3. Casa di bambole
IL VELENO DEL SERPENTE
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Casa di bambole
Aida era seduta su una delle sedie disposte lungo il perimetro della stanza. Guardò un'altra volta il grande portone alla sua destra, chiuso. Sospirò e tentò di far dondolare le gambe come faceva da piccola, ma ormai erano diventate troppo lunghe e i piedi toccavano terra.
Marisol, nel centro della stanza, non smetteva di piroettare nel suo vestito nuovo. Quando aveva chiesto ai loro genitori un abito dei colori dell'arcobaleno per la Cena di Stato, la madre aveva obiettato che non era adeguato per un'occasione formale come quella, ma il padre aveva ribattuto che in tutto il Principato non c'erano persone più importanti di lui e delle sue figlie, quindi se Marisol desiderava un vestito arcobaleno lo avrebbe avuto. La ragazzina aveva descritto personalmente alle sarte i dettagli e le donne avevano ottenuto un risultato spettacolare, alternando fili colorati ad altri argentati che ora facevano risplendere Marisol sotto le lampade a gas di torba, rifrangendo la luce come la superficie sfaccettata di un diamante. Ad Aida fece venire in mente il prisma di vetro che aveva usato il suo insegnante per spiegarle la natura della luce: aveva colpito l'oggetto con un normale fascio di luce bianca e questo, attraversando il vetro, si era scomposto in tutti i colori dell'arcobaleno. Ora Marisol era il prisma e il suo abito multicolore il risultato della scomposizione della luce.
Più ci pensava più l'idea l'attraeva. La mattina seguente ne avrebbe parlato con la sorella e avrebbero potuto ricavarne un racconto, magari su una ragazza di vetro che aveva il potere di comandare la luce e i colori, anche se Aida non sapeva ancora cosa ne avrebbe fatto la ragazza di questo potere.
Dopo l'ennesima giravolta, Marisol perse l'equilibrio e andò a sbattere contro una delle sedie vuote.
«Marisol!» la rimproverò la madre, interrompendo il discorso che stava facendo con il marito. «Stai un po' ferma. Guarda, ti sei pure spettinata.» Passando abilmente le dita tra i capelli della ragazzina, le sistemò i ciuffi sfuggiti dai fermagli argentati e le intimò di sedersi tranquilla accanto alla sorella.
Marisol si trascinò fino alla sedia accanto ad Aida, che si sporse subito verso di lei. «Sol, ho una nuova idea per una storia.»
Alla ragazzina si illuminarono gli occhi nel viso pallido. Prima che potesse fare domande però la seconda porta della stanza, piccola e lontana da Aida, si aprì ed entro Esteban, il più fidato consigliere del padre, che gli si avvicinò, si portò brevemente due dita alle labbra – l'indice e il medio, con le altre piegate a pugno – in segno di saluto e poi annunciò: «Tutti gli ospiti sono arrivati e si sono seduti.»
«Perfetto, grazie Esteban.» Il padre si voltò quindi verso le due ragazzine, che portarono su di lui i loro grandi occhi nocciola. «Mi raccomando.»
Annuirono, forse Marisol con troppa veemenza perché subito la madre si avvicinò per sistemarle di nuovo i capelli e ne approfittò per riavviare anche quelli di Aida, anche se non si erano affatto scomposti e le ricadevano sulle spalle in una morbida cascata di boccoli rossi ottenuti con fatica arricciando ciocca per ciocca.
Aida si alzò e lisciò la stoffa di seta blu cobalto del suo abito nuovo. Le ragazzine potevano avere un vestito nuovo ogni volta che lo desideravano, ma per le Cene di Stato – che si tenevano una volta per ogni stagione – era obbligatorio che indossassero qualcosa che nessuno avesse mai visto prima.
La madre si allontanò di un passo, per squadrare le sue figlie dall'alto in basso, e annuì soddisfatta. Il padre prese la sua approvazione come il segnale per andare alla grande porta dorata e bussare due volte. Poi raddrizzò la schiena e portò le braccia dietro di essa. Alle sue spalle, anche le tre donne rimasero ferme in attesa, mentre Esteban raggiungeva il padre.
Dopo pochi istanti la porta si aprì, facendo penetrare l'intensa luce dell'altra stanza nello spiraglio sempre più grande tra i battenti.
