorare queste domande. Dovevo scoprire la verità.

Quando finalmente chiusi gli occhi, scivolai nella deliziosa terra di mezzo del sonno. Mi rigirai più volte, fino a ritrovarmi avvolto nelle lenzuola ormai aggrovigliate. 

***

Mi svegliai dal fondo di un sonno profondo e oscuro, risalendo lentamente in superficie. In cielo, le nuvole si aprirono e, in un attimo, un fascio di luce irruppe nella mia stanza. Un sole tiepido, appena sorto, aveva preso il posto del brutto tempo, facendo brillare l'asfalto come piombo. Allungai braccia e gambe, strofinandomi gli occhi. 

Poi, mi ritrovai a fare le solite azioni quotidiane: sistemare il letto, fare la doccia, inserire una cialda di caffè espresso nella macchinetta, radermi, pulire la stanza, preparare la colazione, il pranzo, e lavare alacremente ogni cosa con cura: piatti, bicchieri, posate, pentole. Il mio corpo eseguiva svogliatamente questi compiti giornalieri, come se agisse da solo, in modo automatico.

Allora mi chiusi ancora di più nei miei doveri per affollarmi la giornata. Ma riuscivo a concentrarmi su quello che facevo solo per pochi secondi; infine, la mia mente fu assorbita da quella serie di 'e se' che mi ero posto il giorno prima, tanto da prendere il sopravvento e schiacciare tutto il resto.

Mi lasciai trascinare da quel bisogno di risposte, tanto che le ore trascorsero senza che me ne accorgessi. Il tempo sembrava perdere significato, mentre la mia sete di verità cresceva.

Quando alzai finalmente lo sguardo verso l'esterno, il sole del pomeriggio, ormai basso, entrava dalle finestre, creando ombre lunghe sui mobili. La luce della cucina si era già spostata nel corridoio, e per un attimo mi immaginai nei panni di un detective, come se fosse davvero mio compito scavare fino in fondo a quel mistero.

Fu allora che mi resi conto che dovevo cercare indizi. Non si trattava solo di trovare una risposta a una domanda, perché questa ricerca implicava molto di più: esplorare, interrogare, e collegare tra loro elementi dispersi. Un computer avrebbe potuto eseguire il compito in modo più rapido, ma io dovevo mettere insieme i pezzi di un puzzle complesso e personale. 

Se avessi dovuto indagare sulla morte dei miei genitori, da dove avrei iniziato? Probabilmente dai punti che avevo già in mente: le impressioni raccolte all'obitorio, le informazioni contenute nel referto medico e nel verbale della polizia, e i dettagli che avevo notato sul luogo dell'incidente. 

Fase uno: costruire un quadro d'insieme basato sugli elementi a disposizione. Ogni dettaglio, per quanto piccolo, poteva rivelarsi importante.

Fase due: verificare le dichiarazioni dei testimoni oculari e confrontarle con le prove fisiche dell'incidente. Forse qualcuno aveva visto qualcosa di insolito o sentito rumori strani.

Fase tre: esaminare i rapporti medici e i referti autoptici, cercando anche la più piccola incongruenza. A volte, un singolo dettaglio può cambiare l'intera storia.

Fase quattro: ricostruire gli ultimi movimenti dei miei genitori prima dell'incidente; capire chi avevano incontrato, dove erano stati. Qualcosa in quella giornata poteva aver fatto la differenza.

Fase cinque: identificare eventuali Comunitari che avrebbero potuto avere un movente, qualcuno con un motivo nascosto che li avesse condotti a una simile tragedia.

Ma alla fine, non ero un detective, solo un figlio che aveva perso i genitori.

Dopo quell'ultima giornata di riflessione, la mattina seguente mi svegliai con il calore di un nuovo giorno che iniziava, nonostante l'aria esterna fosse ancora carica del freddo della notte novembrina. La finestra sembrava più grande, tanto che la luce del mattino si diffuse libera, attraversando la stanza e facendola risplendere come fosse d'oro. 

Per me, era un segnale: era arrivato il momento di agire. Quella mattina di buon'ora, mi buttai giù dal letto, deciso a parlare alla Centrale di polizia. 

Mi vestii in fretta, lasciando la colazione alle spalle, e uscii di casa con determinazione. In quell'occasione mi concessi, per la prima volta nella mia vita, un taxi. Mi diressi verso il centro cittadino, portando con me tutti i dubbi che continuavano a tormentarmi.

