5. Vita privata

IL VELENO DEL SERPENTE

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Vita privata

Aida tentò di cancellare con la gomma l'ultima parola che aveva scritto, ma il foglio si accartocciò sotto le sue mani e lei si lasciò sfuggire un verso di fastidio. Cercò di arginare il danno lisciando la carta, ma le pieghe non ne volevano sapere di distendersi. Per un istante fu tentata di buttare via il foglio e riscriverlo da capo, ma era ormai quasi arrivata in fondo alla pagina e lasciò perdere.

«Hai scritto?» le chiese Marisol, sdraiata sul letto con la testa oltre il bordo, guardandola al contrario. I capelli sfioravano il pavimento, ma erano troppo corti per raggiungerlo davvero. La scrivania di Aida era posta davanti alla grande portafinestra, a cui la ragazza dava le spalle, e quindi Marisol non poteva vederne che l'ombra stagliata contro la luce grigiognola di quel giorno uggioso.

«Sì, ci sono.»

«Alla fine la protagonista riesce a salvare il suo grande amore oppure no?»

Aida si porto il fondo della matita alle labbra e lo mordicchiò. «Sì, ma deve affrontare in combattimento il re che lo ha imprigionato. All'inizio sembra che stia vincendo, ma poi il re le ruba la spada e le spezza le braccia di vetro.»

«Quindi muore?» esclamò Marisol, tirandosi a sedere con gli occhi sbarrati. La luce della finestra la colpiva in faccia, creando un gioco drammatico di luci e ombre.

«No, perché poi il re cade sui vetri infranti e uno particolarmente appuntito gli taglia la vena del collo e si dissangua.»

«E i due innamorati fuggono via, insieme. Ma così lei resta senza braccia per sempre?»

«Sì.»

«Ma che finale triste.»

«Sai che non mi piacciono i vissero per sempre felici e contenti. Anche se comunque alla fine i protagonisti vivono davvero felici e contenti, insieme.»

«Sì, ma senza braccia.»

Aida fece spallucce. Le piaceva troppo come idea e non l'avrebbe cambiata nonostante tutte le lamentele della sorella. «A Beltran piacerà.»

«Finiscila in fretta, così oggi pomeriggio gliela facciamo vedere.»

Aida si chinò nuovamente sul foglio, con i capelli che le piovevano sulle spalle come sentieri di lava, e si immerse nella scrittura. A esclusione del tempo che era stata costretta a dedicare alle lezioni, non aveva fatto altro per tutta la mattina. Si era alzata presto apposta e aveva svegliato anche Marisol, che la sera prima le si era addormentata accanto.

«Bene, intanto cerco gli abiti di scena.» Marisol saltò giù dal letto e si diresse verso l'armadio di Aida. La ragazza la guardò di sfuggita mentre attraversava la stanza, poi rivolse di nuovo tutta l'attenzione al foglio e lasciò che Marisol facesse quello che voleva. Ogni tanto la sentiva parlottare tra sé, un puntino verde smeraldo davanti all'immenso guardaroba spalancato. In quei giorni, fatta esclusione per l'abito arcobaleno della sera prima, Marisol aveva deciso che si sarebbe vestita solo di verde.

Aida mise il punto finale nel momento esatto in cui una delle domestiche personali delle due ragazze venne a chiamarle per il pranzo. Aida impilò i fogli uno sopra l'altro, ordinandoli minuziosamente, e lasciò la matita accanto ad essi, allineata con il bordo più lungo del plico.

La madre le stava già aspettando nel salottino, dove consumavano i pranzi del mezzogiorno. La sera invece mangiavano nella sala da pranzo piccola, insieme al padre, che di giorno era troppo occupato per unirsi a loro e consumava un pasto veloce nel suo studio.

Il piccolo tavolo rotondo era stato apparecchiato con una tovaglia bianchissima di pizzo e i piatti, ancora vuoti, erano impilati uno sopra l'altro in attesa di essere riempiti. Un mazzo di fiori gialli infilati in un vaso di vetro al centro del tavolo ravvivava l'atmosfera. Tre gradini dividevano la stanza in due: la parte più alta ospitava il tavolo, mentre in quella più bassa campeggiavano un insieme di divani e poltrone di broccato ocra, disposti intorno a un tavolino di vetro e marmo bianco, così come di marmo bianco erano il pavimento e le pareti, decorate da dipinti di paesaggi ad acquerelli. Due portefinestre alte e strette, velate da tende di pizzo, facevano entrare la triste luce di quel giorno di inizio autunno. Quando le tre donne erano insieme, passavano lì la maggior parte del loro tempo.