Aida sapeva esattamente cosa aspettarsi, tuttavia ogni volta accoglieva con un brivido l'istante in cui i suoi occhi si abituavano alla luminosità intensa e riusciva a scorgere la lunga tavola ai lati della quale sedevano le più grandi autorità del Principato. Non appena si accorsero dell'ingresso del Principe, tutti si alzarono e si portarono le dita alle labbra, per poi abbassarle e chinare leggermente il capo, salutando prima la divinità e poi il Principe, identità inscindibili racchiuse nella stessa persona. Solo a quel punto il padre di Aida si avviò a passo spedito verso la pedana sopraelevata posta a una estremità della tavola, seguito dalla moglie e dalle figlie. La luce delle innumerevoli lampade alle pareti colpiva con violenza la giacca dorata del Principe, rendendolo così brillante che era difficile guardarlo senza restare abbagliati.
L'uomo si sedette sulla sedia più grande, con Aida alla sua destra e Marisol e la moglie alla sua sinistra, mentre Esteban si affrettò ad accomodarsi al tavolo. A un gesto del Principe una decina di cameriere entrarono nella sala e cominciarono a servire gli ospiti, riempiendo di pietanze elaborate i loro piatti dorati.
Aida le guardava affaccendarsi come formiche. Non che lei le avesse mai viste, le formiche, ma il suo insegnante le aveva spiegato come funzionava la loro vita sociale e ne era rimasta affascinata. Per quegli strani piccoli animali la cosa più importante era la comunità e le era sembrato assurdo poiché lei era invece abituata a un tipo di governo in cui nulla aveva più valore del Principe.
La ragazza si portò le mani in grembo e raddrizzò la schiena. La pedana era lontana un paio di braccia dalla tavola e davanti a lei non era apparecchiato. Loro non mangiavano mai alle Cene di Stato, la famiglia reale doveva mantenere la sua aurea di divinità. A vedere però il paté di pesce con salsa di bacche rosse ad Aida brontolò lo stomaco. Suo padre la guardò di sottecchi per un istante, ma fortunatamente nessun altro ci aveva fatto. Aida raddrizzò ancora di più la schiena. Ci teneva a fare bella figura, per suo padre ma anche per se stessa: sapeva che un giorno tutto quello che ora apparteneva a lui sarebbe stato suo e la cosa più importante da mantenere era la devozione dei sudditi, soprattutto di quelli importanti.
«Andres Montagnol» chiamò il Principe «come procede il commercio del platino e dell'ilmenite?»
Andres Montagnol, ripeté Aida nella sua testa, uno dei più importanti mercanti di Portonovo e proprietario della più grande compagnia di navigazione. Cosa le aveva detto recentemente il suo insegnante? Ah, sì, aveva l'esclusiva sul commercio del platino e dell'ilmenite estratti dai nuovi giacimenti sul confine.
Un uomo basso sulla sessantina si alzò in piedi e, dopo aver portato rispettosamente le dita alle labbra, disse: «Molto bene, grazie Divino Principe. Il Regno di Svetia ne ha ordinate ingenti quantità, le navi partiranno in settimana.»
Il Principe annuì una volta, con espressione seria. «Avete idea di cosa intendono farsene?»
«Monete, immagino, e gioielli. Strumenti per la medicina. Sono questi gli usi abituali del platino.»
«E con l'ilmenite?»
«Estrarranno il ferro e il titanio.»
«Mi domando a cosa gli serva tutto quel titanio» intervenne un altro uomo, dalla parte opposta del tavolo. Alto e dalle spalle larghe, pelato, sui cinquant'anni. Natanael Ombrillado, Generale Maggiore dell'esercito, si disse Aida. Tutti si voltarono verso di lui.
«Avete un'idea, Maggiore?» domandò il Principe.
«A me è giunta una voce, non so quanto credibile» intervenne un terzo uomo. Un difetto all'occhio destro gli impediva di aprirlo del tutto e dava l'impressione di osservare ogni cosa con aria sospettosa. Pedro Ruiz, mercante. «Una delle mie navi è tornata pochi giorni fa e l'equipaggio racconta di aver sentito che gli svetiani vogliono costruire braccia e gambe sostitutive per i loro soldati mutilati.»
Un'esclamazione di sorpresa si levò sulla tavolata, ma tutti si zittirono a un gesto del Principe. Nella mente di Aida intanto si affacciò l'idea che la protagonista della storia poteva non essere tutta di vetro, ma avere di vetro solo alcune parti.
