2. Le porte dorate

IL VELENO DEL SERPENTE

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Le porte dorate

Eneas attraversò la città fino a raggiungere il punto di ritrovo prefissato, nel quartiere dello Scrigno. Più si allontanava dalla Palude, più Eneas si stringeva nelle spalle, facendosi piccolo e desiderando nascondere tanto se stesso quanto il suo fagotto. Aveva l'impressione che chiunque gli passasse accanto gli rivolgesse occhiate di biasimo ed espressioni disgustate, come se fosse una blatta che camminava sporcando il loro bel quartiere splendente di marmo bianco. E forse era davvero così.

Era la prima volta che Eneas si addentrava così tanto nello Scrigno, sede dei ricchi mercanti che erano la motivazione principale del prestigio di Portonovo e della sua supremazia nel commercio marittimo. Ovunque si posasse il suo sguardo timido, il ragazzo vedeva solo bellezza e splendore: nelle case pulite e decorate e in quelle dalle linee nette, negli argini dei canali privi di fango e persino nelle acque limpide del fiume. Eneas strinse con forza il pugno che teneva il fagotto: piano piano lo stupore iniziale lasciava il posto alla rabbia. Se tutto quello splendore era possibile e a portata di mano, perché la sua famiglia doveva vivere con l'acqua dei canali di scolo che periodicamente entrava in casa, riempiendola di fango?

La voglia improvvisa di rompere qualcosa e sfregiare così quel quartiere perfetto si fece sentire così intensa che Eneas era sicuro che, se ne avesse avuto la possibilità, lo avrebbe fatto. Ma le strade erano sgombre, giusto un po' di polvere negli angoli e qualche pietra un po' disconnessa, e non offrivano niente che potesse aiutare il ragazzo nel suo intento. Non c'erano nemmeno dei sassi da prendere a calci per sfogare la frustrazione.

Le nuove reclute dovevano incontrarsi sul molo da cui partivano le barche dirette al palazzo del Principe. Il castello sorgeva su un'isola nel mezzo del fiume – la Gemma – nel punto esatto in cui questo, giunto alla sua foce, cominciava a dividersi nei rami principali. Era il punto più a monte di tutta la città, che si estendeva sui isolotti circondati dai molteplici rami del fiume. Alle spalle della Gemma c'erano solo campi e campagna.

Quando era colpito dai raggi di Brann, il palazzo scintillava tanto che era impossibile da guardare. Da piccolo Eneas era convinto che fosse una stella caduta su Domhan Ekte, un puntolino luminoso per lui tanto lontano e irraggiungibile da essere effettivamente paragonabile alle stelle vere.

In quel momento invece Brann era coperto dalle nuvole e il cielo, prima limpido e azzurro, era ora velato da un grigio pesante e quindi Eneas riusciva a vedere chiaramente, seppur lontane, le mura bianche che circondavano l'isola e, al di là di quelle, il castello dai tetti dorati.

Eneas lo guardò mentre percorreva di corsa l'ultimo tratto: si era perso ed era in ritardo, ma non aveva alcuna intenzione di chiedere indicazioni. Temeva però di essere lasciato a terra e perdere così la sua unica occasione, deludendo se stesso, i suoi fratelli e, soprattutto, sua madre.

Superò di corsa l'ultima curva per ritrovarsi sulla bianca spianata del molo. Vi erano diverse barche ormeggiate. Eneas le passò tutte in rassegna con lo sguardo, ma riconobbe subito quella giusta dalla folla di ragazzini ammassata sulla banchina. Accelerò per coprire quell'ultima distanza, ma aveva percorso solo un paio di braccia quando qualcosa gli venne addosso, buttandolo in terra. Urlò, e anche la cosa urlò insieme a lui.

«Merda di torba!»

«Merda lo dico io! Mi hai tagliato la strada» si lamentò una voce di ragazzino.

Eneas si girò su un fianco, rotolando sulle pietre della pavimentazione. Una stilla di dolore bianco si irradiò dal gomito sinistro, facendogli stringere con forza i denti. Accanto a lui, un altro ragazzo stava cercando di alzarsi. Eneas lo squadrò da capo a piedi mentre si rimetteva in piedi. Era alto e con le spalle larghe, molto più di Eneas, con un piccolo cespuglio di capelli ricci a coronargli il capo. Si spazzolò i pantaloni dalla polvere e bastò quel gesto per far capire a Eneas che non veniva dalla Palude, deduzione confermata dalla valigia che raccolse da terra. Una valigia vera, seppure non nuovissima.

