8. Giocare col fuoco
IL VELENO DEL SERPENTE
. 8 .
Giocare col fuoco
Marisol si era addormentata al suo fianco, avvolta nella coperta che teneva stretta a sé. Si era rifugiata nel letto di Aida non appena era stata pronta per andare a dormire e la sorella aveva dovuto pettinarle a lungo i capelli prima che si tranquillizzasse, cadendo nel sonno.
Aida invece non riusciva a chiudere occhio. Pensava a Salvador e ad Angelo e non riusciva a capire quale dei due le avesse fatto un'impressione peggiore. Le erano sembrati entrambi arroganti e sicuri di sé, troppo, e lei non voleva rivederli mai più. Si domandava cosa in loro fosse piaciuto ai suoi genitori o a Esteban o a chiunque li avesse valutati e poi scelti come possibili pretendenti. Ma forse avevano considerato altre caratteristiche e la loro piacevolezza in quanto persone non era uno dei criteri usati durante la selezione. E forse in un'ottica puramente organizzativa, cercando di fare il meglio per il Principato, non erano nemmeno caratteristiche importanti. Ma per Aida sì, perché lei non era solo l'erede al trono ma era anche una persona e avrebbe voluto poter scegliere con quale altra persona passare il resto della vita. Avrebbe voluto che le piacesse. Amarla forse era chiedere troppo, ma che almeno non la disprezzasse le sembrava il minimo.
Si rigirò un'altra volta nel letto, voltandosi verso la finestra. Attraverso le tende trapelava la luce soffusa di Flott-Lys – la più grande delle lune – che investiva il tavolo dove aveva lasciato la sua ultima commedia incompiuta. Era tutto così surreale.
Spostò la coperta e scese dal letto, infilò i piedi nudi nelle pantofole di seta, si avvolse in una veste da camera e uscì dalle sue stanze. Voleva sapere che impressione avessero fatto a sua madre i due ragazzi. Magari vedendoli quella sera aveva cambiato idea. Sperava che le dicesse "hai ragione, tesoro, sono persone orribili. In fondo non è necessario che tu ti sposi, puoi benissimo governare da sola".
Attraversò i corridoi silenziosi verso le stanze di Xiana. Le guardie sparse per il palazzo la guardarono passare senza dire nulla e lei le superò a testa alta, come se non fosse affatto strano che se ne andasse in giro di notte per il castello. Il soldato davanti alla porta che introduceva agli appartamenti dei genitori la lasciò passare senza opporre resistenza e Aida si ritrovò in anticamera. Si aspettava di trovare la madre da sola – dopo le feste suo padre si tratteneva sempre a parlare con i vari funzionari che gli chiedevano un colloquio e infine aspettava che il Maggiore Ombrillado gli assicurasse che tutto era andato bene – invece dall'uscio socchiuso che collegava l'anticamera al salotto trapelava una lama di luce e si sentivano bisbigliare due voci, una maschile e una femminile. Aida si avvicinò e sbirciò dalla fessura.
Una delle lampade a gas posta in fondo alla stanza era accesa e illuminava da dietro due figure sedute sui divanetti nel centro del salotto. Aida le vedeva in controluce, ma era più che sufficiente per distinguere sua madre ed Esteban.
Esteban?
Cosa ci faceva Esteban lì, di notte, in pigiama?
Aida lo guardò meglio: sì, era proprio in pigiama, comodamente seduto sul divanetto di sinistra e girato verso sua madre, a sua volta in camicia da notte, sul divanetto di destra. Tra di loro, sul tavolino, c'era una caraffa e due tazze fumanti che, a giudicare dall'odore, contenevano la tisana di rosa canina, la preferita di Xiana.
Aida non si mosse. Si sentiva profondamente in colpa a spiare ma non riusciva a farne a meno, anche perché stavano parlando di lei.
«Credo di no» stava dicendo sua madre. «Non le sono piaciuti proprio per niente.»
«Nessuno dei due? Te lo ha detto lei?»
«Non ce n'è bisogno, basta guardarla in faccia.»
Era davvero così evidente?
