12. Draghi di ferro

IL VELENO DEL SERPENTE

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Draghi di ferro

In un istante, l'uomo fu dentro la stanza. Eneas fece appena in tempo a vedere la luce delle lune brillare sulla punta della spada prima che questa si abbattesse su di loro. Si scostò, ma il Capitano fu più veloce di lui, tanto che nemmeno lo vide muoversi; eppure ora ce lo aveva davanti, tra le mani una spada che aveva bloccato la discesa di quella del nemico. La stasi durò un attimo soltanto, poi l'uomo fece un passo indietro, pronto ad attaccare di nuovo.

De Soledad però aveva estratto un coltello con l'altra mano – Eneas non sapeva da dove, visto che un secondo prima non lo aveva – e sembrava deciso a non lasciargli nemmeno il tempo di riordinare le idee. Fece una finta con la spada per distrarre il nemico, seguita da un affondo col coltello dal basso verso l'alto, in modo da passare tra due placche dell'armatura. L'uomo ebbe un sussulto e un fiotto di sangue gli uscì dalla bocca. Cercò di colpire a sua volta il Capitano, ma riuscì solo a far volteggiare la lama in aria prima di accasciarsi al suolo.

«Prendi una spada, recluta» ordinò De Soledad ad Eneas, mentre recuperava il coltello dal corpo del nemico. Il ragazzo rimase immobile a guardare il fiotto di sangue che uscì non appena l'altro estrasse la lama, inorridito.

«Recluta» lo richiamò il Capitano ed Eneas scattò sull'attenti.

«Sì, subito» disse e si avvicinò alla parete ricoperta di armi. Il suo sguardo frenetico sorvolò su tutte, ma senza soffermarsi su nessuna. Quale avrebbe dovuto scegliere? Durante l'addestramento avevano usato solo spade di legno ed Eneas guardò tutte le lame che aveva a disposizione, cercando la più simile al giocattolo che stava imparando a conoscere.

«Anche voi, Principessa.»

Eneas si girò a guardarla, ma lei non si mosse. Non voltò nemmeno lo sguardo verso la parete delle armi e al ragazzo parve di vederla tremare.

«Principessa» ripeté il Capitano.

Inizialmente lei non diede segno di averlo sentito, ma poi mormorò: «No».

Nella penombra, Eneas vide i lineamenti del Capitano contrarsi per un istante, ma non ribatté nulla. Diede invece una rapida occhiata fuori, poi disse: «Si stanno avvicinando altri soldati, saranno qui fra pochi istanti. Se ci facciamo trovare qui dentro saremo in trappola.» Fece una brevissima pausa. «Ora cercheremo di portare la Principessa dentro al castello. Dobbiamo attraversare il cortile, raggiungere il portone e farci aprire. Non so bene cosa ci aspetta là fuori, quindi state attenti.»

Poi si voltò di nuovo verso Eneas. «Tu a che anno sei?»

«Il primo» rispose Eneas, gonfiando il petto senza nemmeno accorgersene. Una voce dentro di lui lo pregava di scappare a nascondersi – impreparato com'era sarebbe morto subito se si fosse trovato davanti un nemico vero – ma c'era in lui uno stupido orgoglio che voleva soltanto far vedere a quel giovane capitano che era in grado di cavarsela, che lui veniva dalla Palude e che i ragazzi che crescono lì sono forti.

«Non bene» sospirò De Soledad. «Stai vicino alla Principessa e difendila se qualcuno riesce a passare le mie difese. Non fare nient'altro.» Fece un passo per uscire, ma poi si fermò e si voltò di nuovo. «Soprattutto, non cercare di fare l'eroe.»

Eneas strinse con forza l'elsa della spada. Ma chi si credeva di essere? In un attimo il suo sguardo fu sulla sua mano sinistra – quella che stringeva il coltello sporco di sangue – e si soffermò sulla benda macchiata di porpora che gli avvolgeva le dita. Solo lui poteva fare l'eroe?

«Statemi dietro» ordinò il Capitano e, dopo essersi assicurato che lo stavano seguendo, uscì dalla guardiola. Eneas fece passare prima la Principessa e poi fece per uscire a sua volta, ma all'ultimo momento decise di prendere anche uno dei coltelli vicino all'ingresso. Con quell'arma corta si sentiva più a suo agio.

Una volta fuori, fu circondato in un istante dal fumo delle esplosioni reso latteo dalla luce delle lune e dal clangore di un combattimento che intravedeva a malapena. Forme confuse si muovevano intorno a lui e doveva concentrarsi per non perdere di vista i suoi compagni. Fecero ancora qualche passo e il fumo si diradò.

