18. La Prova Finale

IL VELENO DEL SERPENTE

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La Prova Finale

Eneas sedeva con i gomiti poggiati sulle ginocchia divaricate e le mani congiunte nel mezzo, lo sguardo basso a guardare il pavimento. Si stava sforzando di stare fermo. Fino a un attimo prima stava facendo saltellare la gamba destra, ma poi Eugenio si era lamentato perché faceva tremare la panca e gli aveva intimato di smetterla.

Il ragazzo alzò lo sguardo verso la porta di legno scuro sull'altro lato della stanza. Ogni gruppo di addestramento era stato diviso in tre commissioni in modo da finire tutte le prove finali in un giorno e il sottogruppo di Eneas era stato portato in quella stanza ore prima, dove era stato lasciato ad aspettare.

A distanze di tempo variabili, Cortéz apriva la porta in fondo all'anticamera e chiamava un ragazzo per volta, che lo seguiva oltre l'uscio. Eneas però non aveva ancora visto nessuno uscire. Probabilmente c'era un'altra porta, ma la sensazione era che i suoi compagni fossero stati fagocitati da quella stanza dove accadeva qualcosa di non meglio definito.

Cortéz era stato chiaro: nessuno poteva sapere in cosa consisteva la Prova prima di averla superata. Eneas però desiderava arrivare preparato e, visto che non sapeva in cosa, aveva ripassato tutto: geografia, lingue, storia e politica, combattimento corpo a corpo e con le armi, e ora in testa aveva solo una gran confusione. Sciolse le mani e fece tamburellare le dita sulla panca accanto a sé. Per anni era stato curioso su cosa fosse esattamente la Prova Finale, ma ora era giunto alla conclusione che preferiva non scoprirlo. Desiderava solo che quel giorno fosse già finito e che, chiudendo e riaprendo gli occhi, si sarebbe svegliato già a domani, ormai soldato a tutti gli effetti.

Quella mattina lui e Jorge avevano svuotato la loro cassettiera. A un certo punto Jorge si era fermato, fissando un indumento che stringeva in mano, ed Eneas, guardandolo, aveva sentito il magone bloccargli la gola. Gli era tornato in mente il loro primo incontro e, prima che potessero entrambi perdersi in sentimentalismi, lo aveva preso in giro: «Mi raccomando, porta via anche gli scarafaggi».

Jorge si era riscosso ed era scoppiato a ridere.

Ora sedevano uno accanto all'altro sulla panca ed Eneas lo guardò di sottecchi. Jorge fissava la porta di legno davanti a loro, come se l'intensità del suo sguardo potesse farla aprire più in fretta.

Eneas tamburellò ancora le dita sulla panca, nel silenzio della stanza. Nessuno parlava. Eneas non riusciva a immaginare quale fosse il grande mistero della Prova Finale. In fondo non poteva essere tanto diversa dalle verifiche per il passaggio d'anno, no? Forse solo più difficile. Ma se così fosse stato, perché tenerla tanto segreta?

Sentì un gorgoglio nello stomaco. Doveva andare in bagno, ma non era il momento giusto, che poi probabilmente era il motivo per cui sentiva il bisogno di andarci.

Cercò di immaginare come sarebbe stata la sua vita se non avesse superato la prova. Cosa ne era delle reclute che fallivano? Eneas non ne aveva idea. Forse avrebbe dovuto farsi prima questa domanda.

Comunque non avrebbe fallito. Strinse la mano a pugno, con forza. Semplicemente era impensabile: dopo tutti quegli anni di allenamento e fatica non poteva che superare la prova con successo, o sarebbe stato tutto inutile. Non avrebbe fallito.

Cortéz aprì la porta. «Rico Rio.»

Rico balzò in piedi. «Eccomi.» Incespicò facendo il primo passo, ma poi avanzò spedito verso la porta, quasi correndo.

«Buona fortuna» gli disse Eneas, a voce così bassa che temette che l'amico non l'avesse sentito. Invece Rico si voltò e gli fece un sorriso trasudante ansia.

«Ci vediamo dopo, per festeggiare.» Poi sparì oltre i battenti.

Eneas ricominciò a far saltellare la gamba.

«Ancora? E basta!» sbottò Eugenio.

Eneas sbuffò.

