4. Forza di volontà
IL VELENO DEL SERPENTE
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Forza di volontà
Il mattino dopo Eneas venne svegliato dal trillare di una campanella e dalla voce dell'intendente che intimava di alzarsi in fretta. Aprì con fatica un occhio, mentre l'altro non valeva saperne di schiudersi, come se il sonno fosse troppo pesante per permettergli di sollevare la palpebra.
«Eneas, Jorge, siete svegli?» domandò Rico dal letto accanto con voce squillante ed Eneas provò il desiderio di tirargli in testa qualcosa di pesante.
Non ci fu alcuna risposta.
Eneas si stiracchiò pigramente e il braccio destro sbatté contro il muro. In quel momento si rese conto di aver dormito tutto rannicchiato in un angolo del materasso, come se accanto a lui ci fossero ancora Rodrigo e Tobias. Ma il letto era vuoto e freddo.
«Vestitevi e scendete in cortile. Il Comandante vi aspetta» disse loro l'intendente, prima di andare a svegliare i ragazzi della stanza di fronte.
Eneas si concesse il tempo di fare tre respiri profondi e poi si obbligò a scendere dalla scaletta metallica, ai piedi della quale trovò Jorge, già vestito.
«Alla fine non ha russato nessuno» gli disse ed Eneas annuì distrattamente, ancora troppo addormentato per capire davvero. Si trascinò in bagno e si sciacquò la faccia con dell'acqua fredda – acqua fredda proveniente da un vero lavandino – ma funzionò solo per una frazione di secondo. Eneas odiava svegliarsi presto al mattino, nonostante sua madre non gli avesse mai permesso di dormire fino a tardi e ci fosse quindi abituato.
La voce di Rico alle sue spalle lo fece sobbalzare. «Dormito bene?»
«Merda di torba!» esclamò Eneas, schizzando acqua ovunque.
Vide Rico riflesso nello specchio opaco sopra il lavandino alzare le mani in segno di resa. «Scusa.» Poi gli si avvicinò e gli sussurrò all'orecchio: «Stanotte ho sentito che ti sei alzato e non tornavi più, sei stato male?»
Eneas sentì il cuore accelerare i battiti, come se fosse stato sorpreso a fare una cosa proibita. Scosse la testa. «No no, tutto bene.»
Sperava che il discorso si concludesse lì, ma Rico rimase immobile. Chiaramente non era disposto ad accontentarsi di quella risposta laconica.
«Non riuscivo a dormire» ammise infine.
«Nemmeno io» confessò Rico. «È tutto così diverso. Non sono abituato a dormire con così tanta gente, a casa avevo una camera tutta mia.»
A Eneas sembrava assurdo che uno potesse avere non solo un letto, ma una stanza intera tutta per sé. Avrebbe voluto dirgli che invece per lui era strano dormire in un letto da solo, ma non voleva apparire miserabile ai suoi occhi e stette zitto. Chissà quanti altri ragazzi insonni lo avevano sentito uscire.
La porta del bagno si spalancò ed emerse la faccia sottile di Jorge. «Gli altri stanno già scendendo, ci siete?»
«No, aspetta, devo fare ancora la pipì!» esclamò Rico, chiudendosi in una cabina, mentre Eneas si tirò in viso un'altra spruzzata di acqua fredda per poi correre in camera a vestirsi.
I tre ragazzi raggiunsero gli altri in cortile, insieme agli ultimi ritardatari. Il cielo era grigio nella pallida luce del primo mattino e minacciava pioggia. L'aria era ancora umida dalla sera prima, così come il pavimento lastricato del cortile, le cui pietre bianche rilucevano come se fossero sudate. Il Comandante Cortéz era fermo nel mezzo dello spiazzo, impettito e autoritario come una statua in memoria di qualche grande condottiero morto da secoli.
«Guardate» sussurrò Rico, richiamando l'attenzione degli altri due con delle gomitate nei fianchi. «C'è il ragazzo di ieri sera, quello che non crede negli eroi.»
Prima che Eneas potesse rispondere, il Comandante mise a tacere il brusio di chiacchiere e, quando tutti furono silenziosi e attenti, prese la parola.
«Come vi è stato detto ieri, comincerete tutte le mattine con degli esercizi fisici. Oggi sarà solo corsa. Prima però vi dovete mettere in fila davanti all'intendente Rosas, che prenderà le vostre misure per le uniformi.» Indicò un ragazzo di una decina di anni più grande di loro, accanto a un tavolo a un'estremità del cortile. Eneas si mise in coda con gli altri, anche se più che una fila sembrava un ingorgo di foglie marce all'imboccatura di uno stretto canale.