Restare a casa a pensare non sarebbe servito a nulla; dovevo affrontare la questione a viso aperto. Volevo esprimere le mie perplessità sull'incidente e cercare risposte. Sentivo un peso terribile sullo stomaco, un carico che dovevo liberare. Non sapevo cosa aspettarmi, ma valeva la pena tentare.

Durante il tragitto verso il centro cittadino, osservai dal finestrino il paesaggio del Bellum: la campagna coperta di brina, le siepi, i campi e le villette ordinate, con finestre di legno, tetti spioventi e giardini curati illuminati da lampioncini. I suoni riempivano l'aria: il canto degli uccelli, il latrato dei cani e, in lontananza, un trattore che attraversava i campi. Era come se li vedessi e li sentissi per la prima volta.

Man mano che il taxi si avvicinava a destinazione, mentre le villette iniziavano a diradarsi, sostituite da edifici più imponenti, mi sentivo sempre più nervoso.

Venti minuti più tardi, mi trovai davanti a un vecchio edificio che mostrava i primi segni d'usura: triste, brutto, severo. Un tempo era stato un ospedale psichiatrico, e ne aveva tutto l'aspetto, ma ora ospitava la sede della Centrale di polizia. Era il Comando del Bellum. Ogni aspetto di quella costruzione aveva il suo preciso perché. Il suo aspetto, rigido e privo di qualsiasi grazia, contrastava con l'eleganza funzionale degli edifici circostanti.

A meno di tre metri, c'era una scala esterna antincendio in ferro grigio. Sul tetto sventolavano bandiere di mezzo Dominio. Davanti c'era parcheggiata una fila di auto della polizia.

L'edificio si trovava in una strada tranquilla, lontana dalla principale, di fronte a un enorme palazzo: un parallelepipedo in vetro e cemento di venti piani, sede del Ministero dell'Interno. Anche questo edificio aveva un carattere severo, ma la sua funzionalità moderna lo rendeva meno opprimente rispetto al Comando del Bellum.

Le sue imponenti mura di cemento, alte almeno sei metri con in cima schegge di vetro e due giri di filo spinato, circondavano l'intero complesso, mentre le torri gli conferivano l'aspetto di una fortezza.

La facciata era caratterizzata da una grande arcata centrale, che sembrava voler trasmettere una sola cosa: la forza rassicurante della legge e dell'ordine pubblico.

All'ingresso, dietro un palo di ferro che sosteneva la bandiera del Dominio e proprio sotto l'arcata, erano installate telecamere di sicurezza affiancate da sensori di movimento, con altre telecamere orientabili agli angoli del perimetro. Notai che una delle telecamere, con il suo occhio elettronico, seguiva i miei movimenti. Le misure di sicurezza ricordavano quelle di una struttura governativa.

Su alcuni punti delle pareti esterne dell'edificio erano appesi stendardi da parata, rappresentanti le conquiste del Comando di Polizia, incorniciate da frasi ispiratrici che celebravano il coraggio e il sacrificio, mentre sulla porta d'ingresso vera e propria c'era un manifesto alto due metri, sul quale erano incise queste parole "Proteggere, Servire, Difendere".

Mi bloccai, rimanendo stupito di fronte alla mente che aveva escogitato quell'edificio. Non era solo una costruzione sgraziata, ma una scatola di cemento capace di togliere il sorriso a chiunque. Era la manifestazione di tutte le mie paure, un incubo trasformato in pietra.

Migliaia di domande mi vorticarono nella testa, a cominciare da quelle più importanti che dovevo porre. 

Sfilai dalla tasca del giaccone un foglietto: c'erano i miei appunti. Potevo ancora lasciar perdere. Potevo accartocciare quel pezzetto di carta e lanciarlo in aria; si sarebbe perso per strada. Lo rimisi, invece, in tasca.

A quel punto, il mio nervosismo divenne ancora più evidente. Restai lì, impalato, per diversi minuti, cercando di calmarmi. Non riuscivo a decidermi ad entrare.

All'ingresso c'era una guardiola, presidiata da un piantone che non sembrava avere più di venti, al massimo venticinque anni; era solo qualche anno più grande di me e sembrava annoiato, come se non avesse nulla da fare.