Un rumore strano, un misto tra un grido e un ringhio, raggiunse le loro orecchie e tutti si voltarono verso la porta. Non era la prima volta che suoni del genere uscivano dalla sala della prova.

«Secondo me è un modo per ammazzarci tutti» mormorò Horacio, le mani talmente strette tra loro da essere diventate pallide, nonostante la carnagione olivastra.

«Quello che hai detto non ha senso» rispose infastidito Eugenio.

«Sì, invece. Questi versi non sono... umani!»

«Se non sono versi umani allora non è a Rico che stanno facendo del male.» Eugenio faceva finta di niente, ma a ogni rumore i suoi occhi scattavano verso la porta, in allerta.

«Non ci uccideranno, Horacio» cercò di tranquillizzarlo Jorge, con voce pacata. «Non avrebbe avuto senso addestrarci per otto anni, altrimenti.»

«Sì, lo so, hai ragione.» Horacio abbassò lo sguardo, imbarazzato.

Cortéz aprì di nuovo la porta. «Eneas Lodo.»

«Sì, eccomi!»

Attraversò la stanza in un coro di buona fortuna sussurrati, ma il cuore gli batteva così forte nelle orecchie che quasi non li sentì. Cortéz si fece da parte per farlo entrare e poi richiuse la porta alle proprie spalle.

«Vai in mezzo» gli disse.

Eneas ubbidì, avanzando lentamente nella stanza. Era molto grande, ma la luce soffusa non permetteva di capirne esattamente le dimensioni. L'unica illuminazione proveniva da delle finestre molto strette nella parte alta delle pareti, al confine col soffitto. Davanti a lui, sul lato opposto, c'era un lungo tavolo di legno scuro, oltre il quale erano sedute cinque persone. Eneas strizzò gli occhi per riuscire a distinguerle. Erano tutti membri dell'esercito che aveva già visto in passato ma di cui non ricordava il nome, a parte l'ultimo sulla destra, che riconobbe immediatamente. Rafael De Soledad. Era da quella lontana notte di terrore che non si ritrovavano così vicini. Eneas lo osservò con attenzione: aveva sul viso qualche segno in più, ma per il resto era identico ad allora, con lo stesso aspetto lungo e affilato, la stessa carnagione olivastra e i capelli castano ramati tagliati allo stesso modo. Si chiese se anche lui lo avesse riconosciuto.

«Fermo lì» gli disse Cortéz ed Eneas si arrestò di colpo. Abbassò lo sguardo e vide che i suoi piedi si trovavano nel centro esatto di un cerchio disegnato sul pavimento con mattonelle di colore diverso. Riportò gli occhi sulla commissione e si sentì molto sciocco, lì in piedi con le braccia lungo i fianchi mentre loro lo guardavano.

Rafael si alzò dalla sedia, che stridette sul pavimento di pietra, e si portò davanti al tavolo, al quale si appoggiò. Dietro di lui, il tavolo era quasi vuoto, tranne che per un quaderno e un vassoio, su cui erano appoggiati una pila di bicchieri e una bottiglia. Nient'altro. Non c'erano armi, né cartine geografiche. Eneas non capiva cosa si aspettassero da lui.

I muscoli della sua gamba destra ebbero una piccola contrazione, che lui subito sedò. Non c'era niente lì da prendere a calci.

Mentre Cortéz raggiungeva gli altri al tavolo, il membro più anziano della commissione si alzò a sua volta e afferrò la bottiglia per versarne il contenuto in un bicchiere. Da quella distanza Eneas non riuscì a capire di cosa si trattasse.

«Eneas, ascoltami bene» gli disse Cortéz, e il ragazzo riportò di scatto la sua attenzione su di lui. «Ora dovrai bere dal bicchiere che ti porgerò. Tutto, fino all'ultima goccia. Chiaro?»

Eneas avrebbe voluto urlare fino a farsi dire che cosa fosse, ma tutto in quella stanza lo intimoriva – gli sguardi seri dei soldati, la luce che era più tenebra che altro, le pareti stesse, così alte e austere – e annuì.

«Bene. Dopo potresti sentirti un po' strano.»

«In che senso strano?» chiese Eneas, e la sua domanda riecheggiò sotto gli alti soffitti, facendolo sentire piccolo e sciocco.