«In fila, ho detto» li riprese il Comandante. «State per diventare soldati, dovete imparare la disciplina.»
I ragazzi cercarono di allinearsi in modo più o meno ordinato e poi aspettarono. Quando finalmente venne il turno di Eneas, l'intendente gli misurò la larghezza delle spalle, del petto e della vita, per poi verificare la sua altezza complessiva, e si segnò tutto su un quaderno posto sul tavolo.
Quando tutti ebbero finito, il Comandante li fece radunare in un angolo del cortile e poi diede il via. Non aveva detto loro quanto sarebbe durata la corsa, quindi Eneas partì piano. Rico lo superò subito facendogli un gesto di sfida, del tipo "prova a prendermi", forse memore di come Eneas lo aveva seminato il giorno prima, al molo, ma il ragazzo seppellì il brivido di adrenalina che lo stava stuzzicando e mantenne il passo. Jorge rimase al suo fianco. Fecero due giri completi del cortile, poi, a metà del terzo, raggiunsero Rico e se lo lasciarono alle spalle. Il ragazzo ora non rideva più e ansimava come un vecchio cane cencioso. Eneas sentì un sorrisino soddisfatto farsi strada sul volto, ma tentò di reprimerlo e le sue labbra si atteggiarono in una smorfia.
Il Comandante li fece correre per quelli che gli sembrarono secoli. Qualcuno si era fermato e alternava il cammino alla corsa – come Rico – ma Eneas non voleva arrendersi. Aveva l'impressione che, siccome lui veniva dalla Palude, dovesse dimostrare di valere più degli altri per poter essere considerato un loro pari. Rico veniva dall'Officina e se si fermava lui era meno grave che se si fosse fermato Eneas perché partiva da un punto di partenza più alto, come se avesse un vantaggio che invece ai ragazzi delle Paludi era negato. Con le ultime forze rimaste e il sudore che gli colava negli occhi, Eneas cercò con lo sguardo Jorge e vide che, seppure era rimasto indietro, nemmeno lui si era fermato.
«Ultimo giro» disse infine il Comandante.
Eneas strinse i pugni e convogliò tutta l'energia nelle gambe, che all'improvviso vennero prese da vita nuova e aumentarono il ritmo. Gli pareva di volare. Aveva superato il punto in cui la stanchezza era talmente tanta che era come se non ci fosse. Adorava quel momento, quando gli sembrava di creare energie dal nulla e oltrepassava i suoi stessi limiti. Si sentiva immenso e invincibile, come se niente avrebbe mai potuto sconfiggerlo, ed era una sensazione inebriante, quasi una droga. E ora era lì, in quel tempo fuori dal tempo in cui era talmente stanco da non essere più stanco e correre diventava solo una questione di volontà. Il suo corpo non aveva potere, se lui decideva di correre più veloce le gambe potevano solo ubbidirgli. E lui adesso voleva correre.
Macinò il terreno più velocemente di quanto avesse mai fatto e prima che il Comandante dicesse «basta» aveva superato una ventina di ragazzi.
Quando finalmente si fermò, stava sorridendo.
«Come fai a correre così?» chiese Rico, ansimando, una volta che lo ebbe raggiunto.
Eneas alzò le spalle: spiegarlo sarebbe stato troppo difficile e non era sicuro che gli altri avrebbero capito. Si passò una mano sulla fronte cercando di pulirla dal sudore, ma anche la mano era sudata. La maglietta bagnata gli si appiccicava al petto.
Il Comandante aspettò che i ragazzi riprendessero un po' fiato prima di commentare. Disse che era rimasto molto soddisfatto da alcuni, mentre altri avevano un gran bisogno di migliorare la propria resistenza. Poi diede loro il permesso di lavarsi e fare colazione.
Nei bagni c'erano solo cinque docce e i ragazzi della camerata dovettero fare veloce per dare modo a tutti di togliersi il sudore di dosso in tempo per la colazione. La stanza da bagno non smetteva di affascinare Eneas: mentre era in attesa del suo turno, ascoltava stupito il rumore dell'acqua che iniziava e smetteva di scrosciare a comando. E i lavandini, i gabinetti... tutti gli sembrava proveniente da un mondo alieno. Ripensò alla tinozza ammaccata in cui sua madre gli faceva il bagno da piccolo, rovesciandogli addosso l'acqua fredda e non molto pulita dei canali e si vergognò. Si strinse più forte al petto l'asciugamano che l'intendente gli aveva fatto trovare sul letto, cercando di farsi piccolo e invisibile. Forse così nessuno avrebbe fatto caso a lui e non si sarebbero accorti che era solo un impostore che giocava a fare il soldato.