«Hai scritto, Aida?» chiese la madre non appena le ragazze si sedettero, guardandole le mani.

Aida si osservò le dita, che erano macchiate di grafite. Annuì. «Una nuova storia per Beltran.»

Un sorriso pieno di tenerezza increspò le labbra della donna.

Solo a quel punto Aida notò il fascicolo di fogli posato accanto al piatto della madre. «Cos'è?»

Xiana seguì con lo sguardo il dito della ragazza. «Ah, sì, volevo giusto parlartene. Stamattina Esteban ci ha portato la lista.»

«Che lista?» domandarono le ragazze, in coro.

«La lista dei tuoi pretendenti, Aida.» Il viso della donna si fece serio e ad Aida sembrò all'improvviso molto più vecchia di quanto ricordasse.

«Ah» disse solo. Aveva sempre saputo che quel momento sarebbe arrivato, ma ora che stava accadendo davvero le sembrava che tutto stesse andando troppo veloce. Avrebbe voluto correre a nascondersi sotto le coperte per non sentire altro al riguardo, ma sapeva che non poteva. Si fece violenza e restò seduta dov'era.

Anche Marisol si era fatta seria e taciturna e la guardava con un'espressione che Aida pensava fosse il riflesso della sua medesima. C'erano momenti in cui la ragazza non sopportava la sorellina, troppo chiassosa e impertinente, ma c'erano altri momenti – come quello – in cui Aida sapeva che mai nessun altro avrebbe potuto comprendere i suoi sentimenti con altrettanta chiarezza. A guardarla in viso ad Aida sembrava di sentire un eco di se stessa.

«Vuoi sapere chi sono?» le domandò la madre, visto l'improvviso mutismo delle due ragazze.

Aida annuì, anche se in realtà non voleva saperlo affatto. Dare a quei fantasmi un nome avrebbe contribuito a renderli reali.

«Sono due, di pochi anni più grandi di te e figli di famiglie che hanno contribuito alla crescita commerciale di Portonovo, chi con i soldi chi con il titolo.»

La madre sollevò i fogli, mettendoli in piedi e picchiettandoli sul tavolo per ordinarli, anche se erano già tutti perfettamente allineati.

«Il favorito è Angelo Gil Soldorado, te lo ricordi? La sua famiglia viene sempre invitata alle feste ufficiali qui al palazzo e le ultime volte c'era anche lui. Magro e alto, con i capelli neri e la pelle pallida.»

Aida si sforzò di far riemergere alla memoria il ragazzo descritto da sua madre, ma tutto quello che riusciva a ricordare era una marea di vestiti brillanti che si muovevano come onde, trascinandola con sé.

«Suo padre fa parte del Consiglio di tuo padre.» Xiana fece una pausa. «Il secondo invece è Salvador Tiburòn, ma lui penso che tu non lo abbia mai visto. La sua famiglia, di nobili origini, sta acquisendo sempre più importanza grazie alla gestione del commercio di oggetti di lusso e gioielli. Inviteremo i Tiburòn alle prossime occasioni formali...»

Aida vedeva le labbra di sua madre muoversi mentre leggeva i fogli, passandone uno dopo l'altro, ma le sembrava di non riuscire a sentirla, come se ogni sua parola fosse una pietra che allungava sempre più la strada che le divideva, fino a farle diventare due puntolini all'orizzonte l'una per l'altra. I nomi le suonavano estranei, quasi esotici, come promesse di sconosciute terre lontane in cui la vita era così diversa dalla sua da non riuscire nemmeno a immaginarla. Il che non era vero: sapeva come sarebbe stata la sua vita dopo il matrimonio, uguale a quella di sua madre, nello stesso castello, dormendo nello stesso letto e mangiando dagli stessi piatti. Ogni cosa sarebbe rimasta uguale, a cambiare sarebbe stata solo lei.