Alzando lo sguardo, riuscì finalmente a scorgere il portone dorato dalla parte opposta del cortile. Tra loro e la meta, le uniformi blu dei soldati della guardia interna spiccavano tra le figure nere dei nemici. In mezzo a quella folla confusa di uomini, vi erano delle strutture metalliche che Eneas non riusciva a definire. Erano grandi, più di una persona, ed erano formate da placche combinate insieme secondo una logica che al ragazzo sfuggiva. D'altra parte, non aveva nemmeno il tempo per fermarsi a riflettere.

Il Capitano individuò un passaggio sulla destra e, assicuratosi che la principessa lo stesse seguendo, la imboccò a passo svelto. All'improvviso però un soldato in uniforme blu cadde davanti a loro. Subito De Soledad sollevò la spada nella direzione da cui era precipitato l'uomo, appena in tempo per intercettare la lama del nemico. Stridio di metallo contro metallo e in un istante i due furono di nuovo distanti. Si guardarono per una frazione di secondo e anche Eneas guardò il nemico, ma era tutto vestito di nero e la luce della luna illuminava appena il volto pallido. Poteva essere davvero un abitante di Kozan ma, per quanto ne sapeva lui, poteva anche essere chiunque altro, persino un cittadino di Portonovo.

Un passo avanti, e l'uomo cercò di colpire il Capitano dall'alto, ma lui era pronto e con un movimento rapido disarmò l'avversario. Fece un affondo, ma l'altro lo evitò chinandosi e cercò di colpirlo alle gambe con un coltello più corto estratto chissà da dove.

De Soledad fece un salto, sfuggendo alla lama nemica, ma cadde rovinosamente a terra e la spada gli sfuggì di mano, rimanendo disarmato. Il koziano ne approfittò e gli si slanciò contro mentre il Capitano era ancora al suolo.

Eneas spalancò gli occhi e fece un passo avanti, le mani strette intorno alle sue armi. Si rese conto solo in quel momento di essere rimasto immobile a guardare la scena quando invece avrebbe potuto dare una mano perché, porca merda di torba, era un soldato anche lui. Un maledettissimo soldato e poco importava che le mani gli sudavano, rischiando di perdere la presa sull'elsa, e che avrebbe preferito scappare e nascondersi, aspettando che gli altri risolvessero il problema al posto suo. Era un vigliacco.

Nell'istante che ci mise a pensare a tutto questo e a fare quel passo avanti, il koziano fu sopra De Soledad. Il cuore di Eneas gli martellava nel petto così forte che il ragazzo temette di sentirlo esplodere. Il Capitano non aveva niente per difendersi, era lui a doverlo proteggere.

Fulmineo, il coltello del soldato nero calò sul petto di De Soledad, ed Eneas vide il volto del Capitano farsi più lucente sotto la luce delle lune. Poi l'avversario cadde sul suo nemico come una pietra tombale.

Eneas si fermò, certo che il Capitano fosse morto, ma subito dopo lo vide emergere da sotto il corpo del koziano, che rotolò di lato e rimase immobile in una posizione grottesca. Il ragazzo passò lo sguardo dall'uno all'altro, incredulo. Com'era possibile?

Si soffermò sul cadavere, sul sangue che aveva sporcato il pavimento candido del cortile e sui profondi tagli da cui fuoriusciva, sette squarci paralleli che gli aprivano il petto. Eneas riportò lo sguardo sul Capitano, ma in mano non aveva niente, solo le sue stesse dita imbrattate di sangue e che ora gli parevano troppo lunghe per essere umane.

«Recluta, che stai facendo? Porta la Principessa in salvo!» gli intimò De Soledad mentre si alzava.

La Principessa! Eneas si voltò e si ritrovò il viso pallido di lei a un palmo dal proprio. Lasciò cadere la spada con la lama lunga, afferrò il polso della ragazza e la tirò dietro di sé mentre correva verso il portone. A ogni passo la caviglia urlava stille di dolore bianco, ma ci avrebbe pensato poi, ora doveva solo correre.

A metà di un passo, qualcosa lo colpì da destra e lui cadde, trascinando con sé anche la Principessa. Alzò il coltello d'istinto, senza vedere né capire nulla di quello che lo circondava, e sentì qualcosa di pesante piombargli addosso. Il grido soffocato di qualcun altro gli morì in faccia in una nuvola di fiato umido, mentre qualcosa di caldo cominciò a colargli sulla mano e poi giù lungo il braccio. Sangue. Doveva essere sangue, anche se Eneas ne aveva mai toccato così tanto.

Lasciò di scatto il coltello, che rimase conficcato nel corpo del nemico, e cercò di strisciare via, ma aveva una gamba incastrata sotto la massa pesante del koziano.