Quando finalmente venne il suo turno, rimase sotto l'acqua tiepida molto più del dovuto, nonostante la fame gli stringesse lo stomaco nelle sue morse, ma tanto era qualcosa che era abituato a sopportare. Quella doccia tiepida invece era un'esperienza assolutamente nuova e rilassante ed Eneas si concesse di indulgere un po' in quel piacere inaspettato.
La colazione consisteva in una tazza di una bevanda biancastra che Eneas non sapeva definire – simile al latte, ma più densa – accompagnata da fette di pane secco su cui spalmare delle creme dolci, una mela e delle uova girate.
I tre ragazzi erano seduti vicini a uno che non avevano mai visto, troppo magro per la sua altezza considerevole, che si stava lamentando con chiunque volesse stare ad ascoltare di quanto fosse stato crudele il Comandante a farli correre così tanto fin dal primo giorno.
«Cosa ti aspettavi?» gli disse Rico. «Siamo qui per diventare soldati, non è mica una vacanza.»
Il ragazzo fece una smorfia. «Sì, ma ancora non lo siamo. Insomma, non può pretendere che tutti sappiamo già fare tutto fin da subito.»
Eneas abbassò lo sguardo nel piatto, stringendo gli occhi a due fessure. Le lamentele dell'altro lo irritavano, ma almeno in parte era d'accordo con lui: era andato bene nella corsa, ma quando fosse arrivato il momento delle lezioni teoriche lo sapeva che avrebbe provato solo una cocente umiliazione.
Rico e il ragazzo andarono avanti a discutere, ma Eneas smise di ascoltarli: era troppo impegnato a ripassare mentalmente la corretta ortografia del proprio nome.
Finito il pasto, un intendente li riportò nella stessa aula in cui erano stati il giorno precedente e i ragazzi si sedettero in attesa del Comandante Cortéz. La panca era di legno, dura e lievemente infossata nel punto in cui Eneas era seduto. Il ragazzo cercò una posizione comoda e poi strinse con forza i pugni sotto il banco. Vide che molti degli altri si erano portati dei fogli e delle penne o matite, mentre alcuni si guardavano intorno, persi quanto lui e con il banco altrettanto vuoto. Si voltò a destra e vide che sia Rico che Jorge avevano portato un blocco per gli appunti e si sentì nudo.
«Ehi, Rico?»
«Sì?»
«Mi dai un foglio? Ho dimenticato i miei.»
«Certo.»
«Ah, e hai anche una matita in più?»
«Mmm-mm.»
Eneas non sapeva assolutamente cosa farsene di quegli oggetti, ma averli con sé lo faceva sentire meglio.
Quando il Comandante fece il suo ingresso, il brusio che aveva riempito la stanza fino a quel momento cessò di colpo e ottanta paia di occhi si fissarono su Cortéz, che poggiò una borsa di pelle sulla cattedra e poi fece il giro del tavolo. I suoi occhi azzurri si fissarono sui ragazzi, il volto atteggiato in un'espressione dura e corrucciata.
«Questa è una domanda che generalmente non serve nemmeno fare» esordì «ma quest'anno molti di voi vengono dalle Paludi, quindi devo chiederlo: chi non sa né leggere né scrivere?»
Eneas sentì un'onda di calore riempirgli il petto e poi salirgli alla testa, mentre il cuore iniziava a battere più veloce. Si guardò intorno, per vedere quanti stavano alzando la mano. Qualcuno lo fece subito, sprezzante, altri invece facevano vagare lo sguardo come lui, timorosi. Jorge se ne stava tranquillo, con entrambe le mani poggiate sopra i fogli.
«È inutile fingere, perché me ne accorgerò comunque in un attimo. Quindi alzate tutti bene la mano, adesso.»
Oh, fottuta torba merdosa, pensò Eneas e tese alto il proprio braccio. Che pensassero pure di lui quello che volevano: li avrebbe fatti ricredere. Pensava che quel semplice gesto di alzare la mano avrebbe fatto accendere una luce su di sé e che tutti si sarebbero voltati a guardarlo, scandalizzati, invece si accorse in un istante che a nessuno importava quello che faceva lui, erano tutti troppo impegnati nel proprio dramma personale per badare a quello degli altri. La sua era stata tutta preoccupazione inutile. In fondo, Eneas era il centro solo del proprio piccolo universo, non di quello degli altri.
Alla fine c'erano una trentina di braccia alzate. Il Comandante li guardò imperscrutabile. Eneas avrebbe voluto capire cosa ne pensava, ma leggere il suo volto era impossibile.