Avrebbe dovuto passare la sua vita al fianco di un ragazzo – un uomo – che nemmeno conosceva, con cui avrebbe dovuto condividere ogni cosa, i suoi spazi, i suoi pasti, i suoi silenzi. Lei non voleva nessun altro nei suoi silenzi, non sopportava quando qualcuno diverso dai suoi genitori e dai suoi fratelli stava nella sua stessa stanza mentre scriveva o leggeva, come avrebbe potuto tollerare la presenza di uno sconosciuto? Eppure sapeva che lo avrebbe fatto. Lo avrebbe sposato e alla morte di suo padre avrebbe indossato la corona e avrebbe governato quell'immenso paese, anch'esso esotico quanto il suo futuro marito, altrettanto sconosciuto e spaventoso. Lo avrebbe fatto perché quello era il suo dovere.

Aida arrivò alla fine del pranzo senza nemmeno rendersene conto, persa nei suoi pensieri mentre fingeva di ascoltare la madre che le diceva che avrebbero dovuto conoscerli meglio prima di decidere, che comunque era ancora presto – Aida aveva soltanto quattordici anni non ancora compiuti – ma era meglio portarsi avanti. Marisol era rimasta zitta per tutto il pasto.

Mentre tornavano in camera a prepararsi per lo spettacolo per Beltran, Marisol le diede una spintarella con la spalla. «Se vuoi la ragazza di vetro puoi farla tu, questa volta. Ho trovato un vestito bellissimo nel tuo armadio.»

Aida annuì. Non vedeva l'ora di poter fingere di essere qualcun altro e dimenticare se stessa per qualche ora.

Dopo aver chiuso la porta alle loro spalle, Marisol corse verso il letto della sorella, dove aveva lasciato un abito bianco ghiaccio con il corpetto decorato da minuscole perle di fiume. Aida non ricordava per quale occasione le era stato cucito, ma era perfetto. Mentre si faceva dare una mano da una domestica per indossarlo, Marisol le spiegava che invece lei avrebbe interpretato tutti gli altri personaggi e saettava da un angolo all'altro della stanza raccogliendo una spada di legno e un cappello per l'innamorato della protagonista, un mantello nero per il cattivo, una giacca rosa con i brillantini per la fata e così via. Quando tutto fu pronto infilarono ogni cosa in una borsa che si trascinarono dietro per il corridoio, fino alla porta di Beltran.

Aida bussò una volta, poi fece una pausa, e diede tre altri colpetti in rapida sequenza. La domestica ci mise qualche secondo prima di aprire, poi si inchinò davanti alle principesse, scostandosi di lato per farle passare.

«Bel! Siamo noi, abbiamo scritto una nuova storia, vuoi sentirla?» chiese Marisol, superando di corsa l'anticamera per entrare nel salotto. Il pavimento, ricoperto da un tappetto soffice, era tappezzato da una miriade di giocattoli di legno. Nel mezzo stava seduto un ragazzo magro e allampanato, con un caschetto di capelli rossi e dritti che gli piovevano davanti agli occhi, nascondendo l'espressione concentrata mentre impilava uno sull'altro in un'alta torre degli animaletti di legno con le gambe sottili. In altri punti della stanza, disseminate in modo causale nel campo minato dei giocattoli, c'erano altre torri simili, una fatta solo con cubetti di legno, un'altra con piccole navi e via dicendo.

Non appena Aida e Marisol entrarono nella stanza, il ragazzo sollevò lo sguardo dalla sua occupazione e il suo viso si aprì in un immenso sorriso. Si alzò, impacciato nei suoi arti troppo lunghi e magri, e aspettò che le sorelle lo raggiungessero. Aida si avvicinò, evitando di calpestare gli oggetti abbandonati sul pavimento, poi una volta davanti a Beltran si sollevò sulle punte nel vano tentativo di essere alla sua altezza e lo strinse a sé. Il ragazzo non ricambio l'abbraccio, non lo faceva mai, ma Aida lo tenne stretto perché sapeva che gli piaceva. Beltran non si faceva toccare da nessuno se non dalla madre e dalle sorelle, nemmeno il padre poteva farlo e l'unica domestica che riusciva a lavarlo e vestirlo senza farlo urlare era trattata come una regina.

«Guarda cosa abbiamo portato» esclamò Marisol, aprendo la borsa. Beltran si sporse per guardare dentro ed estrasse la spada di legno, agitandola in aria.

«Ci serve spazio» continuò Marisol, e prese a spostare con i piedi i giocattoli da una zona del pavimento priva di torri. Le ragazze avevano lasciato le scarpe nell'anticamera e ora Aida arricciava con piacere sul tappeto le dita strette nelle calze. Se le tolse in fretta, affondando i piedi nudi nel morbido pelo azzurro cielo. Sua madre sarebbe inorridita se lo avesse saputo, ma in quella stanza tutto era concesso.