«E voi pensate che vogliono usare il titanio per fare braccia artificiali?» domandò il Principe.
«Non lo so, Vostra Altezza Divina. Personalmente non capisco come potrebbe funzionare un arto del genere, ma sappiamo che dal punto di vista ingegneristico Svetia è sempre stato più avanti di tutti. È solo per questo che sono riusciti a portarci via l'arcipelago di Esperia, cinquant'anni fa.»
Tutti rimasero un istante in silenzio, ripensando a quella sconfitta ancora fresca nonostante gli anni trascorsi.
«Oppure potrebbero farci armi» disse poi il Maggiore. «Il ferro è un metallo di uso comune, ma comprare grandi quantità di platino e titanio non può essere giustificato dal normale approvvigionamento di metallo grezzo per la gestione ordinaria del regno.»
«Spade in platino e titanio? Una nuova lega?» chiese il Principe.
«Non posso dirlo con certezza. Dico solo che dobbiamo stare attenti.»
«Spero che non stiate insinuando che dovrei rifiutarmi di mandare il materiale, Maggiore» disse Andres Montagnol.
«Io non insinuo niente.»
«Non ci rifiuteremo di vendere loro i metalli» affermò il Principe. «Almeno per ora. Non abbiamo prove che confermino questi sospetti. Ma dobbiamo indagare. Maggiore, pensa di riuscire a inviare un paio di soldati dell'Esercito Esterno a Svetia con la nave del signor Montagnol?»
Il Maggiore annuì deciso. «Sì, Divino Principe. Saranno pronti a partire fin da domani.»
«Perfetto. Sbarcheranno a Svetia e raccoglieranno informazioni. Che siano discreti e non sospetti. Quanti giorni si tratterrà la nave a Svetia?»
«Il tempo di scaricare la merce e caricarne altra» disse Andres Montagnol. «Non più di una settimana.»
«Bene, voglio che resti dieci giorni. Trovate il modo di prolungare la sosta. In quel tempo le nostre spie dovrebbero riusvire a raccogliere abbastanza informazioni, che riporteranno subito indietro.»
Andres Montagnol strinse i denti in modo quasi impercettibile, ma Aida, che lo osservava attentamente, notò il rapido contrarsi e rilassarsi dei muscoli. Non era contento della richiesta, ma subito disse: «Va bene, Vostra Altezza Divina». Poi si risedette e riprese a mangiare.
Il Principe interpellò uno alla volta tutti i convitati. Aida seguiva ogni scambio di battute con una concentrazione tale che quando infine suo padre parlò nuovamente con il Maggiore un sottile mal di testa cominciava a farle pulsare la testa e dolere gli occhi.
«C'è qualche novità su Kozen?»
«No, sul confine tutto tace. Nessuno ha più tentato di fare incursione a Portonovo. Tuttavia mi sembra ancora troppo presto per abbassare la sorveglianza, temo ancora in un possibile contrattacco.»
«Bene, voglio che i soldati di stanza sul confine restino lì. E per quanto riguarda le nuove reclute?»
«Sono arrivati oggi pomeriggio, se ne sta occupando il Capitano Flores, come sempre.»
«Si sono arruolati molti ragazzi delle Paludi?»
«Sì, Divino Principe. Sono quasi un terzo del totale.» Il Maggiore fece una pausa, esitante. «Come sapete, Vostra Altezza, non sono convinto che sia stata una scelta saggia.»
Tutti si voltarono verso di lui, trattenendo il fiato. Aida osservò suo padre, non sapendo come avrebbe reagito, ma lui non si scompose.
«Lo so, ma abbiamo bisogno di soldati, la guerra con Kozen ci ha indeboliti più di quanto siamo disposti ad ammettere. I ragazzi delle Paludi sono una risorsa importante che finora ci siamo stupidamente rifiutati di sfruttare.»
«Perdonatemi, Divino Principe, ma io credo che non siano affidabili. Sono ladri, stupratori...»
Il Principe lo guardò con espressione dura, le sottili sopracciglia due linee dritte sopra gli occhi contornati da sottili rughe. «Diamo loro un compito, un obiettivo per cui lottare, e non saranno più malviventi.»
A quel punto il Maggiore si zittì. Aveva colto l'antifona.
