10. Silenzio

IL VELENO DEL SERPENTE

. 10 .

Silenzio

Aida aveva vissuto tutta la cerimonia d'addio come se non l'avesse vissuta affatto. In un certo senso era consapevole della gente che affollava il Santuario, di suo padre che camminava davanti a lei, dei soldati tutt'intorno, ma l'unica cosa davvero reale era la mano di Marisol nella sua, fredda e sudata. Quello, e la cassa di specchi.

L'aveva osservata per tutto il tempo, senza riuscire a distogliere lo sguardo, ricevendo di rimando la violenza distorta del proprio riflesso. Una macchia rossa – due – che risaltavano in quel mare bianco con l'oscena crudeltà di due chiazze di sangue. Aida avrebbe voluto guadare altro, concentrarsi su altro, ma la sua mente si era incastrata in quel pensiero che si ripeteva senza sosta.

Suo padre aveva parlato, ma lei non sapeva cosa avesse detto. Sapeva solo che alla fine del discorso i soldati avevano portato via sua madre e poi avevano chiuso una porta a separarle e quello era tutto.

Come potevano poche azioni così semplici spiegare così tanto dolore?

Marisol l'aveva riportata nella sua camera e si erano sedute sul letto una accanto all'altra, senza nemmeno una parola. Aida non voleva che la sorella se ne andasse, eppure non riusciva a sopportare di averla a fianco. Nella sua muta presenza sentiva il giudizio che non aveva espresso – in realtà, nessuno lo aveva fatto, nessuno le aveva detto è colpa tua, anche se lo era – e il peso di quel giudizio era così soverchiante da darle l'impressione di dover sorreggere sulle proprie spalle anche il dolore di Marisol.

Rimasero sedute sul bordo del letto a guardare la luce calare e il giorno diventare notte. Non si mossero nemmeno per andare in bagno e nessuno osò disturbarle. Per l'ora di cena una domestica entrò a portare un vassoio con due piatti che rimasero a raffreddarsi sulla scrivania.

Quando fu talmente buio che solo il bagliore offuscato delle lune permetteva di scorgere i contorni delle cose, Marisol si alzò. Aida sentì il materasso risollevarsi, privato del peso della ragazza, ma non disse nulla. Desiderò e temette che la sorella volesse andarsene, ma Marisol fece solo il giro del letto, si tolse scarpe e vestito, rimanendo in sottoveste, e si infilò sotto le coperte. Aveva deciso di fare finta di dormire.

Aida non aveva voglia nemmeno di quello, in fondo non c'era differenza tra il sonno e la veglia: erano entrambi un vegetare in attesa della fine dell'incubo. Sennonché dormire era peggio: la notte precedente, il medico di palazzo le aveva dato dei tranquillanti ed era riuscita ad addormentarsi, ma aveva fatto un sogno orribile e per tutta la durata della notte aveva solo desiderato di potersi svegliare. Però, quando finalmente le erbe avevano finito il loro effetto e Aida aveva aperto gli occhi, l'impatto con la realtà e la consapevolezza che era peggiore di qualsiasi incubo le aveva mozzato il fiato.

Aveva passato tutta la vita a recitare, a fingere di provare il dolore di qualche personaggio immaginario, ma ora si rendeva conto che non era stato altro che quello: finzione. Ma il dolore non si può fingere: o lo provi o non lo provi e tra le due possibilità c'è un abisso.

Aida sentì il respiro spezzarsi, come se un grosso peso le fosse caduto sul petto, e le sembrò si soffocare. Scese dal letto di scatto, ma dopo tutto quel tempo passato seduta le si era addormentata una gamba e cadde. Si rialzò e si trascinò fino al bagno, nella stanza accanto. Mentre faceva la pipì, provò disgusto per se stessa, per il suo corpo che aveva fame e che voleva continuare a vivere, con tutti i suoi bisogni, come se niente fosse cambiato, mentre sua madre era...

No, Aida non riusciva nemmeno a pensarlo.

Prima di tornare nella camera da letto, esitò davanti al grande specchio fissato alla parete, al buio. Nei romanzi che leggeva c'era sempre un'eroina che, a un certo punto della storia, guardandosi allo specchio non si riconosceva più. Ma Aida non aveva bisogno di specchi per non riconoscere se stessa. Si sentiva estranea nella sua mente, nel suo corpo, nelle sue mani. Quelle mani che l'avevano resa un mostro e che ora rilucevano nell'oscurità per quanto erano bianche e pulite pur essendo così maledettamente sporche.

Aida non si riconosceva più nelle definizioni che l'avevano sempre descritta – figlia, sorella, principessa – perché ora ce n'era una nuova che soffocava tutte le altre: assassina. E poco importava che quasi nessuno sapesse com'erano andate le cose perché lei lo sapeva e questa era la cosa che contava di più.

Lei lo sapeva. Marisol lo sapeva. Sua madre lo sapeva.

Un singhiozzo soffocato le strinse la gola.

Finora la sua vita era stata fatta solo di certezze, dette e non dette. I suoi genitori erano una di quelle. Da qualche parte, nel profondo, sapeva che prima o poi sarebbero morti, ma quel giorno le era parso così lontano nel tempo da non meritare nemmeno di pensarci. E poi le erano sempre sembrati così forti, le colonne portanti della sua vita. Che potessero andarsene davvero era semplicemente impensabile, come immaginare seriamente che Brann un giorno potesse non sorgere. E invece si erano dimostrati così fragili. A cosa serviva essere dei in terra, se poi alla fine erano destinati a morire come il più insignificante abitante delle Paludi?