Esteban non rispose e sollevò la tazza dal tavolino, bevendo un sorso di tisana. «Ah, scotta ancora. E quindi cosa facciamo?»
«Cosa vuoi che facciamo? Dovrà sposarne uno dei due, per forza, e spero che sarà lei a scegliere perché sennò dovrò farlo io.» I lunghi capelli castani, di solito stretti in elaborati chignon, le incorniciavano il viso pallido su cui si allungavano ombre nette generate dalla lampada. Mentre parlava si arrotolava una ciocca intorno al dito. Tirò le gambe sul divanetto, in una posizione poco regale che raramente Aida le aveva visto assumere.
«Lo sai come vanno queste cose, Esteban» riprese poi, con una sfumatura triste nella voce. «Non c'è mai davvero la possibilità di scegliere, si tratta sempre di optare per l'opzione meno peggio.»
Esteban poggiò nuovamente la tazza sul tavolino. «Parli di voi?»
Xiana esitò. «No, non del tutto. Lo sai quanto voglio bene ad Alvaro.»
«Lo so. Ma non è quello che avresti scelto, se ne avessi avuto la possibilità.»
Xiana fece un gesto stizzito, ma subito se ne pentì. «Dobbiamo parlare ancora di questo?»
Esteban sospirò e sul suo viso di solito serio si aprì un sorriso che ad Aida, in quella luce soffusa, parve quasi malinconico. «Ne parleremo sempre, Xiana.» Allungò una mano fino a poggiarla sul bracciolo più vicino alla donna e lei fece lo stesso, come il riflesso in uno specchio, sul proprio divanetto. Rimasero fermi a guardarsi per un tempo che ad Aida parve troppo lungo per poter essere ritenuto accettabile.
«Dovremmo smettere di farlo» mormorò poi Xiana.
«Per smettere di parlarne dovremmo smettere di vederci e questo non è possibile. E in fondo nemmeno lo vuoi davvero.»
La donna sospirò, poi si rimise seduta composta e afferrò la propria tazza, soffiando sulla tisana senza berla. «Siamo sempre stati un trio disfunzionale, noi.» Sorrise e di rimando sorrise anche Esteban.
Di colpo Aida realizzò che Esteban, nonostante i suoi capelli grigi – li aveva sempre avuti di quel colore, da quando la ragazza riusciva a ricordare – in realtà non era così vecchio come pensava. Aveva solo pochi anni più della madre.
«Comunque per ora il favorito resta Angelo Soldorado.» La madre tornò all'inizio del discorso. «Mi è sembrato più rispettoso ed educato.»
«In ogni caso ci serve più tempo per conoscerli meglio. Lo sai che non si tratta solo di Aida, ma di tutto il Principato.»
«Vero. A volte sono così preoccupata per mia figlia che me ne dimentico.»
Poi di colpo l'attenzione di Aida venne catturata da altro: dei passi in avvicinamento nel corridoio, qualcuno che si fermava a parlare con il soldato davanti alla porta. Suo padre.
Il cuore prese a batterle all'impazzata, rombandole nelle orecchie fin quasi a coprire ogni altro suono. Non voleva farsi trovare lì, non voleva che i suoi genitori sapessero che era rimasta a spiare dalla fessura come una guardona per tutto quel tempo. Si vergognava da morire.
Ma c'era anche un secondo motivo, che non voleva ammettere nemmeno a se stessa. Non voleva essere trovata perché voleva continuare a guardare. Voleva vedere come avrebbe reagito suo padre a trovare la moglie e l'amico da soli, di notte, in vestaglia. Adesso che aveva scoperto che c'era una parte della vita dei suoi genitori che lei non conosceva, se ne sentiva attratta in maniera quasi malsana. Suo padre e sua madre erano sempre stati solo questo, suo padre e sua madre, e invece ora scopriva che erano anche altro: persone, con una vita di cui lei era sempre rimasta all'oscuro. Due estranei. Questo la sconvolgeva e la riempiva di una paura irrazionale e non giustificata.