Il ragazzo fece per riprendere la corsa, ma tentennò, spostando il peso da un piede all'altro. Guardò Eneas, le reclute in lontananza e poi di nuovo Eneas.

«Tu non vieni?»

Eneas si rialzò di scatto e afferrò il suo fagotto, scivolato poco più avanti. Ebbe l'impulso di nasconderlo con il proprio corpo, in modo che l'altro non potesse vederlo. Ma il ragazzo non sembrava interessato, la sua unica preoccupazione era che Eneas si rialzasse per poter riprendere la corsa.

«Bene, non ti sei fatto niente, allora possiamo andare.»

Partì di scatto senza avvisare, ma Eneas in breve lo raggiunse e lo superò, raggiungendo il resto del gruppo prima di lui.

«Corri veloce» gli disse il ragazzo, cercando di riprendere fiato.

Eneas avrebbe voluto dirgli che chi impara a correre per scappare corre per forza veloce, ma questo avrebbe potuto aprire la strada a ulteriori domande a cui non avrebbe voluto rispondere, quindi rimase zitto e fece spallucce.

«Comunque io sono Rico. Mi spiace di averti fatto cadere.» Gli sorrise, tra un ansito e l'altro, e sulle sue guance si formarono due fossette.

Eneas trovò impossibile non sorridergli a sua volta.

«Ciao. Io mi chiamo Eneas.»

«Bel nome.»

«Mica tanto, altrimenti mia madre lo sceglieva come primo e non come settimo.»

«Urca! Hai sei fratelli?»

«Già.» Forse negli altri quartieri non avevano così tanti figli? Nella Palude era normale. Ma non ebbe il tempo di chiederlo perché un soldato in uniforme cominciò a mettere i ragazzi in riga davanti alla passarella che li avrebbe condotti sulla nave. A uno a uno veniva chiesto loro il nome e, se corrispondeva a uno di quelli in lista, venivano fatti salire.

Un soldato dalla barba folta fermò Eneas con uno sguardo che lo mise a disagio.

«Nome?»

«Eneas Lodo.»

Il soldato fece scorrere lo sguardo sul foglio che stringeva in mano, poi annuì e fece un segno sulla carta. «Puoi passare.»

Eneas salì sulla passerella, mentre il soldato chiedeva di nuovo alle sue spalle: «Nome?»

«Rico Rìo.»

«Puoi passare.»

Rico affiancò Eneas non appena misero piede sulla nave.

«Tu sei mai stato sulla Gemma?»

Eneas lo fissò alzando le sopracciglia. Era scemo? Perché uno come lui sarebbe dovuto andare nella sacra isola del Principe?

Rico sorrise di nuovo. «Scusa, sono agitato e quando sono agitato parlo a sproposito» disse e si grattò la testa sotto i folti ricci castani.

Eneas lo capiva e, al pensiero di come sarebbe cambiata la sua vita da quel momento in poi, provò il desiderio di prendere a calci qualcosa.

«Mio fratello dice che dentro quelle mure tutto è fatto d'oro e pietre preziose. Ma proprio tutto, anche i letti» gli disse.

Rico aggrottò le sopracciglia folte. «I letti? Chissà che scomodi. Ma tuo fratello ci è stato?»

«No. Infatti io non gli credo. Tobias spara un sacco di merdate.»

«Spero bene. Io non voglio dormire in un letto duro.»

I soldati li fecero sedere tutti sul ponte e poi diedero indicazioni per partire.

«Ma tu hai mai visto il Divino Principe?» chiese di nuovo Rico, per poi correggersi: «No, certo che non lo hai visto, nemmeno io. Ma secondo te com'è?»

Eneas non aveva un'idea chiara del Principe, nella sua mente era una figura dorata senza lineamenti sospesa in un bagliore luminoso. Era una figura mistica e divina e non riusciva a immaginarselo con un corpo di carne come qualsiasi altro essere umano. Il pensiero che anche il Principe potesse fare la cacca lo faceva rabbrividire per quanto era blasfemo. Eneas chiese intimamente perdono per il suo pensiero profano.

«Secondo me non lo vedremo» rispose. «Non credo che Sua Altezza Divina verrà da noi.»

Rico ci pensò un attimo. «Forse hai ragione.» Stava per aggiungere altro, ma poi la barca cominciò a muoversi e l'attenzione dei ragazzi fu catturata dal leggero ondeggiare del ponte.