Feci un lungo respiro e mi avvicinai alla guardiola. Poi, mi schiarii la gola per attirare la sua attenzione, osservando il suo sguardo annoiato alzarsi lentamente su di me. Mi fece cenno di fermarmi. Mi mostravo sicuro, ma non ero mai stato in Centrale e non sapevo cosa aspettarmi.

Avvicinai il mio documento al cristallo, mostrandoglielo. Lui lo scrutò per un istante, poi mi fece cenno di avvicinarmi ancora per controllarlo meglio. Lo esaminò con un'espressione impassibile. Gli spiegai perché mi trovavo lì. Subito dopo premette un pulsante, e la sbarra si sollevò con un clic secco, lasciandomi passare.

Feci una ventina di metri, dirigendomi finalmente verso l'edificio preposto alla sicurezza del Bellum. L'ingresso in vetro antisfondamento si apriva al passaggio grazie a una bussola.

Una volta uscito dalla bussola, un altro Agente, con voce atonale, mi intimò di lasciare tutti gli oggetti metallici in un apposito contenitore, che veniva poi passato attraverso un metal detector.

Norme di sicurezza rigide? A dir poco. 

Dopodiché, mi perquisirono con un body scanner, come se fossi un nuovo detenuto all'entrata del carcere. Solo dopo una serie di controlli di routine, nel giro di una decina di minuti, mi vomitarono finalmente all'interno. 

"Devo fare un esposto."

Fu sempre la stessa voce atonale a rispondermi. "Da quella parte. Può proseguire in quella direzione, ma prima deve ottenere un'udienza dall'Ufficiale di turno."

Dopo aver ripreso i miei oggetti personali, avanzai, anche se una certa indecisione rallentò i miei passi. Non ero mai stato in una stazione di Polizia. Non avevo mai rubato niente e non conoscevo nessuno che lo avesse fatto.

Aleggiava un odore indefinibile, un mix di polvere accumulata, carta invecchiata e legno consumato. Si percepivano lievi tracce di prodotti chimici per la pulizia, ma non abbastanza da coprire un vago sentore di sudore e giacche impregnate di fumo. Mi chiesi se fosse così in tutte le Centrali di polizia del Bellum, forse persino dell'intero Dominio. 

Mi guardai attorno. Anche l'interno era un luogo grigio e deprimente. Una serie di frecce segnalava le varie sezioni: una indicava il settore per stupri e rapimenti, un'altra reati economici, e più avanti, una terza segnalava la direzione per gli esposti e denunce.

C'era un sacco di Guardie sparse qua e là per i corridoi. Uno, due, tre, quindici... persi il conto intorno ai venti, perché tutto ciò che vedevo erano le pistole nelle loro fondine.

I corridoi erano disseminati di poster motivazionali, ispirati alla più squallida e banale retorica, che mi provocavano un senso di insofferenza. Sulle bacheche erano affisse una sfilza di fotografie segnaletiche, che ritraevano facce di gente ricercata per reati che andavano dal viaggiare senza biglietto all'omicidio. Mi stupii per la quantità di foto. 

L'arredamento era un miscuglio sconfortante di ambiente istituzionale e di mobili da ufficio.

Respirai a fondo per calmarmi.

Un'altra Guardia si avvicinò. Sembravano tutti uguali, anonimi, con la stessa divisa.

Mi accompagnò, spalancandomi la porta di una stanzetta illuminata da neon, che rendevano le pareti ancora più grigie di quanto non fossero già.

Feci un respiro profondo ed entrai nella sala d'attesa, fredda e impersonale, con la sensazione di aver commesso un reato in un edificio zeppo di Agenti.

Era piuttosto spoglia. In mezzo alla stanza c'era solo un tavolino con le solite riviste, e sulle pareti screpolate, ogni spazio vuoto era tappezzato di fotografie della Centrale e ritratti di capi di stato.

La stazione di Polizia era in preda a un'attività febbrile.

Il rumore dei passi risuonava nel corridoio, mescolandosi con le voci concitate degli agenti e il suono sordo delle porte che si chiudevano.

Dalla sala d'attesa partiva un corridoio che portava agli uffici. Diversi Agenti entravano ed uscivano da quelle stanze, creando una vera bolgia di timbri, impronte e annotazioni.