Corse a nascondersi sotto il mobiletto accanto alla porta – lo spazio era angusto e lei ci entrava a malapena. Probabilmente se avesse guardato suo padre l'avrebbe vista, ma perché avrebbe dovuto guardare sotto lì, nel buio della notte? Doveva solo sperare che la guardia non l'avesse informato, ma in realtà non se ne preoccupava troppo. Con gli anni aveva imparato a considerare tutti quei soldati come parte dell'arredamento, silenziosi e fedeli come qualsiasi tenda.
Vide gli stivali da cerimonia di suo padre passarle davanti alla faccia, poi l'anticamera venne inondata dalla luce giallastra del salotto quando Alvaro aprì la porta. La socchiuse nuovamente alle sue spalle e Aida si precipito a spiare con le mani che le sudavano.
«Tutto a posto?» gli stava chiedendo Xiana, mentre si spostava per fargli posto sul suo divano.
Alvaro si slacciò la giacca dorata e si sedette al suo fianco. «Gli ospiti sono stati tutti accompagnati ai loro alloggi e il giro di ricognizione della Guardia Interna non ha rilevato nulla di sospetto.»
Aida osservò attentamente il volto di suo padre, illuminato di sbieco. In lui non c'era segno di sorpresa. Cosa significava? Che era una cosa che facevano spesso? Che era tutto normale?
«Però non mi sembri affatto tranquillo» disse Esteban, sporgendosi in avanti e poggiando i gomiti sulle ginocchia.
«No, le notizie da Kozan mi preoccupano.»
«Ma cosa sta succedendo?» chiese la madre.
«Un gruppo di una trentina di soldati è stato sorpreso mentre tentava di attraversare il confine da un passo non controllato. Non avevano mai cercato di sconfinare da lì, anche perché è difficile da raggiungere. Sono stati fermati, ma come possiamo sapere che erano i primi?»
«Intendi che altri potrebbero essere già nel Principato?»
«Esattamente» intervenne Esteban. «Era di questo che stavamo parlando prima della festa.»
«Ho chiesto a Ombrillado di aumentare la sorveglianza e di velocizzare la prova finale per le reclute dell'ultimo anno.»
«Ma abbiamo abbastanza Essenza?» Xiana strinse le dita intorno alla tazza.
«Dovrebbe arrivare nelle prossime due settimane, ho contattato i nostri fornitori a Sahamal e mi hanno detto che la carovana era appena rientrata dal deserto. Il tempo di purificare il veleno e poi ce lo mandano subito.»
Aida era sicura di aver capito male perché suo padre non poteva aver detto davvero la parola "veleno", a meno che questa avesse altri significati di cui lei non era a conoscenza.
Esteban si diede una pacca sulle gambe e poi si alzò. «È inutile stare svegli a pensarci tutta la notte.»
«Hai ragione. In ogni caso ho convocato un Consiglio di Guerra per domani mattina» disse Alvaro, alzandosi a sua volta, e poi strinse forte una spalla a Esteban.
«Dormi bene» gli mormorò invece la madre, mettendosi in piedi senza lasciare la tazza. Gli diede un bacio sulle guance, prima a destra e poi a sinistra, e ad Aida parve che nel passaggio da un lato all'altro le loro labbra fossero troppo vicine, anche se solo per una frazione di secondo. Poi Esteban si avviò verso la porta e Aida corse a nascondersi nuovamente sotto il mobiletto. Nel salotto si spense la luce e anche la ragazza, una volta che intorno a lei ci fu solo silenzio, tornò in camera sua.
Dormì malissimo, assopendosi di tanto in tanto ma svegliandosi di colpo poco dopo a causa di qualche incubo che nemmeno ricordava. Quando finalmente in cielo sbocciò un'alba lattiginosa – lo splendore di Brann offuscato da pesanti nuvole grige cariche di pioggia – si alzò dal letto, decisa a parlare con i suoi genitori. Non era sicura di cosa: dei suoi pretendenti, forse, o dell'esercito di Kozan che minacciava il Principato. Pretesti, certo importanti, ma comunque pretesti. Quello che voleva davvero era una spiegazione a ciò che pensava di aver visto la notte prima. Voleva che qualcuno le dicesse "ti sei fatta tante paranoie per nulla, era tutto normale, non è successo assolutamente niente", che in fin dei conti era la verità. Non era successo nulla: sua madre ed Esteban stavano aspettando suo padre, bevendo una tisana, e poi avevano parlato di matrimonio e di guerra. Non era poi così diverso da quello che facevano sempre.