Eneas puntò lo sguardo verso il molo che piano piano si allontanava e sentì tirarsi la corda che lo legava ancora alla sua famiglia e alla sua casa, finché si tese allo spasimo, vibrò e infine si ruppe con un dolore acuto nel petto. Uno strappo netto che divideva la sua vita in due: da una parte il bambino che era stato, perduto nel fango della Palude, e dall'altra il ragazzo che sarebbe diventato e che Eneas ancora non riusciva a immaginare. Nel mezzo, un fiume.

Il suo cuore era pesante e gonfio come una spugna piena d'acqua, ma Eneas non voleva piangere, quindi diede le spalle allo Scrigno e si voltò verso la Gemma. Cercò di scorgere le mura oltre le teste degli altri ragazzi, ma riusciva a vedere solo sprazzi bianchi e dorati, almeno finché la barca, finito il breve viaggio, cominciò a girare su se stessa per ormeggiare. A quel punto la fortezza del Principe si palesò in tutto il suo immenso splendore. Viste da vicino le mura erano così alte che Eneas dovette alzare la testa per vederne la fine e comunque non riuscì a scorgere niente al di là.

«Tutti in piedi» ordinò uno dei soldati, camminando tra i ragazzi. «Scendete ordinatamente, in fila.»

Come Eneas, anche Rico si era perso a osservare la Gemma ed entrambi si alzarono di scattò alla voce dell'uomo.

I ragazzi vennero radunati tutti sul molo di pietra bianca e venne imposto loro di fare silenzio. Lì, un soldato alto e dalle spalle molto larghe li stava aspettando. Indossava una giacca verde smeraldo e dei pantaloni bianchi, mentre un paio di stivali neri gli copriva i polpacci fino al ginocchio. Eneas non riconobbe la divisa – d'altra parte lui di soldati non ne aveva mai visti – ma non dubitò nemmeno per un istante che quell'uomo occupasse una posizione importante nella gerarchia militare.

L'uomo aspettò che tutti i ragazzi fossero zitti e attenti, poi prese la parola. «Tra pochi istanti» disse «varcherete il cancello che vi porterà nel cuore pulsante del Principato di Portonovo, la parte che più di tutte deve essere protetta e farlo diventerà il vostro compito. Fino ad oggi la vostra vita apparteneva a voi, ma ora, offrendovi come reclute per l'esercito di Sua Altezza Divina il Principe Alvaro, ventiquattresimo sovrano della dinastia Delmar, donate la vostra vita al Principato.» Rimase un attimo in silenzio per scrutare da sotto le sue sopracciglia dritte e nerissime i ragazzi delle prime file. «Oggi siete qui in trecentoventisette. Trecentoventisette volontari che desiderano entrare nel nostro esercito. Questo però non basta. Sapete che dopo l'ultima guerra abbiamo perso molti valorosi soldati, quindi sarà nel nostro interesse che tutti voi arriviate alla fine dell'addestramento, ma non è facile e vi richiederà impegno e fatica. Durante il vostro percorso riceverete aiuto, ma i vostri insegnanti non avranno pietà perché la guerra la pietà non sa cosa sia. Avrete un'unica possibilità e non potete fallire.» Si raddrizzò e ad Eneas parve ancora più alto di quanto già non gli fosse sembrato. «Io sono il Capitano Ignazio Flores e tutti i vostri insegnanti faranno capo a me. Benvenuti sulla Gemma. Il destino del Principato è nelle vostre mani.»

Un brivido attraversò la spina dorsale di Eneas. Quando si era offerto volontario per entrare nell'esercito lo aveva fatto solo per migliorare la sua condizione di vita, non aveva pensato alla responsabilità che gli sarebbe ricaduta sulle spalle, ma ora il capitano gli aveva aperto gli occhi e la cosa lo elettrizzava. Certamente la guerra implicava anche la morte, ma per Eneas quello era un pensiero troppo lontano per essere reale. Mentre osservava l'elsa scintillante della spada che il Capitano portava in vita sentiva solo l'onore e la gloria che ne sarebbero derivati.

Il Capitano Flores fece loro cenno di seguirlo e li guidò fino al grande portone dorato che sigillava la Gemma. Subito due soldati si affrettarono ad aprire i battenti, che lentamente cominciarono a girare sui propri cardini. Nessuno dei ragazzi osava fiatare. Eneas strinse forte i pugni, mentre il cuore gli batteva all'impazzata nel petto: davanti ai suoi occhi si stava per svelare ciò che di più prezioso e misterioso c'era in tutta Portonovo, il cuore della città, profano e divino al tempo stesso, e lui stava per calpestare con i suoi piedi sporchi di fango quel suolo sacro. Improvvisamente provò vergogna e ribrezzo verso la propria inadeguatezza, avrebbe voluto strapparsi di dosso tutti i vestiti e attraversare nudo quella soglia, come se stesse venendo al mondo un'altra volta, rinascendo nella sua nuova forma.

