7. Il riflesso della luna sull'acqua
IL VELENO DEL SERPENTE
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Il riflesso della luna sull'acqua
Aida stava leggendo un libro sulla storia politica del Principato, mentre sua madre le acconciava i capelli per la serata, ma non riusciva a concentrarsi. La sua mente tornava alla cerimonia di quella mattina, a quando si era affacciata al balcone e aveva visto ai suoi piedi una folla sterminata di soldati tutti con il volto all'insù, a fissare lei. Sapeva che probabilmente non stavano guardando davvero lei, ma suo padre, ma sapeva anche che lei sarebbe diventata suo padre, nel futuro, in una sorta di strana metamorfosi sostitutiva, e che quindi sarebbe arrivato il giorno in cui al centro dell'attenzione ci sarebbe stata per davvero lei, Aida Delmar, venticinquesima Principessa Divina della dinastia Delmar. Ogni volta che ripensava a quel titolo un brivido le contraeva le viscere, e lo faceva spesso, ripetendolo in silenzio con il solo movimento delle labbra e facendoselo rigirare in bocca. Aveva un gusto dolce e acidulo, come le tisane alla rosa canina quando restavano troppo tempo in infusione.
Le faceva sempre uno strano effetto vedere tutta quella gente insieme, lei che passava tanto tempo in compagnia soltanto della sua famiglia e della servitù. Dopo il primo destabilizzante colpo d'occhio, aveva cercato un senso in quell'insieme di puntini da colori spenti, qualcosa a cui aggrapparsi per non fissare nel vuoto mentre suo padre parlava.
Aveva notato che più guardava lontano, verso le mura e il portone, più l'età dei soldati diminuiva, fino ad arrivare ai visi e lisci e imberbi dei ragazzini in grigio in fondo, tanto lontani che riusciva appena a distinguerne l'ovale del volto. Si ricordò del discorso fatto con suo padre e cercò di distinguere nella mischia i ragazzi delle Paludi dagli altri, ma con paura si rese conto che non ci riusciva. Non sapeva da cosa avrebbe dovuto identificarli, forse dalla sporcizia che si portavano addosso o dai volti cattivi o forse solo da un alone di pericolo. Non lo sapeva, ma era stata certa che quando avesse avuto davanti le reclute sarebbe stata in grado di distinguere il grano dalle stoppie, e invece non era successo. Più li guardava più le sembravano tutti uguali. Assolutamente uguali. Avrebbe potuto trovarsi uno dei ragazzi della Palude davanti senza nemmeno accorgersene e questo l'aveva riempita di disagio e paura. Non sapeva nemmeno lei paura di cosa, esattamente, ma non aveva potuto farne a meno. Tenere i ragazzi delle Paludi con gli altri, mischiarli tra loro fino a renderli irriconoscibili, non le sembrava prudente. Era come avere una serpe nascosta tra i fiori del centrotavola, mentre tutti mangiavano tranquilli.
Quella sensazione di disagio le era rimasta addosso tutto il giorno e non era riuscita a farla scivolare via in nessun modo. Sperava che studiare l'avrebbe distratta, ma non era stato così.
«Cosa c'è, Aida?» domandò sua madre, mentre le appuntava una molletta tempestata di diamanti tra i capelli.
Aida rimase un attimo in silenzio. Non voleva riaprire il discorso, sapeva che non sarebbe servito a niente.
«Sei preoccupata per il ballo?»
La ragazzina corrugò le sopracciglia. «No, perché dovrei?»
La madre si spostò davanti a lei. «Non ti ha detto nessuno che ci saranno i tuoi pretendenti, stasera? Avevo detto a tuo padre di farlo.»
Aida rimase immobile, e per un istante nel suo cervello fu tutto bianco. «No» fece poi. «Non me l'ha detto nessuno.»
Xiana strinse le labbra, e Aida seppe che era molto arrabbiata con il marito. Sua madre era sempre calma e posata, ma la ragazzina aveva imparato a decifrare le sfumature del suo viso. E in realtà un po' arrabbiata lo era anche lei: avrebbe voluto saperlo prima per potersi preparare. Anche se non c'era niente per cui prepararsi, anzi, esserne consapevole l'avrebbe solo fatta andare in ansia. Però avrebbe voluto saperlo, ecco tutto. Non sopportava che le venissero tenute nascoste le cose, soprattutto se riguardavano lei.