«Bene, seguirete tutti insieme le lezioni del mattino, che riguarderanno la storia, la geografia, l'economia e la politica del Principato di Portonovo e degli altri Stati con cui veniamo frequentemente in contatto. Poi avrete una pausa di mezzora, seguita dalle lezioni di strategia militare e di lingue. È previsto che alla fine dell'addestramento sappiate parlare anche lo svetiano, il sahamalese e il koziano. Dopodiché ci sarà il pranzo, che dura un'ora e mezza per chi sa già scrivere e mezzora per gli altri, che dopo aver mangiato raggiungeranno l'intendente Mor. Il resto del pomeriggio sarà dedicato all'allenamento fisico a corpo libero e con le armi. La serata è libera. Domande?»
All'inizio nessuno osò aprire bocca, poi una mano si alzò dal fondo dell'aula.
«Alzati in piedi e dimmi nome e cognome» disse il Comandante, indicando il ragazzo con un cenno del mento.
Tutti si voltarono a guardarlo: era il giovane che il giorno prima aveva preso in giro Rico perché voleva diventare un eroe. Scattò in piedi ed Eneas notò che era più basso di quanto gli era parso in un primo momento.
«Eugenio Fez, dall'Officina, Comandante.»
«Non ti ho chiesto da dove vieni, solo come ti chiami.»
Eugenio rimase interdetto. Fece per aggiungere qualcosa, ma Cortéz lo interruppe: «È importante che capiate una cosa: da questo momento smettete di essere ragazzi dell'Officina, delle Paludi o di qualunque altro posto. Ora siete soldati e appartenete alla Gemma, chiaro? Non mi interessa se siete nati nel fango o in un letto d'oro, nessuno di voi avrà privilegi. Verrete giudicati per quello che fate e per come lo fate, e basta. Inteso?» Tutti annuirono.
Eneas sentì qualcosa agitarsi nel petto, come se avesse una grande massa d'acqua in movimento tra lo stomaco e la gola che forse avrebbe potuto chiamare nostalgia: per tutta la vita non aveva desiderato altro che lasciarsi alle spalle per sempre la Palude, madre e matrigna, ma ora che finalmente il Comandante aveva spezzato la catena, il ragazzo aveva l'impressione che a essere stato tagliato fosse piuttosto il suo cordone ombelicale. Ne era felice, ma allo stesso tempo sentiva che era come rinnegare la sua famiglia e tutta la sua infanzia e non era pronto per lasciarli andare. Ora non era più un figlio della Palude. Avrebbe dovuto sentirsi più leggero, ma sentiva che quel fardello avrebbe continuato a gravargli sulle spalle a lungo.
«Molto bene, ora, Fez, fai pure la tua domanda.»
Eugenio, che era rimasto in piedi, raddrizzò le spalle prima di parlare. «Sono previste delle verifiche su quello che studiamo?»
«Alla fine di ogni anno dovete fare una prova sia per lo studio teorico sia per l'addestramento fisico. Se non la superate verrete rimandati a casa. Alla fine degli otto anni che passerete come reclute, affronterete la prova finale di cui parleremo a tempo debito. Altre domande?»
Rico alzò la mano. Il Comandante lo indicò con il mento.
«Rico Rìo» fece lui alzandosi.
«Bene, qual è la domanda?»
«Quando ci verrà assegnata la nostra squadra?»
Eneas lo fissò aggrottando le sopracciglia. Squadra? Ma di cosa stava parlando?
«Non vi verrà assegnata, sarete voi a scegliere i vostri compagni. Non mi interessa con chi siete, quello che mi interessa è che la squadra funzioni bene. Le voglio pronte per l'allenamento di oggi pomeriggio.»
«Grazie, Comandante.» Rico quasi si inchinò prima di sedersi.
Eneas avrebbe voluto alzare la mano e domandare cosa fossero queste squadre, ma si sentiva un idiota a non saperlo e non riusciva a trovare il coraggio per esporsi.
Codardo di merda, si disse e prima di poterci ripensare fece scattare in alto il braccio. A un cenno del Comandante si alzò.
«Eneas Lodo. Cosa sono le squadre?»
Vide un ragazzo nella fila davanti a lui guardarlo e annuire, quasi a ringraziarlo per aver posto la domanda.
«Vi spiegherò la suddivisione dell'esercito nella prima lezione di strategia militare. Per adesso vi basti sapere che tutti i soldati sono divisi in gruppi da cinque, le squadre appunto, formate da quattro soldati semplici e un caporale che ha il comando della squadra. Per abituarvi a lavorare in gruppo voglio che fin da subito lavoriate in squadra, anche se per ora sarete tutti e cinque allo stesso livello. Il caporale verrà deciso col tempo, in base ai vostri risultati. Se una squadra non funziona verrà subito cambiata.»