Osservò con la coda dell'occhio Rico, ancora accanto a lui. Sul suo viso vide un'espressione seria e concentrata, gli occhi fissi sulle porte che si aprivano come se non ci fosse niente di altrettanto importante in tutto il mondo, ed Eneas capì di non essere solo. Nessuno di quei ragazzi era pronto e, d'altra parte, come avrebbero potuto?

Quando finalmente il portone fu del tutto spalancato, il Capitano Flores li guidò all'interno delle mura. Subito gli occhi di Eneas si aggirarono voraci tutt'intorno, per non lasciarsi sfuggire nemmeno il più piccolo dettaglio. Si ritrovarono in un ampio cortile, da cui partivano quattro strade di pietre bianche: due che costeggiavano internamente le mura e due che si addentravano tra gli edifici candidi, sui quali si aprivano a intervalli regolari finestrelle rettangolari. Benché Eneas già sapesse che Tobias si era inventato tutto, rimase un po' deluso che non fosse tutto fatto d'oro; da dove era, riusciva a scorgere solo frammenti delle tegole brillanti dei tetti e qualche decoro su alcune delle facciate.

Il Capitano imboccò una delle strade lungo le mura e, dopo averla percorsa per un po', attraversò un ingresso ad arco e li guidò in un cortile interno ampio e quadrato circondato sui quattro lati da alti edifici. Oltre i tetti si vedeva il castello emergere con le sue guglie appuntite, immenso e rivolto verso il cielo.

«Questa sarà la vostra casa fino alla fine dell'addestramento» disse il Capitano. «Sarete divisi in quattro gruppi, ognuno governato da un Comandante. Seguirete tutte le lezioni teoriche e pratiche con il vostro gruppo e non sarete mai mischiati, tranne che per i pasti e in occasioni particolari. Ora i Comandanti vi chiameranno singolarmente e vi porteranno nella vostra camerata.»

«Speriamo di essere insieme» disse Rico, abbassandosi per sussurrare nell'orecchio di Eneas. Ed Eneas annuì, perché lo sperava davvero: benché lo avesse appena conosciuto, tutto di quel posto e di quella situazione era talmente strano che in confronto Rico gli era già famigliare come un amico.

Il primo Comandante chiamò i membri del suo gruppo – la squadra A – e li portò con sé nell'edificio a sinistra dell'ingresso. Eneas non poté fare a meno di notare che erano tutti ragazzi ben vestiti e ben pettinati, probabilmente provenienti dai quartieri ricchi della città.

Si fece poi avanti un altro soldato giovane e biondissimo, dalla pelle tanto bianca da confondersi con il marmo degli edifici. Si presentò come Comandante Ramiro Cortéz e chiamò i componenti della squadra B. Eneas sobbalzò quando udì il proprio nome e si affrettò ad avvicinarsi al suo Comandante. A ogni nuova recluta chiamata il ragazzo sentiva nascere e morire la speranza che si trattasse di Rico e stava ormai per arrendersi quando finalmente lo udì – Rico Rìo – e sentì un timido sorriso aprirglisi sul volto. Quando ebbe intorno a sé un'ottantina di ragazzi, il Comandante li guidò nell'edificio di fronte all'ingresso del cortile.

«Al piano terra ci sono le aule per le lezioni e le stanze comuni, mentre le camere sono al primo e al secondo piano. Sarete divisi in quattro camerate. La cucina e la mensa invece si trovano nell'edificio che affaccia sul secondo cortile, che vi mostro dopo. È in comune con tutte le squadre.»

I ragazzi si affrettarono a seguirlo su per le scale come i pulcini dietro mamma chioccia.

«Sulle porte delle camerate trovate i vostri nomi. Sistemate le vostre cose e poi scendete al piano terra, che vi spiego l'organizzazione quotidiana delle attività.»

Il Comandante scomparve giù per le scale, mentre i primi ragazzi si avvicinarono entusiasti alle porte, cercando il proprio nome. Eneas esitò, stringendo forte il pugno che teneva il suo fagotto. Fece strisciare un piede sul pavimento e si guardò intorno, scrutando le facce degli altri e sperando di diventare invisibile. Rico era già partito verso la prima porta, ma dopo pochi passi si fermò a guardarlo con aria interrogativa.