Le labbra della madre si rilassarono. «Comunque non hai niente di cui preoccuparti. Verranno a presentarsi, magari ballerete insieme, e basta. È solo per conoscerli.»
Aida annuì, anche se non si sentiva affatto più tranquilla, e continuò a ripensarci anche mentre una domestica l'aiutava a indossare l'abito. Si immaginò tutti i possibili scenari, cosa le avrebbero potuto dire e cosa avrebbe risposto lei, nel tentativo di avere un repertorio di battute già preparate per ogni situazione.
Una volta pronta, fu scortata da una guardia fino al salotto di sua madre – quando c'erano invitati al castello giravano sempre accompagnati da almeno un soldato di scorta – dove già la stavano aspettando sia Xiana sia Marisol, con le rispettive guardie fuori dalla porta. Entrambe erano pronte per la festa ed Aida si soffermò a guardarle. Erano bellissime. La madre indossava un abito argentato, stretto in vita e che poi si allargava scendendo fino ai piedi, e nel suo scendere si riempiva di arabeschi neri. La scollatura era profonda quel tanto che bastava per far intuire senza mostrare, e persino i fili grigi che cominciavano a vedersi tra i suoi capelli sembravano messi appositamente per abbinarsi al vestito.
Marisol invece era vestita di verde, come prevedibile, ma di una tonalità al confine con l'azzurro, che unita alla sua esuberanza la faceva assomigliare a un'onda del mare. I capelli rosso-dorati erano stati arricciati e le ricadevano sulle spalle in delicati boccoli.
In confronto Aida si sentì brutta, anche se sapeva di non esserlo. Abbassò lo sguardo sul suo abito color ciclamino, scelto da lei ormai un mese prima, e all'improvviso desiderò di indossarne un altro, qualunque altro. Con quel colore addosso e i suoi capelli rossi non avrebbe mai potuto fare una bella impressione sui suoi pretendenti.
Prima che potesse fare dietrofront e tornare in camera, Marisol si alzò e la prese sottobraccio.
«Mamma, è arrivata, possiamo andare.»
Le guardie le portarono fino all'anticamera del salone grande delle feste, dove trovarono il padre ed Esteban che discutevano. Aida fece appena in tempo a vedere l'espressione preoccupata di entrambi, prima che i due uomini si accorgessero di loro e le accogliessero con un sorriso.
«È successo qualcosa?» chiese.
Suo padre fin da quando erano piccole avevo deciso di non mentire mai alle figlie, soprattutto sulle questioni politiche, per prepararle a ciò che le aspettava. Smorzò il sorriso, che però non abbandonò del tutto il suo viso, e disse: «Il Regno di Kozan non accetta la sconfitta e fa pressione ai confini. Ne parleremo domani.»
Al suo fianco Esteban stava in piedi con le mani unite dietro la schiena. «Questa sera, principessa, dovete divertirvi. Al resto penserete domani» le disse e le fece un discreto ma sincero sorriso, che Aida ricambiò.
Esteban esisteva da sempre nella vita di Aida ed era forse la persona che la conosceva meglio al di fuori della famiglia, eppure aveva sempre preferito chiamarla "principessa" e darle del voi perché ad Aida, quando era piccola, era una cosa che faceva tanto ridere e lui aveva mantenuto negli anni quella rispettosa forma di scherzo, in un gioco che gli estranei non potevano capire. Di rimando, Aida lo aveva sempre chiamato zio.
«Sono già arrivati i ragazzi?» chiese la madre.
«Salvador Tiburòn sì» la informò Esteban. «Angelo Soldorado è in ritardo.»
Aida si mordicchiò il labbro inferiore, ma smise non appena si accorse dello sguardo che la madre le stava rivolgendo.
«Bene, ragazze, andiamo» disse poi alle figlie.
Esteban annuì e andò a dare il segnale alle due guardie che presenziavano davanti alla porta del salone, che si misero sull'attenti e lo spalancarono. Nella sala, che fino a un istante prima era stata piena di musica e chiacchiere, si fece silenzio.