«Merda merda merda» mormorò a denti stretti, cercando di ritrovare la calma che aveva perduto. Poi sentì il peso alleggerirsi e vide che la Principessa stava cercando di far rotolare via il corpo. Eneas riuscì a sfilare la gamba e si rialzò. Una fitta di dolore alla caviglia rese il mondo bianco ai suoi occhi, ma riuscì a intravedere un altro soldato nero che si avvicinava alla sinistra. Afferrò nuovamente il polso della ragazza e la tirò a destra. Si stavano allontanando dal portone, ma la direzione giusta era troppo piena di soldati e lui da solo non sarebbe riuscito a fare nulla.

Davanti a loro giaceva abbandonata una di quelle strane strutture di metallo, che vista da vicino sembrava un enorme uccello con le ali spalancate. Nel centro del suo corpo artificiale, una cupola in vetro tenuta insieme da nervature metalliche era spalancata, lasciando accessibile l'interno della struttura.

«Entra lì dentro» ordinò alla Principessa. Lei fece per ribattere, ma si zittì subito e cercò di arrampicarsi fino all'imboccatura. Il vestito però le limitava i movimenti e scivolò, sbattendo contro una delle ali.

Eneas cercò di aiutarla e lei rotolò malamente dentro. Subito il ragazzo si affrettò a seguirla. Si sedette sul fondo della struttura, nascosto nelle viscere del corpo metallico dell'uccello. La Principessa fece per alzarsi, ma Eneas la afferrò per il polso e la trascinò giù, accanto a lui.

«Stiamo accucciati qui, non ci vede nessuno.»

Aida non rispose nulla. Rimase immobile, accanto a quella recluta sporca di sangue, e si maledisse per avere deciso di uscire proprio quella notte. Contò fino a dieci, cercando di calmarsi. Poi degli spari la fecero trasalire. Non sapeva chi stesse ora usando le armi a polvere, se i portonoviani o i koziani. Forse entrambi. Il cuore prese a batterle più forte e il suono del suo stesso organo le rimbombava così forte da non riuscire a sentire nient'altro.

Poi qualcosa esplose. Un grande boato, come quelli che avevano dato il via a questo macello. La struttura metallica ondeggiò.

«Guarda.» La recluta indicò con la mano qualcosa sopra di loro.

Aida alzò lo sguardo. Nell'apertura circolare sopra di loro riusciva a vedere solo il cielo. Strinse gli occhi: c'era una sagoma nera – più nera della notte – che si muoveva. Aveva due grandi ali spalancate, ma non poteva essere un uccello, erano troppo rigide. Qualcosa su di esso si illuminò brevemente e cadde. Qualche istante dopo, un'altra esplosione sconquassò il mondo e un bagliore di fiamma si rifletté sulla cupola di vetro spalancata.

«Sono draghi, ma di ferro. Buttano su di noi fuoco che esplode» mormorò la recluta e Aida sentì nitidamente la paura nella sua voce, tanto intensa che la percepì sommarsi alla propria. Lì erano nascosti alla vista e il metallo li proteggeva dalle lame, ma se una di quelle palle di fuoco esplosivo li avesse colpiti sarebbero morti.

Si guardò intorno, dentro al drago. Sopra le loro teste, vi era una serie di leve e una cosa che assomigliava a un timone. Cos'era quella struttura? Non ricordava di aver mai letto né sentito parlare di niente di simile. Come faceva a volare? Dove se li erano procurati i koziani? Non avevano mai avuto fama di essere abili inventori e non erano nemmeno bravi a modellare il metallo. Forse li avevano comprati a Svetia. Non che in quel momento avesse importanza. Portonovo avrebbe dovuto accorgersene prima, quando ancora si poteva fare qualcosa per impedire questo massacro.

Rabbrividì al pensiero che Kozan era riuscito a penetrare così in profondità nel cuore di Portonovo: aveva profanato la sua Gemma e teneva sotto scacco la famiglia reale. Com'era possibile? Questo non poteva accadere, non era concepibile. Perché? Perché tutto questo doveva capitare proprio a lei?

In poco tempo tutte quelle che erano state le sue certezze erano state minate alle basi: prima sua madre e ora la sua stessa casa si erano rivelate fragili, così fragili che bastava un nonnulla per distruggerle per sempre. Aida voleva tornare a com'era prima, quando c'erano solo le preoccupazioni normali e non questo supplizio. Voleva tornare a quando si sentiva sicura.

Si accucciò stringendo le ginocchia al petto e chiuse gli occhi, pregando che tutto finisse presto. Forse se una di quelle palle esplosive li avesse colpiti non sarebbe stato poi così male. Tutto sarebbe finito e lei non avrebbe più dovuto preoccuparsi di nulla. L'avrebbero messa accanto a sua madre e lei avrebbe finalmente potuto lasciare andare tutta la paura e il dolore. Forse sarebbe stato meglio.

«Stai bene?» le chiese invece la recluta, ancorandola di nuovo al presente. A un certo punto aveva cominciato a darle del tu e Aida non lo sopportava.

«Sì» rispose lei, ma un'altra esplosione coprì la sua voce.