«Potresti sentire un fuoco dentro, una rabbia che non riconosci come tua e che ti fa venire voglia di rompere tutto. Oppure semplicemente potresti sentiti più forte e invincibile. Oppure non sentirai nulla. Dipende da persona a persona. L'importante, Eneas, è che qualunque cosa accada tu non dimentichi chi sei. Ricorda tutto ciò che hai fatto per arrivare fin qui, la fatica e l'impegno di tutti questi anni di addestramento. Sei stato allenato per questo momento. Ora spetta a te. Capito, Eneas?» lo guardò negli occhi mentre il ragazzo annuiva, e poi ripeté: «Non dimenticarti chi sei.»

Forse il comandante voleva rassicurarlo, ma le sue parole non fecero che aumentare l'ansia di Eneas. Cosa voleva dire? In che senso non doveva dimenticare chi era?

Cortéz prese il bicchiere dalle mani dell'altro uomo e si avvicinò a Eneas. Gli consegnò l'oggetto con la stessa riverenza che avrebbe impiegato per un'offerta da sacrificare al divino che sta sotto le cose ed Eneas lo prese con la medesima cautela con cui gli veniva porto. Guardò dentro, ma il bicchiere era fatto d'oro e non gli permetteva di distinguere il colore della sostanza al suo interno.

«Non berlo, per adesso» lo fermò Cortéz. Non che ce ne fosse bisogno: Eneas non aveva alcun desiderio di ingerire quel liquido sconosciuto. «Ti dirò io quando.»

Tornò al tavolo e si fermò accanto al Capitano De Soledad. Poi altri quattro membri della commissione si alzarono e si disposero lungo il perimetro della sala; solo il più vecchio rimase seduto, dietro al vassoio.

Enas seguì i loro spostamenti con gli occhi e quando realizzò che quella era una formazione da difesa le sue mani ebbero un tremito. Il liquido oscillò nel bicchiere, ma non uscì nemmeno una goccia. I soldati si portarono le mani al fianco, dove Eneas sapeva esserci una spada.

Improvvisamente, tutto ciò che il ragazzo avrebbe voluto fare era scappare. Non sapeva cosa stava accadendo, il senso di tutta la prova gli sfuggiva: sapeva solo che all'improvviso gli sembrava di essere passato dalla parte del nemico. Era un animale in trappola. Tutti i muscoli del suo corpo si contrassero, preparandosi alla fuga, ed Eneas dovette metterci tutta la sua forza di volontà per non correre verso la porta da cui era entrato.

«Ora puoi bere, Eneas» gli disse Cortéz.

Il ragazzo si voltò a guardarlo, una figura pallida e bionda nella penombra della stanza. Sperò che gli dicesse che era uno scherzo, che la prova era finita e poteva andare via. Invece rimase immobile e in silenzio. Eneas esitò, mentre cercava di capire: forse l'obiettivo era vedere se, messo di fronte a una situazione difficile e sotto pressione, avrebbe ubbidito? O, viceversa, ciò che volevano era verificare quanto fosse in grado di riconoscere un pericolo e agire in modo intelligente in situazioni del genere? Non lo sapeva, ma capirlo era importante perché avrebbe determinato la sua prossima mossa: doveva bere? O non doveva farlo?

«Bevi, Eneas» ripeté Cortéz.

Eneas era infastidito dal numero di volte in cui il Comandante aveva pronunciato il suo nome. Ricordati chi sei, ripeté la voce di Cortéz nella sua testa.

Dal bicchiere saliva un odore pungente che però Eneas non riusciva ad associare a niente che conosceva. Lo avvicinò al naso e subito lo allontanò, scosso da un conato di vomito.

Rifletti, si disse. Cosa ci si aspetta da un esercito, prima di tutto? Cosa fa di un soldato un buon soldato? L'insubordinazione? La capacità di ragione in modo autonomo?

No, l'ubbidienza.

Eneas ingoiò il liquido tutto d'un fiato.

Fu come aver ingerito lava. Eneas cominciò a tossire, cercando di espellere quel fuoco che gli ardeva in gola, ma tutti ciò che veniva fuori dalla sua bocca era un filo bianco di saliva.

Sentiva il liquido ardente scendergli lungo l'apparato digerente e si artigliò il petto con le mani, sperando di riuscire a strappare via il dolore con le unghie. Cadde in ginocchio e un dolore acuto gli partì dalle rotule, espandendosi in tutte le gambe. Urlò, mentre il fuoco gli esplose nello stomaco.