«Sua Altezza, il Divino Principe Alvaro Delmar, ventiquattresimo sovrano della dinastia Delmar» annunciò una delle guardie. «E con lui le principesse.»
Come un corpo solo, tutti si portarono le dita alle labbra per poi inchinare lievemente il capo. Aida sentì un brivido contrarle le viscere: vedere tutte quelle persone che la onoravano le metteva al contempo paura e piacere e non sapeva quale delle due sensazioni prevalesse.
Poi la musica riprese.
Le feste nel salone del castello erano le uniche occasioni in cui alla famiglia regnante era consentito mischiarsi alla gente e tutti le aspettavano con ansia: sia la gente da fuori, che bramava un invito come se fosse la cosa più preziosa del mondo, sia gli abitanti del palazzo stesso. In genere Aida si divertiva molto durante quelle serate, ma questa volta non riusciva a rilassarsi.
Fece vagare lo sguardo nella sala, cercando Salvador Tiburòn. Non aveva idea di come fosse fatto – sapeva solo che era biondo e aveva vent'anni – ma aveva l'inspiegabile sensazione che lo avrebbe riconosciuto subito non appena se lo fosse trovato davanti.
Scrutò la gente che riprendeva a danzare sotto gli alti soffitti di marmo bianco e stucco dorato, che amplificavano il suono vibrante degli strumenti ad arco. Riconobbe il brano, uno dei primi che aveva imparato e che restava il suo preferito nonostante il passare degli anni. Lo aveva sempre trovato dolce e inquietante; quando lo ballava immaginava di danzare da sola in mezzo a un cerchio di persone, avvicinandosi prima a una e poi a un'altra, dando loro l'impressione di essere raggiungibile, per poi ritrarsi prima che chiunque potesse toccarla. Tra un passo e l'altro si sentiva bellissima e irraggiungibile come le due lune di Domhan Ekte e per questo lei lo aveva segretamente intitolato "la danza delle lune" anche se sapeva che il suo vero nome era un più banale "Opera 35" di Rima-Korsy, un musicista amico di suo nonno proveniente dal regno desertico a ovest di Portonovo.
Mentre ascoltava la danza delle lune cercando Salvador sentì nascere dentro di sé una nuova forza. Con quella musica ad accarezzarle la pelle, lei era la luna. Era luminosa ed evanescente. Era il suo riflesso sull'acqua, impalpabile e inafferrabile. Avrebbe potuto prendersi gioco di Salvador e di tutti gli altri pretendenti, avrebbe potuto far credere loro di essere interessata come i suoi genitori volevano che fosse, ma senza farsi mai davvero afferrare. Avrebbe potuto essere lei a tenere le redini del gioco, un passo avanti e due indietro, sovrana di se stessa e di chiunque altro. Nessuno poteva obbligarla, costringerla in una rete che lei non desiderava, perché lei era il riflesso della luna sull'acqua e nessuno può ingabbiarlo. Lei era una divinità.
Si lisciò una piega del vestito e si girò verso Marisol, ferma accanto a lei.
«Secondo te qual è Salvador Tiburòn?»
Ma prima che la ragazzina potesse rispondere, una voce alle loro spalle disse: «Sono io».
Aida e Marisol si girarono di scatto e rimasero qualche istante a guardare il ragazzo che aveva parlato, in silenzio. Aida lo scrutò dall'alto in basso, due volte, prima di fermare gli occhi sul suo volto. Salvador era di poco più alto di lei e indossava un completo bianco con ricami d'argento sulle maniche e sul bordo della giacca dove i due lembi si univano, fissati da tre bottoni a forma di veliero. Teneva le mani dietro la schiena e la fissava con due occhi di un castano morbido che però non trasmettevano nessun calore, come terra gelata alla fine dell'inverno. La barba era tagliata di fresco e la pelle del viso era liscia e candida. Tutto in lui dava un'idea di ordine e pulito, dai capelli biondo scuro tenuti indietro con la brillantina alla punta delle scarpe argentate che riflettevano le luci dei mille lampadari che illuminavano la sala.
«Spero che quello che vedete vi soddisfa, Vostra Altezza.»