Un paio di altri ragazzi fecero le loro domande, poi il Comandante iniziò la prima lezione sulla geografia di Portonovo. Inizialmente Eneas seguì con attenzione, poi cominciò a perdersi tra tutti quei nomi di fiumi, foreste e montagne che Cortéz indicava su una cartina appesa al muro. Seduto al suo fianco, Rico scriveva forsennatamente cercando di stare al passo con il discorso del Comandante, riempiendo così fogli su fogli con la sua scrittura sgraziata e pesante, tanto da lasciare i solchi dove faceva scorrere la matita. Al contrario, Jorge si appuntava ogni tanto qualche parola chiave, in piccolo e ordinata. Eneas prese in mano la matita e se la fece girare tra le dita, poi decise di ricopiare la cartina sul foglio, il mare qui e le montagne là, giusto per fare qualcosa e non addormentarsi.
«Il Comandante sa davvero un sacco di cose» disse Rico non appena Cortéz permise loro di fare la pausa tra una lezione e l'altra.
«Certo, altrimenti non lo farebbero insegnare» obiettò Jorge, con un mezzo sorrisino.
Rico sbuffò. «Mi fa male la mano, non riesco più a scrivere.» Si sporse verso i fogli degli altri due ragazzi. «Voi avete scritto pochissimo.» Poi spalancò gli occhi, colto da un'illuminazione. «Oh, scusa, Eneas, mi ero dimenticato che non sai scrivere.»
Eneas fece spallucce. Non voleva soffermarsi troppo sull'argomento. «Tu invece dove hai imparato?» chiese a Jorge.
«A casa, da solo. Non è poi così difficile.»
Forse aveva ragione e davvero non era impossibile, solo che a Eneas non era mai venuto in mente di farlo.
«E perché?» gli chiese.
«Perché ho deciso di imparare?» Jorge scosse la testa. «Non lo so, i libri mi hanno sempre affascinato. E poi non volevo restare nella Palude per sempre e ho pensato che saper leggere e scrivere fosse un primo passo per andarsene davvero.»
«Ma nelle Paludi non avete le scuole?» chiese Rico con aria perplessa.
«No» disse Jorge. «E se anche ci fossero nessuno ci andrebbe, i genitori mandano i figli a lavorare appena possono per poter guadagnare il più possibile per vivere.»
Rico contrasse la mascella e non disse nulla. Eneas scrutò il suo volto in cerca di pietà, ma non ne trovò.
«Mi spiace» disse solo.
La lezione successiva era quella sull'organizzazione dell'esercito ed Eneas la trovò molto più interessante, probabilmente perché lo riguardava di persona. Sulla lavagna il Comandante disegnò un grafico: in alto scrisse "Generale Maggiore" e subito sotto "Natanael Ombrillado". Indicò la scritta con il dito.
«A capo di tutto l'esercito c'è il Generale Maggiore, che attualmente è il Generale Ombrillado. Ha il comando su tutto e l'unico che può contrastare la sua parola è il Principe. Subito sotto di lui ci sono i due Generali, Interno ed Esterno» tracciò due righe a scendere dal Generale Maggiore. «Dirigono rispettivamente i due eserciti Interno ed Esterno, che si occupano della difesa della Gemma il primo e della difesa di Portonovo il secondo. Tra i membri dell'Esercito Interno sono scelte le guardie personali della famiglia reale.» Segnò altri due nomi. «Alla fine dell'addestramento verrete assegnati a uno dei due eserciti.»
Fece una pausa per guardarli in volto.
«Poi ci sono in ordine decrescente Capitani, Comandanti e Caporali. In fondo a tutto, i soldati semplici. Tutti partite come soldati semplici o al massimo Caporali. Per salire di ruolo dovete meritarvelo, come vedrete alla cerimonia a cui assisterete tra una settimana.»
Rico alzò la mano. «La cerimonia in cui verranno premiati gli eroi della guerra con Kozen?» chiese entusiasta.
«Esattamente.»
«Tu sai tutto» gli sussurrò Eneas.
Rico annuì. «Non vedo l'ora. Ci sarà anche Rafael De Soledad, dicono. Ha solo ventun anni ed è già Comandante, ma mio fratello sostiene che ora lo faranno Capitano. Lui è un po' geloso, sai, hanno fatto l'addestramento insieme.» Stava per aggiungere qualcos'altro, ma il Comandante lo fulminò con lo sguardo e subito Rico si zittì.
Quando lasciarono l'aula per andare a pranzo, tutti stavano parlando della formazione delle squadre.
«Noi tre siamo insieme, giusto?» chiese Rico mentre si avviavano verso la mensa, Eneas davanti che tirava gli altri due con il suo passo svelto. Aveva solo mezzora per mangiare.
«Sì, certo» gli rispose senza voltarsi.