Se fossi passato accanto a una di quelle porte, avrei potuto sentire voci al telefono e il ticchettio delle dita sulle tastiere dei computer. A quell'ora, la sala d'attesa era già strapiena di Comunitari seduti che chiacchieravano tra loro. Un paio di loro mi accolsero con un sorriso, a cui risposi con un cenno, ma ripresero subito le loro conversazioni.

La sala puzzava, un odore acre di sudore e fumo di sigaretta.

"Arriverà a breve. Può aspettare qui dentro. Intanto si sieda."

Mi indicò una delle poche sedie di plastica libere.

"Grazie."

Attesi come gli altri, seduto, come se stessi aspettando l'autobus a una fermata dell'Urbe. Il sedile era rotto, con una crepa che mi pizzicava il sedere ogni volta che mi muovevo.

La sala era un po' buia, le luci erano spente. Il riscaldamento, invece, era acceso, anche se troppo forte. Mi tolsi la sciarpa.

Sulle prime cercai di guardarmi intorno, anche perché non c'era molto altro da fare. Alla mia destra c'era un tizio coi capelli a spazzola che si dimenava sulla sedia, battendo il piede a terra, mentre leggeva una rivista di gossip. Si umettava l'indice della mano destra ad ogni pagina, muovendo distrattamente la testa da destra a sinistra. Appena si accorse che lo stavo osservando, abbassò lo sguardo.

Alla mia sinistra, invece, mi stava accanto uno con un paio di baffi a manubrio. Era sbracato sulla sedia ed era alle prese con il proprio cellulare, lamentandosi con un Comunitario riguardo alle strisce pedonali appena verniciate dal Bellum di fronte all'ingresso del suo giardino. Sembrava annoiarsi a morte, come suggeriva la sua postura.

Altri, invece, restavano immobili nei loro posti, mentre uno stava in piedi, aspettando il proprio turno come tutti gli altri.
Uno di questi, pieno di piercing, si guardava intorno mangiandosi nervosamente le unghie, come se fosse al bar.
Quello in piedi, davanti a una finestra socchiusa, fumava nervosamente una sigaretta. Sputava fuori il fumo e, allo stesso tempo, lo osservava mentre saliva serpeggiando verso il soffitto.

Il mio nervosismo si trasformò in disagio. Mi sentivo lontano dal mio mondo, intrappolato in quel luogo poco accogliente. I dubbi cominciarono a tormentarmi, ancora prima che l'incontro iniziasse. Avrei voluto solo che fosse già tutto finito.

Una leggera corrente d'aria portava fino a me l'odore acre del fumo. Era lo stesso tizio alla finestra, che trasferiva la sigaretta da un angolo della bocca all'altro con un colpo di lingua.

Lui fumava, mentre io repressi uno sbadiglio, trattenendo il respiro per evitare il fumo. Finalmente, la spense. Prima strofinò il mozzicone contro il davanzale, poi lo buttò giù in strada. Sembrava un forte fumatore. Era probabile che a furia di fumare avesse trasformato una striscia d'asfalto in un riquadro cosparso di mozziconi di sigarette. Dopodiché, andò a sedersi, rimanendo immobile come una statua di cera.

Rimasi ad aspettare, un'eternità apparente, mentre lottavo con tutte le mie incertezze, senza la possibilità di scappare. Era come cavalcare un toro impazzito. Fremendo nell'attesa, facevo ballare la gamba nervosamente.

Ogni tanto arrivava un Agente a chiamare qualcuno per condurlo in un ufficio. Non potevo fare altro che aspettare ancora.

Dopo più di un'ora, però, avevo quasi dimenticato il motivo per cui ero lì. Si erano aggiunti altri, che avevano riempito di nuovo la sala d'attesa, tanto che mi ritrovai a ritirare le gambe per non intrecciarle con quelle di un giovane seduto accanto a me, pieno di tatuaggi, che si guardava attorno con occhi vivaci, come un gatto alla ricerca di un topo.