«Tu siediti qui» disse Marisol, indicando a Beltran il punto appena liberato e lui ubbidì subito, sistemandosi con le gambe incrociate e restituendo la spada.

«Questa storia è nuovissima, l'ho scritta stamattina» spiegò Aida, mentre Beltran cominciava a dondolare avanti e indietro. Aveva gli occhi fissi in un punto imprecisato sulle gambe delle ragazze e a un estraneo sarebbe potuto sembrare distratto, ma Aida sapeva che non lo era. Beltran non la guardava mai in faccia, ma per lei era più che evidente quando le stava prestando attenzione e quando invece era perso nella sua mente imperscrutabile. In quel momento era talmente attento e pieno di aspettativa che ad Aida sembrava un delitto farlo aspettare ancora. Prese i fogli con la storia dalla borsa e piantò i piedi sul tappeto, raddrizzando le spalle già dritte e sentendosi all'improvviso più alta e più importante. Si schiarì la voce e cominciò a leggere. Presentò la protagonista e la fata – Marisol con la giacca rosa – che le aveva donato le braccia di vetro, raccontò di come quelle braccia le permettessero di comandare la luce portando il giorno dove la foresta era così fitta che il buio riempiva gli occhi come melassa e di come una mattina da quel buio emerse un ragazzo bellissimo – Marisol con il cappello – ma condannato da una maledizione che una strega gli aveva fatto sulla culla: mai nessuna mano umana avrebbe potuto toccare la sua pelle.

Quando si videro non fu amore a prima vista. La protagonista, abituata a usare le sue braccia come oggetto di potere, non sapeva come maneggiare la dolcezza del ragazzo, che bramava il contatto di quelle mani disumane tanto quanto lo rifuggiva per paura. Ma piano piano impararono a conoscersi e a fidarsi l'uno dell'altro. Finché un giorno venne un re crudele – Marisol con il mantello – che aveva sentito tanto parlare di quelle splendide braccia di vetro e voleva farle sue. I due innamorati combatterono strenuamente, ma il re riuscì a catturare il ragazzo. Durante la battaglia per liberarlo, le braccia di vetro della protagonista vanno in frantumi, ma i giochi di luce sui frammenti accecano il re, che cade sulle schegge e muore dissanguato. I due giovani riescono così a tornare a casa, insieme per sempre.

Mentre leggeva i fogli e recitava le parti della protagonista Aida si accalorava, perdendo piano piano il rigido contegno che imponeva a se stessa quotidianamente. Gesticolava e riempiva la voce ora di rabbia, ora di paura o di amore. Quando il re crudele rapì il suo amato sentì gli occhi inumidirsi e le lacrime premere per uscire. In quel momento lei non stava solo impersonando la ragazza con le braccia di vetro, lei era quella ragazza. Sentiva dentro di sé i sentimenti e le emozioni che quella mattina aveva buttato sulla carta e che ora lei e Marisol rendevano reali, anche se solo per un'ora. E la sorella la seguiva e la guidava a sua volta, due onde dello stesso mare. Non provavano mai gli spettacoli prima di metterli in scena nella stanza dei giochi: venivano recitati un'unica volta per Beltran, e poi mai più.

Ad Aida non era mai venuto in mente di allargare le loro performance teatrali ad un pubblico più vasto. Il solo pensarci la faceva raggelare. Sapeva che non sarebbe riuscita a recitare nemmeno una parola e che mai e poi mai sarebbe stata in grado di metterci lo stesso sentimento che le sgorgava da dentro quando gli unici testimoni erano loro tre. Una volta avevano provato a fare uno spettacolo anche per i genitori, ma Aida aveva provato un tale imbarazzo che non lo aveva proposto una seconda volta. I loro occhi pieni di aspettative l'avevano fatta sentire giudicata. E se l'avevano fatta sentire così gli sguardi di sua madre e suo padre, che l'amavano a dismisura, chissà cosa avrebbe provato davanti a un pubblico di sconosciuti. Beltran invece non la giudicava. La ragazza sapeva che guardandola lui non vedeva Aida, ma il personaggio che prendeva vita attraverso di lei e a cui solo lei poteva dare voce.

«Ti è piaciuto?» domandò al ragazzo, dopo gli inchini finali.