«Eneas?»

Eneas diede un calcio all'aria. «Mmm?»

«Vieni.»

Il ragazzo lo seguì controvoglia infilandosi nello spazio che Rico si era creato a gomitate. Giunti davanti al cartello, Rico cominciò a divorare con lo sguardo l'elenco di nomi ed Eneas rimase al suo fianco, fingendo di fare lo stesso. Simboli strani e contorti stavano ordinati come soldatini sulla pagina bianca, tanto piccoli e fitti da far girare la testa. Scrutò Rico e la sua espressione concentrata con la coda dell'occhio, cercando di capire dalle reazioni dell'altro se fossero in quella camera oppure no.

Rico arricciò il naso. «No, vediamo di qua.» E trascinò Eneas fino alla porta di fronte, ma anche lì si ripeté la stessa scena.

«Uffa, dobbiamo salire altre scale» si lamentò Rico e i due ragazzi si arrampicarono al piano superiore.

«Eccomi!» esclamò infine. «Guarda, ci sei anche tu» disse indicando con il dito un punto del foglio, l'ultima riga della prima colonna. Eneas concentrò lo sguardo in quel punto, cercando di vedere se stesso in quell'insieme di simboli. Se li impresse il più possibile nella mente, sperando di riuscire a riconoscerli quando li avesse visti di nuovo.

All'interno della stanza erano stipati una decina di letti a castello e tutti quelli inferiori erano già occupati. Eneas e Rico ne scelsero due superiori vicini. Accanto a ciascun letto vi erano una cassettiera e due sedie.

Il ragazzo che occupava il materasso sotto ad Eneas aveva posato sul letto la propria borsa rattoppata e stava aprendo i cassetti uno dietro l'altro, osservandoli tanto da vicino che se Eneas avesse chiuso all'improvviso il cassetto avrebbe rischiato di decapitarlo. Eneas osservò il proprio fagotto e poi la borsa posata sul letto e si sentì un po' meglio nel realizzare che probabilmente il suo compagno proveniva come lui da una delle Paludi.

«Ehi» gli disse, richiamando la sua attenzione.

Il ragazzo sobbalzò e quasi picchiò la testa contro la cassettiera.

«Scusa» si affrettò a dire Eneas. «Non volevo spaventarti.»

«No, no, niente» minimizzò il ragazzo, raddrizzandosi e voltandosi verso Eneas. «Stavo controllando che non ci fossero scarafaggi.»

Eneas annuì, senza riuscire a staccare lo sguardo dagli occhi azzurrissimi dell'altro. «E ce ne sono?»

«No, per fortuna.» La serietà con cui lo disse contrastava con i lineamenti delicati del suo viso sottile, contornato un caschetto di capelli castano chiaro e spettinati, tagliati sulla fronte a formare una corta frangetta. Era alto come Eneas, ma molto più magro, tanto che il ragazzo si chiese come potessero delle braccia così sottili sorreggere una spada.

«Prendo il cassetto più in alto» continuò l'altro ragazzo. «Me ne basta uno, gli altri tre sono tuoi, se vuoi.»

«Anche a me ne basta uno.»

«Comunque io sono Jorge.»

«Eneas.»

«Spero che tu non russi, perché sennò non riesco a dormire.»

«I miei fratelli non si sono mai lamentati. Non per questo, almeno.»

«Bene.»

«Comunque potrebbero russare gli altri.»

Jorge contrasse le labbra sottili.

«Eneas, hai fatto? Scendiamo?» Rico comparve all'improvviso alle spalle di Eneas, facendolo sobbalzare. D'istinto il ragazzo cercò il coltellino nella tasca vuota. Il tempo che ci mise a riprendersi dallo spavento, Rico si era già presentato anche a Jorge, che lo guardava con un'aria vagamente terrorizzata.

«Il ragazzo sotto di me deve essere già sceso, andiamo anche noi.»

«Devo mettere le cose nel cassetto» disse Jorge.

Rico sbuffò. «Va bene, vi aspetto.»

Jorge lo guardò un istante ed Eneas ebbe l'impressione che avrebbe voluto essere lasciato solo. Poi cominciò a tirare fuori i vestiti dalla borsa e a riporli ben piegati nel cassetto. Ci mise pochissimo – non aveva che un paio di cambi – poi piegò anche la borsa e infilò anche quella nel cassetto.