Non ne potevo più di aspettare. I loro movimenti e le loro chiacchiere mi innervosivano, perché non avevo niente a che fare con nessuno di loro. Trascorse un'altra ora e, a quel punto, le mie natiche erano lesse e formicolanti. Restare seduto per così tanto tempo mi agitava: mi faceva venire piccoli brividi alternati a folate di calore. Mi sembrava di essere incatenato alla sedia, al punto che il mio culo sembrava inseparabile da quel sedile. Ma più passava il tempo, più mi si stringeva lo stomaco. Non vedevo l'ora di avere dei chiarimenti sulla morte dei miei genitori. Arrivai perfino a irritarmi con me stesso per quell'attesa insensata.

Molti erano già stati chiamati. Il posto accanto a me ora era vuoto, a parte una rivista stropicciata e abbandonata lì. Chi era rimasto fumava accanto alla finestra semiaperta, intervallando il silenzio con battute volgari. Poi lo vidi salutare qualcuno con la mano, probabilmente un amico. Aspirò due o tre boccate in modo quasi selvaggio, quindi andò a sedersi.

 Alla fine rimanemmo solo io e pochi altri, intrappolati lì dentro insieme. Uno, in particolare, mi osservava con intensità, come se ci fosse uno schermo tra di noi e io fossi un personaggio in tv.

Aspettai ancora una mezz'ora, e a quel punto stavo quasi per rinunciare, quando poco dopo udii un rumore di passi che s'insinuò tra i respiri smozzicati dei presenti, rendendo l'atmosfera ancora più opprimente.

Con la coda dell'occhio, vidi un Agente attraversare rapido e sparire subito dopo nel corridoio adiacente alla saletta. Aveva le spalle larghe e l'espressione determinata, seguito da altri due: uno alto e snello, l'altro piccolo e tarchiato.

Altri tre Agenti, vicini alla sala d'attesa, appena lo videro arrivare si alzarono di scatto e gli fecero il saluto militare.

Altri, incrociandolo, scattarono sull'attenti, mormorando un rispettoso "Comandante" prima di tornare rapidamente alle loro occupazioni. Era un tipo robusto, dall'aria poco simpatica. Notai che sul lato sinistro dell'uniforme aveva diversi alamari (4), come fossero mostrine di un generale, mentre sul davanti spiccava l'onnipresente logo del Dominio.

Calzava lucidi stivali pesanti, il cui rumore si faceva sentire sul pavimento, e una cinghia nera a tracolla, reggente la fondina della sua pistola. Sentii che stava andando nel suo ufficio a passo di marcia.

Era sicuramente un Ufficiale. Appariva come uno capace di tutto e timoroso di niente. Alzai un dito, il cuore in gola, per attirare la sua attenzione.

"Comandante!" gridai. Ma lui non si girò.

"Comandante, ho una cosa importante da chiederle!"

Gridai di nuovo, ma invece di una sua risposta, sentii solo i loro passi che rimbombavano sul pavimento di cemento, seguiti dal rumore di una porta che si chiudeva.

Aspettai ancora a lungo.

Finalmente venne il mio turno, e un Agente col naso adunco mi fece cenno di alzarmi. Mi indicò la direzione per la stanza dell'Ufficiale di turno incaricato delle denunce, ma dentro di me qualcosa si spezzò. Dopo ore di attesa, l'idea di sedermi in un ufficio qualsiasi per raccontare la mia storia a qualcuno che probabilmente l'avrebbe archiviata come una semplice fatalità mi faceva salire un senso di impotenza. Non mi avrebbero preso sul serio.

In quel momento, presi una decisione improvvisa. Dovevo parlare con chi aveva davvero il potere di fare qualcosa. Valeva la pena provare. Così, senza pensarci troppo, anziché seguire le indicazioni, mi fiondai verso l'ufficio del Comandante. Attraversai il corridoio, oltrepassando diverse porte anonime che si chiudevano e si aprivano con un concerto di sbam.

Alla fine del corridoio, giunsi davanti a una porta, sulla cui targhetta dorata era inciso solo "Comandante". Nemmeno sulla targhetta alla porta appariva il suo nome. Nel frattempo, un Agente m'inseguì trafelato, non comprendendo cosa stessi facendo.

"Aspetti, ma dove va? Lì non si può!" disse, avvicinandosi e posizionandosi tra me e la porta, quasi a bloccarmi l'accesso.

Era sulla trentina, portava un pizzetto e sembrava ansioso di riportarmi sulla retta via.

"Per favore, mi lasci passare! È urgente. Devo assolutamente parlare con lui di persona."

"Stia fermo e lasci fare a me."


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