«Bello!» esclamò lui, sorridendo e raccogliendo la spada di legno lasciata in terra da Marisol per poi aggiungerla al suo mucchio di giocattoli. «Di nuovo?» chiese poi, guardandole di sfuggita da sotto la frangia.

«No, ora dovrebbe arrivare la merenda.»

«Qual è il tuo personaggio preferito?» gli domandò Marisol mentre cercava di fare una ruota, ma ricadde subito sul tappeto.

Beltran ci pensò a lungo, in silenzio, e Aida e Marisol aspettarono senza incalzarlo. «La fata.»

«La fata?» gli fece eco Marisol, storcendo il naso. «E perché?»

«Fa un regalo senza chiedere niente in cambio.»

Aida rise. Spesso, quando Beltran non voleva fare qualcosa, le domestiche cercavano di convincerlo con il metodo del bastone e della carota: se fai questo ti do quest'altro. Quei finti regali erano una cosa che Beltran odiava.

Due colpetti sullo stipite annunciarono la presenza di una cameriera. «La merenda è servita nel salotto, Vostre Altezze Divine.»

Non appena la vide, Beltran smise di sorridere e ammutolì. Non parlava mai tanto, nemmeno quando era solo con Aida e Marisol, ma in presenza di persone estranee alla famiglia non diceva assolutamente nulla. Gli altri lo mettevano a disagio e lui, non sapendo come comportarsi, preferiva chiudersi in se stesso. In fin dei conti Aida pensava che Beltran fosse come lei, la differenza era solo che lui non cercava di nasconderlo dietro posture rigide e finti sorrisi. Se Beltran non voleva parlare con qualcuno non lo faceva e basta.

In realtà non erano molte le persone che avevano il permesso di andare a trovare il ragazzo e lui dalle sue stanze non poteva uscire mai. Aida non sapeva se fosse per proteggere Beltran dal mondo o il mondo da Beltran. La maggior parte della gente nemmeno era a conoscenza della sua esistenza, dato che ufficialmente era morto da bambino.

Aida lo guardò mentre si sedevano intorno al tavolino rotondo del salotto, davanti a loro tre tazze di tè e un vassoio di biscotti, rigorosamente separati per tipo perché se fossero entrati in contatto Beltran non li avrebbe più mangiati. Si domandò come sarebbe stata la sua vita se Beltran fosse stato un ragazzo normale.

Prese un biscotto alla rosa e lo immerse nel tè, spingendolo con un cucchiaino sul fondo della tazza, e osservò Beltran mangiare prima il biscotto e poi bere il tè.

Se suo fratello fosse stato normale, in qualità di primogenito, avrebbe ereditato il trono e con esso tutti i doveri e gli onori spettanti al Principe di Portonovo. Sarebbe stato il sovrano del popolo e il suo Dio. Perché era questo che voleva dire indossare sul capo quella corona, pesante non solo del potere sui corpi ma anche di quello sulle anime. Il pensiero che da qualche parte – in molte parti in tutto il Principato – ci fossero altari dedicati a suo padre, e forse anche a lei, le faceva girare la testa. Lei, la gente pregava lei per avere delle grazie che in realtà non sapeva concedere o per ringraziarla per cose che non aveva fatto. A volte, quando ci pensava, si guardava le mani e non capiva come quella pelle bianca e molle potesse contenere una divinità.

Una giorno, da piccola, lo aveva domandato a suo padre. «Come posso essere un Dio?» gli aveva chiesto. «Io non so fare niente di particolare, nessuna magia, niente di niente. Sono solo una bambina.»

Lui si era inginocchiato per essere alla sua altezza e le aveva messo le mani sulle spalle. «Aida, un Dio non è una fata, non fa magie.»

«No? E allora cosa fa?»

«Un Dio decide del destino degli uomini, dà i limiti di ciò che possono o non possono fare e li giudica per come si comportano. Capisci?»

Aida aveva aggrottato la fronte. «E un re allora cosa fa?»

Il padre aveva sorriso. «Lo stesso, ma un re – o un principe – lo puoi uccidere e sostituire, un Dio no. Essere divini ci rende intoccabili, nessuno proverà a farci del male sapendo che rischia la dannazione eterna.»

«Ma quindi siamo o non siamo Dio?»

«Sì, se la gente lo pensa.»