Aida non capiva la scelta di suo padre: le avevano sempre detto che gli abitanti delle Paludi – le periferie nord e sud della città – erano delle specie di topi che vivevano in canali di fango misto ai loro stessi escrementi, criminali, senza istruzione e senza morale. Come ci si poteva fidare di loro al punto tale da mettere la sicurezza del Principato – della famiglia reale stessa – nelle loro mani?
Benché non ci facesse mai caso, Aida sapeva che dietro ogni porta che le si apriva davanti c'era un soldato della Guardia Interna e che una decina di loro erano sempre disposti intorno alla stanza dove si trovava lei o qualunque membro della sua famiglia. Il pensiero che uno di quegli uomini così vicini e armati da quel momento in poi sarebbe potuto essere un topo delle Paludi la faceva rabbrividire di paura.
Finalmente la cena giunse a conclusione. Quando anche l'ultimo degli invitati ebbe posato le posate nel piatto vuoto del dolce, il Principe si alzò in piedi, subito imitato dalla moglie e dalle figlie. Aida ebbe l'impulso di saltare giù dalla sedia, smaniosa di andarsene e poter finalmente mangiare anche lei, ma si trattenne, mantenendo un atteggiamento dignitoso – o almeno, quello che lei sperava fosse un atteggiamento dignitoso. Anche tutti gli invitati si alzarono e, rivolto il saluto cerimoniale ai sovrani, li guardarono lasciare la stanza.
Non appena la porta si fu richiusa alle loro spalle e i quattro si ritrovarono da soli nella sala d'attesa, Marisol si lasciò scivolare per terra. «Che noia!»
«Marisol!» esclamò la madre, scandalizzata. «Alzati subito.»
Ad Aida sfuggì una risatina, mentre la sorella si rimetteva in piedi.
«Mangiamo?» chiese Aida.
«Sì, vi prego!» supplicò Marisol, alzando i grandi occhi verso i genitori con il labbro inferiore in fuori e sbattendo le ciglia nel tentativo di commuoverli.
«La cuoca ha preparato la sala da pranzo piccola» affermò il padre, accarezzando i capelli a entrambe. «Andiamo.»
Il Principe aspettò che le ragazze avessero finito almeno la prima portata, prima di chiedere: «Dunque, Aida, cosa ne pensi di quello che è stato detto stasera?»
La ragazzina si portò un altro boccone alla bocca e lo masticò lentamente, cercando di guadagnare tempo prima di rispondere. Era da quando aveva compiuto dieci anni – ormai quasi quattro anni fa – che suo padre la faceva partecipare alle Cene di Stato, ma solo recentemente aveva preso l'abitudine di interrogarla al riguardo una volta concluse. Deglutì.
«Il mercante, Andres Montagnol, non sembrava felice di far restare per dieci giorni la nave a Svetia.»
Il padre annuì, soddisfatto. «No, per niente. Secondo te perché?»
Aida si mordicchiò il labbro inferiore. «Ha paura che veniamo scoperti, forse?»
«Non credo. Forse anche quello, ma il motivo principale è che blocchiamo in una pausa forzata la sua nave migliore, che lui invece vorrebbe avere subito indietro per poterla usare di nuovo. In pratica, la mia richiesta gli fa perdere denaro. Ricorda, Aida – e anche tu, Marisol – la cosa che più importa a questi ricchi mercanti è il denaro. Come prima motivazione, pensate sempre a quello e difficilmente sbaglierete.»
«C'è un'altra cosa che mi ha preoccupata molto più di Montagnol» intervenne la madre, posando le posate nel piatto. «Ossia il Maggiore.»
«Perché mi ha contraddetto, dici?»
«Sì.»
Il padre posò una delle sue mani sottili su quella di lei. «Non preoccuparti, Xiana, mi fido ciecamente di lui. È uno degli uomini migliori che l'esercito abbia mai avuto. E poi mi aveva già espresso le sue perplessità. Si accorgerà che si sbaglia.»
La donna contrasse le labbra, non convinta.
«Padre?» lo chiamò Aida, ma poi esitò prima di continuare.
«Sì, tesoro?»
«Neanche io mi fido della gente della Palude» disse infine e Marisol annuì vigorosamente.
«Capisco. Nemmeno io affiderei la mia vita alla gente della Palude così com'è» spiegò lui. «Ma quei ragazzi diventeranno soldati a tutti gli effetti solo dopo un addestramento di otto anni. Fino ad allora saranno strettamente sorvegliati e plasmati in modo da non amare niente più del bene del Principato e del suo sovrano. A quel punto saranno uguali a tutti gli altri soldati. Sono ragazzi di dodici anni, sarà facile far perdere loro i vizi dell'infanzia.»