Aida cercò di convincersene.
Prima però che potesse vestirsi e andare a cercarli, sua madre bussò alla porta ed entrò, seguita da due domestiche con in mano i vassoi della colazione.
«Aida, Marisol, svegliatevi. Vostro padre ha indetto un Consiglio di Guerra per stamattina, dovete prepararvi.»
Marisol si girò nel letto, un occhio aperto e l'altro chiuso e la frangetta che andava in tutte le direzioni. Biascicò: «Ma è presto».
Aida invece si sedette subito alla scrivania, dove le domestiche avevano poggiato i vassoi. Non aveva molta fame, ma si sforzò di mangiare in modo normale. Si fece lavare, vestire e pettinare senza lamentarsi. Si era scordata del Consiglio, ma sperava che in questa occasione suo padre avrebbe chiarito almeno la questione del veleno.
Cosa che non fece.
Aida e Marisol ascoltarono per tre ore il padre e i capi dell'esercito discutere di tutte le possibili strategie militari – quanti soldati mandare al fronte, quanti lasciarne di guardia nella Gemma – ma mai una volta nominarono il veleno o l'Essenza, nemmeno quando si parlò dell'imminente prova finale dell'addestramento militare. Come se fosse una cosa di nessuna importanza, oppure una cosa troppo segreta per parlarne. Aida era abbastanza sicura della seconda ipotesi.
Era cresciuta nella convinzione che, in qualità di erede, suo padre le dicesse tutto, e fece male accorgersi che invece non era così. Aveva sempre creduto che i suoi genitori si fidassero di lei come lei si fidava di loro, ma in un solo giorno il flusso si era spezzato in entrambi i sensi.
Siccome nessuno aveva idea di quanto sarebbe durato il Consiglio le lezioni delle ragazze erano state sospese, ma era finito prima del previsto e Aida e Marisol si ritrovarono con tutto il pomeriggio libero da dover riempire.
«Scriviamo una tragedia di guerra» propose Marisol mentre pranzavano da sole nel salotto di Aida.
Aida fece girare il cucchiaio nella vellutata di verdure. Da un lato non aveva voglia di scrivere, le sembrava che in confronto a quello che le stava accadendo nella vita vera non avesse nessuna importanza. In fondo, erano solo storie inventate, stupide, per bambini. Eppure una parte di sé non desiderava altro che estraniarsi da se stessa per diventare qualcun altro e smettere di pensare gli stessi pensieri, che si avvolgevano a spirale nella sua testa.
«Va bene» acconsentì. «Se siamo veloci potremmo riuscire a farla vedere a Beltran prima di cena.»
«Scriviamola adesso» decise Marisol, alzandosi. «Vado a prendere il materiale.» Scomparve nella camera da letto della sorella, per ricomparire un istante dopo con fogli e penne. Li dispose sul tavolo, accanto al piatto mezzo pieno, nella mano destra una penna e nella sinistra il cucchiaio.
«Bene, come cominciamo?»
Aida si mordicchiò il labbro. Nella sua mente si impose l'immagine dei soldati nel cortile, il giorno precedente – i veterani e le reclute, tutti insieme per proteggere Portonovo e, con il Principato, il principe e la sua famiglia. Per proteggere lei.
«Possiamo scrivere la storia di un soldato, uno giovane, appena reclutato, che deve proteggere la principessa di un regno sperduto.»
«E si innamora della principessa?»
«Ma no, Sol, così è banale.»
«Sarà banale, ma a me piace.»
«No, a lui della principessa non importa. Decide di entrare nell'esercito solo perché vuole rubare una pianta magica, che cresce soltanto nella serra della principessa, perché gli serve per curare il fratello malato.»
«Allora è il fratello che si innamora della principessa!»
«Va bene, se proprio dobbiamo...»