«Sto anch'io con voi» disse una voce alle loro spalle. I tre si voltarono e spalancarono gli occhi nel trovarsi davanti Eugenio.
«Tu?!» esclamò Rico.
«Sì.»
«Perché?»
Eugenio fece un sorrisetto che gli prese solo metà della bocca. «Voglio proprio vedere da vicino come farai a diventare un eroe.»
«Ah, per prendermi in giro meglio» fece Rico con espressione cupa.
«In realtà perché Eneas corre veloce e Jorge è intelligente. Poi ci sei anche tu, effetto collaterale. Però sei grosso, magari sei forte nel combattimento.»
Rico lo guardò a bocca spalancata, senza sapere cosa ribattere.
«E tu, invece?» chiese Jorge.
«Io cosa?»
«Hai elencato i vantaggi che avresti tu a stare con noi, ma noi cosa ci guadagniamo ad averti in squadra?»
Eugenio contrasse i muscoli del viso, come se Jorge lo avesse appena colpito con un pugno.
«Sono bravo con le strategie. E sono un ottimo comandante.»
«Nessuno ha detto che tu saresti il capo» gli fece notare Jorge.
«Ma lo sarò.»
«Vedremo.»
Rico guardò Jorge stralunato. «Come "vedremo"? Mica lo abbiamo preso in squadra.»
«Io direi di sì.»
«No. Ma perché?»
«Come ha detto lui, è un ottimo stratega. Ha scelto di venire da noi, benché tu non gli piaccia, perché pensa che saremo una buona squadra.»
«E quindi?»
«E quindi sta con noi. Chi vorresti altrimenti al posto suo?»
«Non lo so, chiunque altro.»
«Ma chiunque altro potrebbe non piacerti comunque e non essere nemmeno un bravo soldato.»
«Io sono d'accordo» disse Eneas.
«Anche tu?! Voi mi tradite.»
«Come sei melodrammatico» disse Eugenio. «Ormai è fatta. Andiamo a mangiare.»
«Ah, ora vuoi pure mangiare con noi?»
«Dobbiamo consolidare la squadra» disse con il suo mezzo sorriso e si avviò verso la mensa. Per tutto il pranzo Rico rimase silenzioso con in viso un'espressione a metà tra l'arrabbiato e l'offeso. Gli altri tre non parlarono molto. In realtà Eneas non era un amante del silenzio – con i suoi amici della Palude parlava sempre un sacco – ma in quel momento e in quel luogo non sapeva cosa dire: lì tutto gli era sconosciuto, anche il modo di chiacchierare con le persone.
In ogni caso, il suo pranzo non durò a lungo; trangugiò in fretta la zuppa di patate per poi correre nuovamente in aula, dove l'intendente stava già aspettando, seduto alla cattedra. Eneas pensava si trattasse dello stesso che aveva visto quella mattina, ma non poteva esserne sicuro: con la loro uniforme gli sembravano tutti uguali.
Voleva sedersi in fondo, ma poi vide che lo aveva preceduto il ragazzo che a colazione si era lamentato della corsa e si bloccò. Notò che la prima fila era ancora vuota e decise di mettersi lì: se voleva imparare – e farlo in fretta – non poteva permettersi capricci e distrazioni. Non sarebbe diventato un piagnone.
Eneas passò tutta l'ora di lezione a ricopiare su un foglio, nella migliore grafia possibile, le lettere dalla A alla Z e poi di nuovo, fino a che i segni neri di grafite non cominciarono a ballargli davanti agli occhi, come vermi sulla sabbia. Per il giorno seguente avrebbero dovuto sapere l'alfabeto come il proprio nome. Quindi tornò nel cortile principale, dove gli altri ragazzi si stavano godendo la pausa. I suoi tre compagni di squadra erano seduti in un angolo e tra di loro due dadi rotolavano sulla pietra polverosa.
«Ho vinto» disse Jorge, non appena i dadi si fermarono.
«Di nuovo» si lamentò Rico. «Non è possibile, hai più fortuna tu di tutta Portonovo messa insieme.»
«Oppure bara» precisò Eugenio, guardandolo di sottecchi.
«E come avrei fatto a barare?» Jorge puntò su di lui i suoi grandi e tondi occhi azzurri. «Non posso nemmeno aver truccato i dadi, visto che non sono miei.»
«Se lo sapessi, come si bara ai dadi, probabilmente avrei vinto io, non credi?»
«Quindi sei tu quello che bara, non io.»
«Direi di no, visto che ho perso.»
«Eneas!» esclamò Rico non appena si rese conto della presenza del ragazzo, mettendo così fine alla discussione. «Com'è andata?»