«Sai che non è vero» intervenne la madre. «Alcuni vizi dell'infanzia restano per sempre. Tu dormi ancora con le calze.»
Le ragazze scoppiarono a ridere.
«Questo è un colpo basso» sbuffò il padre. «E poi lo faccio ancora solo perché nessuno ha cercato di farmi cambiare idea. Se per otto anni me lo avessero impedito, non lo farei più. È per questo che l'addestramento dura tanto.»
«Comunque sia» la madre riprese il filo del discorso «il Maggiore si è esposto troppo. Queste cose farebbe bene dirtele solo in privato, se non vuole attirare sospetti su di sé.»
Marisol sbadigliò, poi si ricordò di dover mettere la mano davanti alla bocca, ma quando lo fece era ormai troppo tardi. «Scusa, madre, non lo farò mai più.»
«Lo spero, Marisol, sei una principessa, e le principesse non sbadigliano come abitanti della Palude.»
Aida immaginò le nuove reclute sbadigliare in quel modo scomposto e rabbrividì. Guardò la madre che si arricciava una ciocca di capelli sfuggita dall'acconciatura. Era un gesto che faceva sempre quando era pensierosa, ma solo in privato, quando i suoi capelli non erano strettamente fissati sulla testa. Aida continuò a guardarla, aspettando che parlasse, perché si capiva che stava per dire qualcosa.
«Però, Alvaro, se già ti aveva parlato delle sue perplessità in privato, perché le ha tirate fuori nuovamente in pubblico? Sembrava quasi che volesse che gli altri sentissero.»
Le labbra del padre si atteggiarono in un'espressione seria. Altri avrebbero forse accusato la moglie di preoccuparsi troppo e inutilmente, ma lui non lo faceva mai. Sapeva che Xiana era una donna intelligente e prendeva sempre seriamente le sue osservazioni. Si fidava di lei. Aida aveva sempre pensato che fosse quella fiducia il cardine di una storia d'amore, non i fiori e le parole dolci che si scambiavano i protagonisti dei libri che leggeva: quelli erano inutili fronzoli che alla fine mostravano sempre di non valere niente, considerato quanto spesso poi quelle stesse persone che dichiaravano di amare follemente l'altro alla fine lo tradivano. I suoi genitori invece erano sempre stati sullo stesso fronte, fianco a fianco, e a guardarli insieme ad Aida veniva in mente un'idea di eternità, qualcosa che c'era da sempre e sempre sarebbe esistito. Questo era l'amore per come la ragazza se lo figurava.
«Forse hai ragione» disse infine il padre. «Forse sperava che anche qualcun altro gli desse ragione e sostenesse la sua posizione.»
La moglie arricciò le labbra.
«Cosa temi, Xiana?»
«Non lo so, non ne sono sicura.»
«Mi fido del Maggiore, non farebbe mai niente per danneggiarmi.»
«Lo sai che nessun sovrano può mai dormire davvero sonni tranquilli.»
«Ma io non solo il loro Principe, sono anche il loro Dio, e nessuno ucciderebbe il proprio Dio.»
«Nessuno che ci creda.»
Il padre intrecciò le dita e posò le mani sul tavolo. «Sai qualcosa che io non so?»
«Ovviamente no. Ho solo paura per te. Per noi. Tu non sei mai vissuto fuori da questo palazzo, ma io sì e fuori da qui la gente dice cose che qui non osa nemmeno pensare. La gente dubita e si interroga e non sempre le risposte che si dà sono vere o vantaggiose per noi. Se qualcuno dovesse mai giungere alla conclusione che tu non sei una divinità eliminarti sarebbe molto più semplice.»
«Lo so, Xiana. Ma non è il caso del Maggiore.»
La donna contrasse i muscoli della mascella.
«Ma starò attento» concluse infine lui.
«Ma quindi, padre, sei davvero o no una divinità? Mi state confondendo» disse Marisol e Aida avrebbe voluto schiaffeggiarle la mano come faceva sempre quando la sorella diceva una sciocchezza. Che idea folle, pensare che il padre non fosse un Dio!
«Tu pensi che lo sia?» rispose lui.
«Sì.»