Eneas preferì inserire tutto il fagotto così com'era. Poi Rico, che era rimasto a guardarli trepidante, sorrise e disse: «Ottimo, ora possiamo andare» e li guidò di sotto scendendo gli scalini a due a due.

Jorge si avvicinò a Eneas. «Ma è sempre così?»

Eneas si strinse nelle spalle. «Non lo so, l'ho appena conosciuto.»

Le labbra dell'altro si tirarono in un timido sorriso. «Spero che non russi.»

Il Comandante Cortéz li aspettava in un'aula e, dopo averli fatti accomodare nei piccoli banchi di legno, spiegò nel dettaglio come si sarebbe svolta la giornata successiva e tutte quelle che sarebbero venute dopo di quella. Sveglia presto, allenamento del mattino, colazione, lezioni teoriche, pranzo, allenamento del pomeriggio, cena e poi a letto presto. E poi di nuovo, in un eterno ripetersi.

Quando finì stava ormai calando il buio e il Comandante li guidò fino alla mensa. Per raggiungerla dovevano attraversare un secondo cortile alle spalle del loro edificio, ma il cielo – che era rimasto gonfio d'acqua per tutto il pomeriggio – si era infine aperto rovesciando in terra una pioggia scrosciante. I ragazzi esitarono sulla soglia, fermi davanti al muro d'acqua. Il Comandante invece procedette spedito verso l'edificio dalla parte opposta del cortile, incurante tanto dell'acqua quanto dei ragazzi che avevano smesso di seguirlo. Qualcuno si riscosse e con uno scatto gli corse dietro.

«Magari è una prova» mormorò Eneas a Rico e Jorge. «Vuole vedere come reagiamo davanti a un imprevisto.»

Gli altri due rifletterono un attimo, poi Rico disse: «Può essere. Quindi dobbiamo seguirlo.» E allungò un passo fuori dalla copertura della tettoia.

«Seguirlo sì, ma in modo intelligente» lo fermò Jorge, che invece di attraversare direttamente il cortile cominciò a costeggiare gli edifici che lo racchiudevano. Subito Rico tornò sotto la copertura della tettoia e si accodò a Eneas e Jorge fino alla porta della sala mensa, dove il Comandante li stava aspettando. Dietro di loro, anche altri ragazzi avevano sfruttato l'idea di Jorge. Cortéz li guardò entrare ma non commentò.

La mensa era già piena di gente. Eneas si diresse verso l'estremità libera di un tavolo e fece per sedersi, ma poi si rese conto che il cibo non veniva servito ma ogni persona doveva andare personalmente a prenderselo al banco davanti alla cucina.

«Tu resta qui, tieni il posto» gli disse Rico. «Prendiamo noi la cena anche per te.» E si trascinò dietro Jorge.

Eneas si sedette e si guardò intorno. La stanza era occupata da lunghi tavoli in legno ai lati dei quali correvano file di panche. Una moltitudine di lampade a gas di torba ammantava tutto di una luce soffusa e ambrata. Qualche ragazzo aveva già fatto gruppo, ma molti erano seduti da soli, soprattutto quelli vestiti in modo più povero; i ragazzi dei quartieri ricchi invece parlavano animatamente tra loro, come se si conoscessero da una vita. E forse era così.

Rico e Jorge furono di ritorno quasi subito.

«Tutti i ragazzi dello Scrigno li hanno messi nella squadra A, avete notato?» chiese Rico, infilandosi in bocca una grande forchettata di cose verdi e molli.

«Sì» rispose Eneas, osservando il contenuto del proprio piatto: verdure cotte e un insieme di fagioli e lenticchie. Un delizioso profumo gli investì le narici e sentì il proprio stomaco brontolare. Si affrettò a mangiare tutto con gusto.

«Lo hanno fatto apposta. Per non mischiarli a noi» continuò Rico, meditabondo, giocherellando con la forchetta. «A proposito, voi da dove venite?»

Eneas sollevò le sopracciglia: non era evidente? «Dalla Palude Sud.»

«Io da quella Nord» rispose Jorge.

Rico riportò la sua attenzione su di loro. «Vero che quest'anno anche i ragazzi delle Paludi sono ammessi. Io vengo dall'Officina. Come mai vi siete arruolati?»

Eneas guardò Jorge, sperando che rispondesse prima lui e poi Rico si dimenticasse della domanda. Ma Jorge rimase silenzioso e a sua volta guardò Eneas.