Quel discorso aveva lasciato Aida molto confusa all'epoca, ma ora che era cresciuta le capitava di ripensarci e comprendeva finalmente cosa il padre aveva volto dirle. Quello che non riusciva a capire era se la sua famiglia era davvero illuminata dalla luce divina o se si trattava solo di una menzogna. Suo padre le aveva detto che era vero se la gente lo pensava, ma se la gente lo pensava doveva pur esserci un motivo.

Più guardava Beltran e meno le pareva probabile, non perché il ragazzo non sembrasse per niente una divinità – nessuno di loro lo sembrava, ai suoi occhi – ma perché se davvero era così allora il trono sarebbe dovuto essere di Beltran e basta, indipendentemente da ogni altra cosa. Se l'essenza divina del Principe si reincarnava nel suo primogenito, che ne avrebbe ereditato trono e altare, allora non avrebbe dovuto essere possibile falsare i fatti in base alle necessità. E invece così era stato fatto: quando era stato evidente che Beltran era diverso e non sarebbe mai stato in grado di governare il Principato, era stata simulata la sua morte in modo da passare la discendenza ad Aida, all'epoca una bambina di poco più di un anno. In tutto ciò lei non ci vedeva nulla di divino.

«Sol, Bel» Aida richiamò l'attenzione dei suoi fratelli dopo essersi assicurata che la domestica fosse uscita. «Ma se io sono Dio e decido tutto io, non posso decidere anche di non sposarmi?»

Marisol la fissò in faccia con espressione seria, mentre Beltran non alzò gli occhi dalla tazza, ma Aida sapeva che la stava ascoltando.

«Perché ti devi sposare?» le chiese il ragazzo, con voce triste. «Io non voglio.»

«Nemmeno io, ma i nostri genitori sì.»

«Ma perché?»

Aida aprì la bocca per rispondere, ma rimase sospesa all'inizio della frase. Stava per ripetere tutte le motivazioni che sapeva avrebbe dato suo padre – assicurare un erede al Principato, aumentare il potere e le ricchezze della famiglia e via dicendo – ma all'improvviso nessuna le pareva davvero sensata, o meglio, sensate lo erano, ma non per lei. Ne avrebbe beneficiato il Principato, il suo popolo e il Principe in carica; ne avrebbero beneficiato tutti tranne lei in quanto Aida. L'erede che era in lei sapeva che doveva farlo e che era giusto così, ma Aida non voleva: in lei c'erano sempre state queste due forze che tiravano in senso opposto e temeva che prima o poi si sarebbe spezzata. Di solito era l'erede a vincere, riuscendo a seppellire Aida in un angolino nascosto da qualche parte dentro di lei, dove nessuno poteva vederla, solo che qualche volta, quando era sola con i suoi fratelli, la rete che la teneva rinchiusa allentava le sue maglie e l'altra parte di sé riusciva a emergere.

«Non lo so, perché così deve essere.»

«Magari tuo marito sarà una persona meravigliosa» cercò di consolarla Marisol. «Come nostro padre.»

Aida scosse la testa. Non era quello il punto. Non le importava quanto meraviglioso avrebbe potuto essere quello sconosciuto, lei non lo voleva. Desiderava i suoi spazi e che nessuno potesse varcare i limiti da lei imposti, e in nessun modo un marito indesiderato era compatibile con tutto ciò.

«Non capisci» le disse, anche se sapeva di essere ingiusta. Forse Marisol non era sottoposta alle sue stesse pressioni, ma sapeva che anche la sua vita era stretta in una rete dalle maglie fittissime.

«Fai finta di essere in un romanzo» sussurrò Marisol.

«Come? In che senso?»

«Io faccio così. Ogni volta che la vita non va come voglio faccio finta di essere la tragica eroina di una storia, mi fa sentire meglio. Cioè, se tu fossi la protagonista di uno dei tuoi racconti non staresti qui a piangerti addosso, no? Ti ribelleresti o accetteresti la cosa a testa alta. Ecco, sii la protagonista della storia che vorresti scrivere.»

Aida si mordicchiò il labbro inferiore. Quando era più piccola aveva la brutta abitudine di mangiarsi le unghie quando era nervosa, ma finiva con l'avere sempre le mani rovinate e sua madre l'aveva obbligata a smettere. L'idea di Marisol la stuzzicava, ma in fondo non credeva di essere coraggiosa come le sue eroine. Ma ci avrebbe provato. Tanto poteva lamentarsi quanto voleva e ribellarsi in privato, ma sapeva che alla fine, anche questa volta, avrebbe fatto non quello che voleva ma quello che andava fatto.

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