«Allora lo sono.»
Alla fine della cena, il padre augurò la buonanotte alle ragazze sulla soglia della camera da letto di Aida e si allontanò per i corridoi di marmo bianco fino ai suoi appartamenti privati. La madre invece le seguì nella stanza e fece uscire le cameriere, che subito si erano avvicinate per aiutare le ragazzine a cambiarsi per la notte. A volte, quando non era troppo occupata, le piaceva prendersi cura di loro personalmente e Aida adorava quando accadeva.
Dopo che entrambe furono in camicia da notte, Aida si sedette sul bordo del letto e porse alla madre una spazzola. Senza una parola, la donna la prese e le tolse i fermagli dai capelli, che Aida sentì ricadere sulla schiena in modo sparso. La madre vi passò in mezzo le dita per districarli, poi cominciò a spazzolarli delicatamente. Aida chiuse gli occhi, con un leggero sorriso sulle labbra, mentre sentiva allentarsi la tensione che troppo spesso le stringeva le spalle. Marisol si buttò sul letto a pancia in giù, il mento poggiato sui palmi delle mani mentre le guardava in attesa del suo turno.
La madre cominciò a canticchiare sottovoce una vecchia ninna nanna.
Un papavero rosso in un campo di grano
La mia dolce bambina allunga la mano
Lo porta a casa, pegno d'amore
Riceverlo in dono è un grande onore
«Mamma, un regalo per te»
E io mi sento il più ricco dei re.
Quando ripartì dall'inizio, Aida si unì e la delicata melodia delle loro voci si perse nella vastità della stanza, mentre le setole della spazzola le accarezzavano la testa e frusciavano tra i suoi capelli.
Aida sapeva che c'erano milioni di motivi per cui avrebbe dovuto ringraziare per la vita che le era stata donata, ma se avesse dovuto sceglierne uno, uno solo fra tutti, avrebbe scelto quello.
«Adesso toccava a me, però» si lamentò Marisol.
Aida spalancò gli occhi, non si era accorta di essere stata sul punto di addormentarsi finché la voce della sorella non l'aveva svegliata. La ragazzina si mise a sedere e poi attraversò il letto gattonando, fermandosi al suo fianco. Ora davanti agli occhi assonati di Aida c'era solo la casa delle bambole che usavano da bambine e che giaceva inutilizzata sul pavimento. Era grande, alta quasi due braccia, e le bambole erano ancora sedute nel salottino a prendere il tè, dove le avevano lasciate l'ultima volta che ci avevano giocato – Aida non riusciva a ricordare quando era stato. Succede così, un giorno si usa per l'ultima volta il proprio gioco preferito ma in quel momento nessuno lo sa, che sarà l'ultima. Si diventa grandi da un giorno all'altro senza neanche rendersene conto.
La madre legò i capelli di Aida in due strette trecce e poi passò a pettinare quelli di Marisol, sempre rossi ma di una sfumatura più chiara.
Aida scese dal letto e si avvicinò alla casa-giocattolo. Benché non la usasse più nessuno da tempo, non c'era nemmeno un granello di polvere. La ragazza prese in mano la sua bambola preferita, con i capelli nerissimi e il vestito blu pieno di fiocchi; le accarezzò il viso e all'improvviso provò una morsa di tenerezza e nostalgia nei confronti di quella bambola e della vita che lei stessa le aveva confezionato. Nella sua immaginazione, le abitanti della casa non avevano altro da fare se non uscire a passeggiare in mezzo ai fiori, bere il tè con le amiche e aspettare che un bellissimo principe venisse a chiedere la loro mano. Una vita semplice e perfetta, in una casa altrettanto perfetta. La bambola avrebbe potuto essere lei stessa – nessuna casa poteva essere più bella del palazzo in cui Aida viveva e di tè e fiori poteva averne quanti ne voleva – ma la sua unica amica era Marisol e più cresceva più si rendeva conto che la sua vita era tutto meno che semplice. La Cena di Stato gliene aveva appena dato una prova: le reclute, i commerci, le guerre... Tutte cose che Aida si sforzava di capire perché sapeva che un giorno avrebbe dovuto prendere il posto di suo padre e voleva farlo bene. Ma c'erano momenti in cui avrebbe solo voluto tornare nella sua casa di bambole, con sua madre che le spazzolava i capelli cantando una ninna, sperando che potesse durare per sempre.
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