Eneas fece spallucce. «Noioso.» Fece per sedersi vicino a loro, ma il suono di una campanella riempì il cortile e tutti scattarono in piedi. I ragazzi che erano rimasti in mensa si precipitarono fuori nel momento in cui arrivò il Comandante. Cortéz fece segno a tutti di avvicinarsi e li condusse attraverso un portone che si apriva nell'edificio sulla destra del cortile, per poi sbucare in un altro cortile con il pavimento in terra battuta invece che in pietra. A un'estremità vi era una zona tenuta a prato e, a parte per il lato su cui si affacciava l'edificio, era limitato da un alto muro bianco sporco.
«Qui terremo le lezioni di combattimento e difesa» disse Cortéz. «Ora dividetevi nelle squadre.»
I quattro ragazzi si guardarono e, essendo già vicini, restarono immobili come sassi intorno a cui scorreva un fiume di giovani reclute in cerca dei propri compagni. Qualche gruppo era già al completo, mentre ad altri – come il loro – mancava uno o più componenti. Qualche ragazzo stava in piedi da solo, guardandosi intorno smarrito.
Il Comandante si prese del tempo per esaminare la situazione. «Chi è rimasto da solo scelga uno dei gruppi incompleti» ordinò.
Eneas si guardò intorno, curioso di sapere chi si sarebbe unito a loro, e corrucciò la fronte quando vide avvicinarsi il ragazzo che si era lamentato della corsa. Sperò che fosse diretto verso qualcuno dietro di loro, ma lui si fermò accanto a Jorge senza guardarli in volto ed Eneas diede un calcio alla polvere, trattenendo l'irritazione. Sentiva che quel ragazzo sarebbe stato per loro una palla al piede e non gli andava di andare male per colpa di qualcun altro.
«Bene» disse il Comandante quando tutte le squadre furono sistemate. «Guardate bene i vostri compagni: imparerete a conoscerli come le vostre mani, anzi, essi stessi diventeranno per voi come un arto, un'estensione del vostro corpo che vi difenderà e che dovrete difendere come se ne dipendesse della vostra vita perché sarà così. Lavorare in squadra vi salverà, ma voi dovrete salvare la squadra. Smetterete di pensare a voi singoli, ma la vostra percezione di voi si estenderà agli altri componenti della squadra. Per fare questo dovrete allenarvi insieme sempre fino a comprendere le intenzioni l'uno dell'altro senza nemmeno avere bisogno non solo di parlarvi ma nemmeno di guardarvi. Chiaro?»
Tutti confermarono, in una cacofonia di "sì".
«Oggi cominceremo con il combattimento corpo a corpo.»
Rico alzò la mano. «Comandante» lo chiamò.
«Sì, Rìo?»
«E la vostra squadra? Ci saranno anche loro durante queste lezioni?»
«No, quando si sale di grado lo si fa da soli. E comunque di quella che era la mia squadra siamo rimasti in due.»
«Oh» Rico corrucciò le sopracciglia. «Mi dispiace.»
«Non dispiacerti» Cortéz non mostrò il minimo segno di emozione sul suo viso di pietra, in piedi con le mani congiunte dietro la schiena. «Siamo soldati, vedi di abituarti a questo genere di cose. Se mai dovessi andare in battaglia per davvero nemmeno la tua squadra sopravviverà intatta.»
Rico tacque e abbassò lo sguardo sulle proprie scarpe.
«Rìo» lo richiamò Cortéz.
«Sì?»
«Guardami in volto quando ti parlo. Sei un soldato di Portonovo, non un umile lucidatore di scarpe.»
Cos'hai contro i lucidatori di scarpe?, pensò Eneas stringendo i pugni.
«Sì, Comandante» rispose prontamente Rico, raddrizzando le larghe spalle e puntando su di lui gli occhi.
«Meglio. Se nessuno ha altre domande cominciamo. Comunque, per rispondere in modo completo al dubbio di Rìo, durante queste lezioni sarò assistito da una squadra dell'esercito esterno» e indicò cinque ragazzi che si erano posizionati alle sue spalle. Avevano tutti tra i venti e i venticinque anni e indossavano un'uniforme verde brillante su un paio di pantaloni bianchi, infilati in stivali neri lucidi, e guardavano le reclute con espressione seria.
«Vi faranno ora una breve dimostrazione di un combattimento corpo a corpo base, uno contro uno.» Fece un segno ai soldati e due avanzarono nel centro del cortile, in mezzo alle reclute. Si misero uno di fronte all'altro a un passo di distanza e, dopo essersi guardati brevemente negli occhi, uno dei due attaccò l'altro. Si muovevano agili e veloci, così veloci che Eneas non faceva nemmeno in tempo a capire cosa stessero facendo. Uno si slanciava verso l'altro e l'altro si difendeva con una velocità e una precisione tali che entrambi sembravano sapere sempre cosa stava per fare l'avversario ancora prima che quello si muovesse.