Marisol cominciò a scrivere veloce, seguendo le proprie idee e quelle di Aida, a sua volta così assorbita dalla creazione da dimenticarsi del pranzo, che rimase a raffreddarsi nei piatti finché non venne una domestica a sparecchiare. Più andavano avanti, più la storia le coinvolgeva: immaginarono battaglie e imprese spericolate, un sacco di personaggi morirono, fino ad arrivare allo scontro finale, quando il soldato e la principessa si trovarono uno di fronte all'altro. Tra di loro la pianta magica. E in quel momento il soldato si trovò davanti a un dilemma morale: aveva infatti scoperto che la vita della principessa e quella della pianta erano strettamente legate e portare via la seconda voleva dire uccidere la prima. Non farlo tuttavia avrebbe determinato la morte del fratello.
«E ora?» domandò Marisol.
«Non lo so» mormorò Aida, guardando assorta fuori dalla finestra mentre il cielo diventava scuro. «Tu cosa faresti?»
«Per salvare te brucerei tutto» disse Marisol, senza nemmeno pensarci.
Aida si voltò di scatto verso di lei e vide i suoi occhi appassionati brillare di una luce vivida. «Anche uccidere un'altra persona? Una persona che io amo?»
«Ma tu non ami nessuno più di me, no? Più di mamma, papà e Beltran, e loro non li ucciderei mai.»
Aida annuì. «Va bene, il soldato ruba la pianta e la principessa muore. Usa le radici per fare un infuso per il fratello, che guarisce in pochi giorni, ma quando scopre il prezzo che ha dovuto pagare si arrabbia e piange e dice che avrebbe preferito morire.»
«Però la pianta era magica» interviene Marisol. «Il soldato butta i resti in giardino e il fratello scopre che in quel punto è nato un fiorellino e che tramite quel fiorellino riesce ancora a percepire la presenza della principessa, e decide di prendersene cura per sempre. Fine.»
«Io non la metterei questa parte.»
«Dai, è bellissima. Ti prego.» Marisol sporse il labbro inferiore e cominciò a sbattere le palpebre.
Aida resistette qualche secondo. «Va bene, lasciamola.»
«Ottimo» disse Marisol, sorridendo. «Io faccio la principessa.»
«Io il soldato.»
«I vestiti da principessa ce li abbiamo. Quelli da soldato possiamo cercarli nell'armadio di papà.»
Aida esitò, ma poi decise che in fondo il padre non si sarebbe arrabbiato se avessero preso una delle divise più semplici.
Raccolsero il materiale che poteva essere loro utile dalla stanza di Aida e poi corsero fino agli appartamenti dei loro genitori. Superarono la guardia all'ingresso, sempre presente anche se le camere erano vuote. In quel momento Alvaro e Xiana non c'erano e le due ragazze spalancarono l'enorme armadio del padre.
Aida tirò fuori una divisa che nessuno usava da molto tempo. «Questa direi che va bene.»
Marisol annuì, poi il suo viso si illuminò, colto da un'idea. «Prendiamo anche un'arma! Così è ancora più credibile.»
«Un'arma?»
«Sì, una di quelle a polvere. Ma scarica però, tanto papà le tiene sempre scariche quelle che ha in camera, me lo ha detto lui una volta.»
Aida strinse le mani intorno alla stoffa morbida dell'uniforme. Aveva paura, ma un'arma a polvere avrebbe sicuramente reso migliore la tragedia. Non fermò Marisol che si avvicinò allo scrittoio del padre, aprì un cassetto e ne estrasse una piccola, tutta d'argento. Le canne rifletterono la luce ambrata della lampada a gas, come se le stessero facendo l'occhiolino. Sarebbe davvero stata perfetta.
«Sicura che è scarica?»
«Sì sì» affermò decisa Marisol, passandogliela.
Aida la afferrò come se fosse delicatissima – le ali di una farfalla, i petali di un fiore – quando in realtà tra le due l'essere delicato era lei. L'arma era fredda e dura tra le sue mani e le diede una sensazione di pericolo e potere. La strinse quindi con forza, tanto da farsi diventare le dita bianche. Non ne aveva mai maneggiata una.