Sobbalzarono entrambi e si avvicinarono uno all'altro, senza volerlo. Aida sentì la pressione calda del braccio di lui contro il proprio. Provò l'impulso di allontanarsi. In fondo lui era solo un sudicio e pericoloso ragazzo della Palude, ma era vivo e avere qualcuno così vicino la fece ripensare a Marisol.

Marisol, la sua sorellina. Aida pregò con tutta se stessa che fosse in salvo all'interno delle spesse mura di pietra del castello. Doveva essere disperata: sicuramente si stava domandando dove lei fosse finita.

Un fuoco le si accese dentro. Non poteva morire, doveva farlo per Marisol. In fondo, a lei personalmente in quel momento non importava di morire, ma non si sarebbe mai perdonata se avesse lasciato sola Marisol. Aveva appena perso la madre – per colpa sua –, perdere anche la sorella l'avrebbe distrutta e Aida non poteva sopportare di farle ancora del male.

Rimasero stretti uno accanto all'altro, in silenzio, per quello che ad Aida parve un tempo interminabile. Sopra di loro, altri draghi di ferro volarono stagliando le loro ombre nere contro la pallida luce lunare e altrettante esplosioni fecero tremare la fragile culla metallica in cui i due ragazzi erano rannicchiati. Per miracolo, niente li colpì.

Non si mossero per guardare fuori nemmeno quando si fece silenzio e Brann cominciò a illuminare di rosa il cielo. Aida desiderava e al contempo temeva di scoprire cosa era accaduto nel cortile. Aveva paura di vedere tutto il corpo di guardia morto e il portone del castello sfondato. Si immaginava mentre usciva dal ventre del drago e si incamminava tra le macerie fino alla camera di suo padre, dove avrebbe trovato tutti i suoi famigliari morti. Desiderava correre subito a verificare che non fosse così, ma la paura di vedere davanti ai propri occhi il suo incubo farsi realtà era talmente grande che preferiva non muoversi. Finché non avesse visto non sarebbe stato vero e avrebbe potuto illudersi ancora un po'. Piuttosto che avere la certezza della loro morte preferiva non sapere.

Nemmeno il ragazzo accanto a lei si alzò. Aida cercò di guardarlo in faccia per capire a cosa stava pensando, ma lui aveva la testa china e una zazzera di caotici capelli neri gli copriva il viso. Nel guardarlo, così fragile e vulnerabile, la assalì la strana sensazione di conoscerlo da sempre e allo stesso tempo di non conoscerlo affatto, come se quello che avevano appena passato insieme superasse qualsiasi tipo convenzionale di conoscenza e non era necessario sapere nient'altro di lui per sentirsi legata.

Poi dei passi risuonarono nel cortile. Il ragazzo sollevò di scatto la testa, i sottili occhi neri stretti a fessura nel tentativo di capire se doveva prepararsi a combattere oppure poteva rilassarsi. Aida sentì i propri muscoli contrarsi di riflesso.

Delle voci, all'inizio indistinte ma poi Aida cominciò a riconoscere alcune parole. Parlavano la loro lingua. Sentì le spalle rilassarsi immediatamente.

Rumori metallici e poi un volto si stagliò nel cerchio di cielo sopra di loro. Aida non riusciva a scorgerlo bene poiché era in controluce, ma dopo alcuni istanti di confusione l'uomo esclamò: «Principessa!»

Poi si alzò e gridò, rivolto a qualcuno alle proprie spalle: «L'ho trovata! È qui, è viva, l'ho trovata!»

Poi tornò a guardarla. «State bene? Siete ferita?»

Aida si prese del tempo prima di rispondere. Era ferita? Non lo sapeva. Mosse piano prima le braccia e poi le gambe. Sentiva male un po' dappertutto, ma niente di invalidante. Probabilmente stava bene.

Il soldato la aiutò a uscire dal drago. Subito lo sguardo di Aida corse al portone, ma quando vide che era ancora del tutto integro e che ne avevano socchiuso solo un battente per permettere alle guardie di uscire si sentì talmente sollevata che quasi le sembrò di spiccare il volo.

Poi il soldato diede una mano anche all'altro ragazzo. Aida lo guardò arrampicarsi giù dalla struttura di metallo, ma non appena mise piede a terra contrasse i muscoli del viso e si aggrappò con forza a una delle ali. Mormorò qualcosa che Aida non sentì.

«Sei ferito?» gli chiese il soldato.

«La caviglia» biascicò lui.

«Non preoccuparti, adesso ti portiamo in infermeria.» Fece un gesto a un altro soldato poco lontano, che si avvicinò e, dopo aver ascoltato le istruzioni, lo sollevò in braccio e lo portò via. Nel momento in cui scomparve alla vista, Aida si rese conto di non conoscerne nemmeno il nome. 

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