Lo sentì espandersi nel resto del corpo come inchiostro nell'acqua e si guardò le mani, aspettandosi di vederle cambiare colore. Poi lentamente il dolore si attenuò. Eneas si sentiva strano, intorpidito da una strana energia che alterava la propria percezione di sé. D'improvviso gli sembrò di espandersi, come se il suo corpo stesse cambiando dimensioni e forma. Il vestito si strappò e cadde al suolo in pezzi.

Il suo corpo.

Quello che era il suo corpo.

La stanza, che all'inizio gli era sembrata enorme, ora non era più così grande. Il soffitto si avvicinava, come se stesse collassando su di lui, ma senza muoversi.

Intorno a lui, solo pietra, su tutti i lati. Una prigione.

Il fuoco riprese possesso delle sue viscere e si trasformò in rabbia, furore liquido che gli scorreva nelle vene e rendeva tutto il resto insignificante. Nessuno poteva tenerlo in gabbia. Avrebbe distrutto tutto e sarebbe stato di nuovo libero.

Qualcosa crebbe nel suo petto, una massa indefinita e vibrante di energia. Poggiò le mani al suolo e un rumore di artigli che graffiavano la pietra raggiunse le sue orecchie, ovattate dalla rabbia. Qualcosa si mosse intorno a lui.

«Aspettate!» gridò una voce.

I suoi occhi saettarono verso la creatura che aveva parlato, un niente piccolo e lungo che si stagliava davanti a lui, in basso sul pavimento. In mano aveva una ridicola asta metallica.

Una spada. Quella era una spada.

«È andato, Rafael. Non c'è più niente da fare.»

«No, non è andato.»

Quell'essere – un soldato – fece qualche passo verso di lui. Andava spazzato via.

«Tu sei Eneas Lodo.» Il soldato alzò la testa per poterlo guardare negli occhi. «Tu sei Eneas Lodo» ripeté. «Sei una recluta dell'esercito del Principato di Portonovo. Le tue braccia sono fatte per impugnare una spada. Sai usare le armi a polvere e leggere correttamente le mappe. Combatti bene, ma quello che sai fare meglio è correre veloce. Hai un'ottima resistenza. Lo so che mi senti. Sei un combattente. Resisti.»

La vista si fece più chiara.

«Sei un combattente. Una volta hai salvato la Principessa Aida. Tu sei Eneas Lodo. Ricordatelo. Eneas, ricordati chi sei.»

Eneas. Io sono Eneas Lodo.

La rabbia si spense nel suo petto ed Eneas cadde. Provò dolore mentre la pelle si ritraeva sulle ossa troppo grandi. Sentì qualcosa scrocchiare, dolori acuti di ossa infrante. Poi il freddo della pietra sotto il suo corpo nudo.

Io sono Eneas Lodo.

A fatica, sollevò una mano davanti ai propri occhi. Era perfettamente normale. Cos'era successo?

Dei passi affrettati schioccarono sul pavimento ed Eneas li sentì risuonare nella pietra sotto il suo orecchio. Cercò di girare la testa per vedere, ma era troppo faticoso e rimase immobile.

Vide il soffitto sopra di sé sdoppiarsi e riunirsi e poi, davanti ad esso, comparve il volto allungato del Capitano De Soledad.

Eneas avrebbe voluto dire qualcosa, ma dalle sue labbra riarse non uscì alcun suono.

«Non sforzarti» gli disse De Soledad. Poi si voltò verso qualcuno alle sue spalle. «Portategli dell'acqua.»

Subito comparve un bicchiere.

«Riesci a sollevarti un po'?» gli domandò il Capitano.

Eneas cercò di puntellarsi sui gomiti, ma subito ricadde al suolo. De Soledad allora lo tirò un po' su con il braccio libero e lo fece appoggiare a sé. Poi gli portò il bicchiere alle labbra ed Eneas bevve avidamente.

«Cosa...» riuscì ad articolare, mentre anche gli altri membri della commissione gli si avvicinavano, pur mantenendosi a una certa distanza. «La prova...»

«La prova è finita, Eneas. L'hai superata. Benvenuto nell'esercito.»

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