«Andiamo.»
Quando entrarono nel salotto di Beltran, lo trovarono che stava impilando uno sopra l'altro un numero spropositato di cubetti di legno, tanti che ormai la torre era alta come lui.
«Bel!» lo chiamò Marisol. «Abbiamo una nuova storia.»
Lui si voltò verso di loro, lo sguardo fisso ai loro piedi, e sorrise.
Le ragazze si cambiarono velocemente, poi fecero uscire dalla stanza la domestica che aveva il compito di controllare Beltran e fecero sedere il fratello sul tappeto. Lui incrociò le gambe, in trepidante attesa.
Aida fece un sospiro profondo e liberò la mente. Si immaginò soldato, pensò alla fatica fisica e al fratello malato. Pensò a Beltran e Marisol e a tutto quello che sarebbe stata disposta a fare per salvarli. Poi fece un segno alla sorella. E lo spettacolo iniziò.
Più recitava, più Aida si sentiva leggera. Era facile essere qualcun altro, immedesimarsi in lui, in quei drammi fittizi che si sarebbero conclusi dopo la parola fine. Erano tragedie compartimentate, tutte rinchiuse nello spazio di un'ora, di cui usufruire a proprio piacimento. Aida avrebbe voluto che anche la vita fosse così, fatta a misura per lei secondo il proprio gusto, piuttosto che quel casino in cui invece doveva districarsi, destinato a durare per sempre, finché lei ci fosse stata.
Lo spettacolo le sembrò fin troppo corto. Era ormai quasi alla fine e il soldato e la principessa si fronteggiavano, uno davanti all'altro. Il soldato alzò l'arma a polvere verso la sua nemica, le mani strette intorno al metallo, un dito sul grilletto.
Poi improvvisamente una voce alle sue spalle gridò: «Aida!»
La ragazza si girò di scatto, spaventata da quel richiamo che la riportò bruscamente alla realtà, e sussultò. Le mani, ancora in alto e strette intorno all'arma, ebbero uno spasimo e si strinsero per un istante sul grilletto. Aida si sentì sbalzata all'indietro e cadde sul tappeto, mentre un colpo secco risuonò nella stanza. E poi il silenzio.
La ragazza si tirò subito a sedere, guardando verso la porta da dove sua madre l'aveva chiamata. Xiana era ancora lì, in piedi, e la fissava con gli occhi sbarrati. Quei grandi occhi scuri si stamparono con forza nelle retine di Aida. Occuparono tutto il suo campo visivo e la ragazza non riusciva a distogliere lo sguardo; o forse non voleva, perché farlo avrebbe voluto dire vedere la macchia color vino che si allargava sul petto di sua madre, divorando famelica la stoffa dell'abito azzurro.
Abbassare gli occhi avrebbe significato ammettere che c'era qualcosa che non andava – qualcosa di sbagliato – e Aida non voleva. Non poteva.
Abbassare gli occhi avrebbe significato ammettere che quell'arma non era scarica e ormai era troppo tardi per assicurarsene.
«Mamma!» urlò Marisol con tutto il fiato che aveva in gola, mentre Beltran si tappava le orecchie e chiudeva gli occhi, gemendo e dondolando sul posto.
Xiana cadde in ginocchio, una mano che tentava di aggrapparsi allo stipite e l'altra che premeva sul ventre.
«Vostra Altezza Divina!» esclamò la domestica che accudiva Beltran, affacciandosi nella stanza alle spalle di Xiana. E corse subito via, urlando "Aiuto! Aiuto! Un medico!"
Marisol si precipitò dalla madre e la abbracciò, piangendo e ripetendo: «Mamma, mamma, mamma» come se fosse una formula magica per riportare indietro il tempo.
Aida non si mosse e continuò a guardare sua madre in volto, anche quando lei smise di ricambiare e si accasciò tra le braccia di Marisol. Anche allora Aida non abbassò lo sguardo perché se lo avesse fatto avrebbe dovuto ammettere che sua madre era morta e ad ucciderla era stata lei.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top