«Beh?» disse Rico, facendo passare lo sguardo dall'uno all'altro.

«Per il cibo» ammise infine Eneas. «E per il letto e i vestiti nuovi.» Ebbe l'impulso di abbassare lo sguardo e nascondere il viso dietro gli spettinati riccioli neri che gli sarebbero piovuti sul viso, ma si impose di restare a testa alta.

Rico sbarrò gli occhi, che Eneas si rese conto solo in quel momento essere verdi.

«Davvero? E tu?»

«Per quello e per poter seguire le lezioni teoriche» spiegò Jorge, lo sguardo nel piatto vuoto e tirato a lucido – nemmeno una lenticchia era sfuggita alla sua forchetta.

Rico li fissava stranito. «Non avete queste cose nelle Paludi?»

«No» rispose Eneas, rinfrancato dalle parole di Jorge. «E tu perché sei qui?»

«Voglio diventare come mio fratello, seguire le sue orme. Lui è un Comandante della Guardia Esterna.»

«Cos'è la Guardia Esterna?» domandò Eneas.

«Non lo sai?» Rico sbarrò gli occhi. «E tu Jorge lo sai?»

Il ragazzo annuì e spiegò, rivolto ad Eneas: «L'esercito è diviso in due, la Guardia Interna che protegge il Principe e la sua famiglia e la Guardia Esterna che invece si occupa più in generale di difendere il Principato dai nemici.»

«Sì, esatto!» si entusiasmò Rico.

Eneas invece guardava Jorge sorpreso. Come faceva un ragazzo delle Paludi a conoscere quelle cose? Strinse con forza il pugno intorno al manico della forchetta. Inadeguato, lui era inadeguato. Jorge sapeva anche leggere?

Jorge gli sorrise timidamente, come se avesse percepito il suo disagio. «Mi sono informato» disse, giustificandosi. «Sai, prima di venire qui volevo sapere cosa mi aspettava.»

Eneas annuì, ma in realtà avrebbe voluto prendere a calci qualcosa di fragile fino a ridurlo in mille pezzi. Perché lui non si era posto queste domande? Per lui l'esercito era solo un mondo magico e lontano che si sarebbe spiegato ai suoi occhi una volta giunto sulla Gemma, salvandolo dalla fame e dalla povertà. Era reale, ma al tempo stesso non lo era, vivido e intangibile come un sogno. E invece era una realtà con la sua storia e le sue regole che lui non conosceva affatto, e si sentiva come un naufrago perduto in terra straniera. In quel momento sentì forte il desiderio di tornare a casa.

«Anche tu hai sei fratelli?» continuò a domandare Rico all'altro ragazzino, come se non si fosse accorto di niente.

«No, ho solo tre sorelle.»

«Ma nelle Paludi hanno tutti così tanti figli?»

Jorge si strinse nelle spalle. «Molti muoiono giovani.»

«Io ho solo un fratello. Mio padre avrebbe voluto che almeno uno di noi due restasse nell'Officina per continuare la sua attività – sapete, ha una bottega in cui produce oggetti in ferro battuto – ma io non sono fatto per quel genere di cose. Io voglio diventare un eroe!»

Un ragazzo seduto al loro stesso tavolo scoppiò a ridere. «Un eroe? Ma sei scemo?»

Rico posò violentemente la forchetta nel piatto e si voltò verso di lui, gli occhi stretti a due fessure. «Come, scusa?»

«Di quanti eroi pensi che ha bisogno Portonovo? E perché proprio tu?»

«Perché non io?»

«Lo dici come se fossimo in una lunga guerra epica, in cui servono combattenti eccezionali che salvano il mondo. È ridicolo. Erano tipo quarant'anni che non facevamo battaglie con nessuno, poi c'è stata questa con il Regno di Kozen che però abbiamo già vinto. Probabilmente tu di guerre non ne vedrai neanche una e passerai la tua vita da soldato a controllare che non ci siano criminali nelle strade dello Scrigno.»

«Quella con Kozen non è stata una guerra così semplice, visto il disperato bisogno che hanno di nuove reclute.»

«Solo perché è morta tanta gente non vuol dire che sia stata una battaglia memorabile.»

«Ma ha avuto i suoi eroi. Tipo Rafael De Soledad.»

«Se per te quello è un eroe... La gente lo dimenticherà in fretta, ha fatto solo il suo dovere.»

«Però tu sai a cosa mi riferisco. La gente ne parla e se ne parla ci sarà un perché.»