Davanti a quegli penetranti, che mostravano un'intelligenza così acuta da metterla a disagio, Aida sentì vacillare tutta la sicurezza appena acquisita. Ascoltò ancora per un istante la musica e strinse i muscoli della mascella. «Lo deciderò col tempo, se permettete. Quello che mi preoccupa non è tanto quello che vedo, ma piuttosto quello che non posso vedere.»
Un angolo della bocca di lui ebbe un rapido guizzo, come un'idea di sorriso che però non si concretizzò.
«Vuol dire che avete deciso di concedermi del tempo. Questo è già un giudizio positivo.»
Aida non replicò. Suo padre le aveva sempre insegnato che quando non si sa cosa ribattere è meglio restare zitti.
Intanto la danza delle lune era finita e l'orchestra aveva iniziato un valzer. Salvador le porse una mano ricoperta da un guanto bianco, il palmo rivolto verso l'alto. «Ballate, principessa?»
Aida posò la propria mano su quella di lui e si fece guidare in mezzo alla pista. Marisol rimase a guardali sparire tra la folla. Aida lanciò uno sguardo verso di lei, verde come la speranza, cercando di attingere dalla sorella tutta la forza di cui sapeva avrebbe avuto bisogno.
Non appena si accorgevano di loro, le persone si allontanavano per lasciarli passare e Salvador si fermò solo una volta che furono nel centro esatto della sala. Con un movimento del polso la fece voltare verso di lui e Aida girò leggera sulle sue scarpette dal tacco basso. Salvador le strinse la mano e poggiò l'altra sulla sua vita. Il suo palmo era caldo attraverso la stoffa e Aida ebbe l'impulso di spostarsi, ma si trattenne. Sollevò invece la testa e mise il braccio libero sulla spalla di lui. Rimasero fermi un attimo ad ascoltare la musica, poi Salvador fece il primo passo e Aida lo assecondò. Scivolarono sul pavimento come se fossero senza peso, due note che volteggiavano nell'aria ferma della sala, troppo satura di chiacchiere, profumo da donna e bagliori dorati.
Salvador ballava bene, anche se ad Adia rincresceva ammetterlo. Gli bastava fare un movimento col braccio o con la gamba, anche se minuscolo, e lei subito capiva cosa voleva che facesse e non poteva fare a meno di ubbidire, in perfetta sincronia. Più ci pensava, meno le faceva piacere che dovesse essere l'uomo a guidare la donna, nei valzer. Le sembrava che in questo modo Salvador stesse in qualche modo mostrandole che era lui ad avere il comando e lei non era d'accordo. Come poteva essere sicura che, concedendogli questo vantaggio nella danza, non glielo stesse offrendo anche per tutto il resto? La principessa era lei, e non gli avrebbe permesso di dirle cosa fare. Era meglio mettere le cose in chiaro fin da subito.
Salvador fece un passo in avanti col sinistro e Aida, invece che indietreggiare con il destro, spostò il piede lateralmente, girando il corpo di novanta gradi. Salvador strinse gli occhi, ma non c'era sorpresa sul suo viso: aveva capito che Aida voleva girare e si mosse di conseguenza, facendola volteggiare un paio di volte.
La ragazza sorrise e lo guardò in volto, senza abbassare gli occhi quando incrociò quelli di lui. Salvador continuò a guidarla per la sala, ma ormai non era più lui ad avere il comando: era Aida a decidere quando lui poteva portarla dove voleva e quando invece a scegliere la mossa successiva era lei. Permettergli di esercitare per qualche tempo il comando era un modo per ricordargli che in realtà non ne aveva affatto e tutto dipendeva dalla volontà di lei.
Quando il valzer finì, Aida si allontanò di un passo e fece un rapido inchino, nascondendo a testa bassa il sorriso soddisfatto che le era spuntato in volto. Era stata il riflesso della luna sull'acqua e Salvador non era riuscito ad afferrarla e mantenere la presa.
«Ballate bene, principessa.»
Quell'affermazione, che forse voleva essere un complimento, la indispettì. «Perché, ne dubitavate?»
«Certamente no, nessuno potrebbe mai dubitare di voi» disse e la riaccompagnò fuori dalla pista da ballo prima che iniziasse di nuovo la musica. I suoi genitori la stavano aspettando e insieme a loro c'erano altre tre persone – un uomo, una donna e un ragazzo. Aida lo squadrò: doveva essere l'altro pretendente.