Il combattimento finì quando il ragazzo più basso riuscì a immobilizzare il compagno al suolo. Rimasero fermi così qualche istante, poi entrambi si alzarono, respirando pesantemente e coperti di polvere.
Tutte le reclute erano rimaste a guardarli a occhi sgranati e nessuno osava fare il minimo rumore. In lontananza si sentì un tuono e un vento caldo e umido spazzò il cortile.
«Grazie» disse Cortèz ai due soldati. Poi si rivolse alle reclute: «Ora vi spiegherò nel dettaglio le singole mosse che avete visto.» E fu effettivamente quello che fece per le successive ore, fino a che un intendente uscì nel cortile e fece trillare una campanella, annunciando l'orario di cena.
Eneas era nel pieno di un combattimento con Rico – i compagni della squadra si erano alternati, in modo che tutti provassero a combattere contro tutti – e tirò un sospiro di sollievo. Era stanco, tanto stanco che i muscoli gli tremavano anche da fermo e desiderava solo riempirsi lo stomaco di qualcosa di caldo e andare a dormire. Uno zigomo gli pulsava di un calore violento da quando Rico lo aveva colpito al volto con un pugno, per errore. Entrambi i ragazzi fecero cadere le braccia lungo i fianchi.
«Grazie alla torba divina, basta» esalò Rico.
Eugenio – che al momento li stava guardando, visto che Jorge stava combattendo con l'altro ragazzo, che si era presentato come Horacio – aprì la bocca per commentare, ma ci ripensò, probabilmente troppo sfiancato per discutere.
«Bene, potete andare» concesse loro il Comandante e li guardò lasciare il cortile trascinando i piedi nella polvere.
«Mi hai fatto un male assurdo» si lamentò Horacio, rivolto a Rico, mentre si avviavano in mensa. Si stava massaggiando intensamente un braccio.
«Scusa, pensavo ti saresti difeso meglio.»
Eugenio lo guardò alzando le sopracciglia. «Lui? Ma se le ha prese da tutti, anche da quel piccoletto di Jorge!»
«Beh? Non so combattere, io.»
«Nemmeno noi.»
«Comunque è vero che Rico è forte» si intromise Eneas, toccandosi lo zigomo con le dita.
Rico fece una faccia molto dispiaciuta. «Scusa» disse di nuovo.
«E piantala di scusarti!» sbottò Eugenio. «Vuoi essere un eroe o una mammoletta frignona?»
«Ma fatti i fatti tuoi» esclamò Rico.
«Ora che siamo nella stessa squadra i fatti tuoi sono anche fatti miei.»
«Ci hai scelti tu, nessuno ti ha obbligato.»
«Merda! Smettetela di litigare» li fermò Eneas, prima che la situazione degenerasse.
Fu dopo la cena, mentre i suoi compagni erano in fila per fare un'altra doccia, che Eneas si ricordò dell'alfabeto. A, B, C e poi? Cosa c'era dopo la C? La E, forse? Si sentì attraversare da un moto di sconforto e gli sembrò che una colonna d'acqua grande come una cascata gli si fosse appena rovesciata addosso, lasciandolo senza forze.
Sarebbe stato così grave se l'alfabeto lo avesse imparato domani? Un giorno non avrebbe fatto la differenza.
Fece un respiro profondo. Domani sarebbe stato stanco come oggi e così via, per tutti i giorni a venire. Non aveva scelta, doveva studiare ora. Si tirò a sedere sul letto, lasciando una chiazza bagnata dove i suoi capelli si erano posati sul cuscino e si sporse oltre il bordo del letto, in modo da raggiungere i fogli con gli appunti del giorno senza dover scendere. Li raggiunse a malapena, ma la matita rotolò per terra senza che lui riuscisse ad afferrarla.
«Merda.»
Schiaffeggiò i fogli sul lenzuolo e si trascino giù per la scaletta metallica, per poi esclamare di nuovo: «Merda!» quando vide che nell'impatto si era rotta la punta di grafite. Rovistò tra le cose di Jorge fino a trovare un temperino metallico e tornò infine sul letto. Prese un foglio bianco e ricominciò dall'inizio.
A
B
C
D
Le scrisse tutte, fino alla Z, ripetendole sottovoce, e poi ripartì da capo.
A
B
C
Quando arrivò l'intendente a spegnere la luce aveva riempito altri due fogli di lettere fitte e tremolanti e poi, anche al buio, se le ripeté nella mente fino ad addormentarsi.
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