L'altro ragazzo stava per ribattere, ma il Capitano Flores, che Eneas non aveva visto entrare, suonò una campanella e tutti si voltarono verso di lui.

«Per i pasti avete un'ora di tempo. Quando finisce, sarete avvisati dal suono di questa campanella. Ora tornate nelle vostre stanze. Domani mattina l'allenamento inizia all'alba e sarete svegliati da un intendente. Buonanotte.»

Rico e l'altro ragazzo si guardarono per un attimo in tralice, poi furono inghiottiti dal vortice di reclute che si alzavano tutte insieme e vennero trascinati verso il cortile e poi ancora più in là, fino in camera.

«Ma chi si crede di essere quella là?» si lamentò Rico, mentre si metteva il pigiama. «Per fortuna non è in camera con noi.» Lanciò i vestiti che si era appena tolto sopra la cassettiera e ignorò le proteste del ragazzo che dormiva sotto di lui.

Eneas si arrampicò sulla scaletta di ferro del suo letto a castello e si sdraiò sul materasso, sospirando soddisfatto: era morbido e uniforme, senza i bozzi di quello di casa sua.

«Dite che è nella squadra B? Non ci ho fatto caso.»

«Non lo so» disse Eneas. «Domani lo scopriamo.»

Rico rispose con un mugolio. «Beh, buonanotte» concluse, rigirandosi nel letto e facendo cigolare la struttura metallica.

«Ehi, sta' fermo» esclamò il ragazzo sotto.

«Ma oggi ce l'hanno tutti con me?»

Un intendente spense le luci e la stanza piombò nell'oscurità. Solo da sotto la porta trapelava una lama di luce ambrata proveniente dal corridoio. Eneas pensava che avrebbe dormito benissimo fin da subito, vista la comodità del letto, e invece il sonno tardava ad arrivare. Dopo essere rimasto fermo per un po' con gli occhi chiusi, si girò supino a fissare il buio dove sapeva esserci il soffitto. Gli avvenimenti della giornata continuavano a rigirargli in testa in un vortice confuso, ma erano due le scene che proprio non riusciva a scacciare: quando lui e Rico cercavano i propri nomi fuori dalle stanze e quando aveva dovuto ammettere di non conoscere la Guardia Esterna. Entrambe lo avevano fatto sentire in difetto, sbagliato e ignorante. Avrebbe voluto potersi giustificare, trovare una spiegazione che lo riabilitasse, ma la verità era quella: lui era ignorante e lì, sulla Gemma, non c'entrava niente. Quando anche il Comandante se ne sarebbe accorto lo avrebbe rispedito indietro ed Eneas non poteva permetterselo.

Cercando di essere il più silenzioso possibile, si mise a sedere e scese lentamente la scaletta. Una volta messi i piedi nudi sul freddo pavimento di pietra, si avvicinò alla cassettiera dei ragazzi che occupavano il letto accanto al suo, dall'altra parte rispetto a Rico. Prima di dormire aveva notato che uno aveva poggiato sopra al mobile un pacco di fogli bianchi e un astuccio di legno. Gli occhi gli si erano ormai abituati all'oscurità e, grazie alla luce del corridoio, riuscì a prendere una matita e un foglio. Poi in punta di piedi arrivò fino alla porta, la aprì senza farla cigolare e se la richiuse alle spalle. Per un istante la luce delle lampade a gas illuminò i volti dei suoi compagni dormienti, ma nessuno si svegliò.

Eneas rimase un attimo in ascolto, ma l'edificio era silenzioso. Sollevò quindi lo sguardo verso l'elenco appeso alla porta. Il suo nome era l'ultimo della prima colonna. Eneas Lodo, questo doveva esserci scritto. Cercò di impugnare la matita, ma non sapeva come tenerla, ogni posizione gli sembrava scomoda. Sbuffò e ne scelse una. Poi poggiò il foglio sul muro accanto all'elenco e, lettera dopo lettera, ricopiò il proprio nome.

Eneas Lodo.

Confrontò le due scritte. La sua era storta e deforme, come un vecchio cucchiaio metallico piegato e raddrizzato più volte nel corso degli anni.

Lo copiò un'altra volta, sotto alla prima.

Eneas Lodo.

Ancora storto.

Di nuovo.

Eneas Lodo.

Eneas Lodo.

Eneas Lodo.

Andò avanti a riscriverlo finché non l'ebbe imparato a memoria. Solo a quel punto riuscì ad addormentarsi.



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