Non appena si accorsero della sua presenza, i tre portarono brevemente le dita alle labbra e chinarono il capo. E soltanto in quel momento, vedendoli inchinarsi a lei facendo il saluto formale, Aida si accorse che Salvador non lo aveva fatto.
«Aida» la chiamò la madre «ti presento Angelo Gil Soldorado.»
Il ragazzo fece un passo avanti e chinò nuovamente il capo, facendo piovere i capelli lisci e nerissimi sul viso. «È un piacere conoscervi, Vostra Altezza Divina.»
Poi si raddrizzò e Aida poté finalmente vederlo in volto. Aveva la pelle tanto bianca che sembrava fatta di alabastro, in contrasto con il nero dei capelli, ma il dettaglio che più attirava lo sguardo era l'azzurro incredibilmente chiaro degli occhi infossati. Era bello, molto più bello di Salvador, la cui pelle pallida lo faceva sembrare non prezioso ma malaticcio. Anche Angelo la squadrò come lei stava facendo con lui e la ragazza si sentì spogliata, come se con quegli occhi di cristallo potesse tagliarle i vestiti – perfino la pelle – a brandelli fino a mostrare i suoi organi nudi. Angelo sorrise, ma il suo sorriso era freddo e finto, come se fosse soltanto disegnato sul volto.
Poi spostò lo sguardo su Salvador, ancora al fianco della principessa. Aida non aveva riflettuto su cosa sarebbe potuto succedere se i suoi pretendenti si fossero incontrati e si voltò verso i suoi genitori, sperando che li allontanassero prima che potesse succedere qualcosa – cosa non lo sapeva nemmeno lei. Invece Alvaro e Xiana rimasero dov'erano e guardavano a loro volta, in silenzio, come se quello fosse esattamente quello che volevano accadesse.
«Ed è un piacere rivedervi, Salvador. Non sapevo che ci saremmo incontrati qui.» Lo disse rimarcando il qui con tanta forza che Aida riuscì a leggervi tantissimi sottotesti, primo fra tutti "non sapevo che avrei dovuti contendere con voi la principessa".
Aida li guardò sorpresa: non aveva nemmeno considerato la possibilità che i due si conoscessero.
«Il piacere è mio, Angelo» disse Salvador con un'affabilità tanto finta che era evidente che il loro incontro era tutto tranne che un piacere. Rimasero fermi a guardarsi e Aida, fissandoli, si sentì esclusa come se si stesse combattendo una battaglia di cui lei non sapeva nulla. Ed era così: i due avevano appena cominciato un duello in cui il premio era lei e con lei tutta Portonovo.
«Per adesso ho ballato abbastanza» disse Aida, prima che anche Angelo potesse invitarla, e si allontanò verso Marisol, che aveva scorto parlare con un'altra ragazzina una ventina di braccia più avanti. Aveva bisogno di respirare e lì dov'era non ci riusciva più. Non appena la sorella la vide, la chiamò con un gesto della mano. L'altra ragazzina si portò in tutta fretta le dita alle labbra, inchinandosi così tanto che i suoi lunghi capelli sfiorarono il pavimento. Ad Aida sembrava di non averla mai vista.
Marisol gliela presentò: si chiamava Estela e si erano appena incontrate, ma erano già diventate amiche. Finiva sempre così, alle feste: Marisol si faceva sempre un sacco di amiche che avrebbe rincontrato alle feste successive, dopo anni, o forse mai più. E ogni volta ci stava male, giurava che non sarebbe più successo, eppure ci ricascava sempre. Aida sapeva che anche quella sera la sorellina si sarebbe infilata nel suo letto piangendo e lei avrebbe dovuto asciugarle le lacrime.
«Sol» la interruppe Aida «vieni un attimo».
Marisol fece segno alla sua amica di aspettarla e seguì Aida più vicina ai due pretendenti, rimanendo però nascoste tra la gente.
«Guardali, come ti sembrano?»
Marisol assunse un'espressione seria e concentrata. «Non voglio che sposi nessuno dei due» sentenziò alla fine.
Aida si sentì sollevata. «Bene. Nemmeno io.»
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