Aida rimase in silenzio davanti allo specchio nero per un tempo indefinito, finché il cielo oltre la finestra cominciò a tingersi di rosa e lei poté scorgere il proprio riflesso farsi strada dalle profondità della notte. Scappò fuori dalla stanza.

Quando fu completamente giorno, una domestica entrò nella stanza e fu sorpresa di trovarla sveglia e vestita di tutto punto con lo stesso abito del giorno precedente.

«Principessa, non avete dormito?» le chiese con cautela, avvicinandosi al bordo del letto dove Aida si era seduta.

«No» rispose lei, e quella sillaba le richiese un'energia tale che poi si sentì sfiancata e non aggiunse altro. Vide comparire per un attimo un'espressione di compassione sul viso della donna e si voltò dall'altra parte.

«Alzatevi, vi aiuto a cambiarvi. Almeno mettete qualcosa di più comodo.»

Aida si fece guidare dalle mani premurose della domestica senza opporre resistenza. In fondo, indossare un abito o un altro per lei non faceva alcuna differenza.

Poi la donna svegliò Marisol, aiutò anche lei a vestirsi e portò via i piatti della cena, sostituendoli con quelli della colazione.

«Principesse, mangiate qualcosa» cercò di convincerle. «Avete bisogno di energie per affrontare...» Lasciò la frase in sospeso, ma Aida non si sforzò di concluderla nemmeno nella sua testa. Lo stomaco vuoto le faceva male, ma era un dolore sopportabile in confronto all'altro che il cibo non poteva lenire.

Marisol si trascinò fino alla scrivania e si sedette davanti alla sua tazza di latte di frutta. Prese un biscotto alle noci e lo inzuppò appena, giusto la punta dell'ovale, lo morse e lo masticò come se fosse fatto di marmo. Poi guardò sconsolata il resto del biscotto.

«Anche voi, principessa Aida.»

Aida guardò Marisol e si domandò cosa pensasse la sorella mentre mangiucchiava il biscotto. Che senso dava a quella colazione? Era un tentativo di andare avanti o voleva solo zittire la domestica? Da quando... da quel giorno, erano rimaste insieme ogni singolo istante, ma senza parlarsi e Aida non sapeva che opinione avesse la sorella di lei, dopo quello che aveva fatto. Che non la odiava era chiaro – anche se Aida non sapeva come fosse possibile – ma non riusciva a capire quali fossero i suoi sentimenti riguardo all'incidente. Avrebbe voluto saperlo, ma al contempo non voleva perché aveva paura della risposta.

Due colpetti alla porta annunciarono l'arrivo del Principe, che sbucò dall'uscio socchiuso. Subito la domestica fece un inchino e lasciò la stanza.

Non appena vide entrare il padre, il cuore di Aida prese a battere all'impazzata e lei scappò in bagno, chiudendosi con forza la porta alle spalle. Aveva seguito un istinto irrazionale dettato dalla paura e dalla vergogna. Che Marisol sapesse cosa aveva fatto la feriva, ma lo accettava: da sempre la sorella era stata una parte di sé e non c'era niente che sapeva l'una e non l'altra, sarebbe stato come sperare che la mano destra non fosse a conoscenza di quello che faceva la sinistra. E poi Marisol era stata presente, aveva visto come erano andate esattamente le cose ed era anche lei coinvolta nella vicenda.

Con il padre invece era diverso. Aida lo amava e lo rispettava, aveva sempre desiderato fargli fare bella figura e renderlo orgoglioso di lei. Ora invece lo aveva deluso nel peggiore dei modi possibili. Lo aveva ferito, pugnalandolo dritto al cuore e lei non poteva sopportare di vedere il suo sguardo posarsi su di lei. Temeva di scorgere odio e disgusto dove prima c'erano stati solo affetto e fiducia. Lui era stato uno dei primi a sapere cos'era successo ed era stato lui a ordinare di tenerlo segreto. Non l'aveva denunciata per proteggerla o per proteggere se stesso dalla vergogna di avere generato un mostro?

La maniglia si abbassò, ma Aida aveva chiuso la porta a chiave.

«Aida, apri» ordinò lui, per poi aggiungere «per favore».

Non si erano ancora parlati da quel giorno, non ne avevano avuto il tempo. Ora però la cerimonia di addio era stata fatta, la cassa di specchi era stata portata nel mausoleo sotto al Santuario e lui era venuto a cercarla.

Per disconoscerla, dirle quanto si vergognava di lei e chiuderla per sempre in una stanza come Beltran. Aida sperava almeno che la mettessero insieme a Beltran.

«Aida» la chiamò di nuovo, con tono più basso e più carezzevole. «Ti prego, apri.»

Aida rimase in silenzio, seduta in terra con le spalle appoggiate alla porta. Non voleva sentire cosa lui aveva da dirle e da parte sua non aveva da dire niente. Appoggiò il capo sulle braccia intrecciate sopra le ginocchia.

«Sei arrabbiata con me?»

La ragazza alzò la testa di scatto. Arrabbiata con lui? Come gli era potuto venire in mente?

Lo sentì sospirare, poi la porta vibrò. Probabilmente vi si era appoggiato anche lui.

«Non nasconderti. So che stai male. Tutti stiamo male, ma dobbiamo aiutarci l'uno l'altro per andare avanti. Capisci? Non possiamo farcela da soli.»

Aida avrebbe voluto gridargli tante cose. Che loro stavano male perché avevano perso una persona amata, ma lei non stava semplicemente male: lei era divorata da una bestia che viveva nelle sue viscere e la faceva a pezzi dall'interno. Quella bestia si chiamava senso di colpa. Quindi no, non potevano consolarsi a vicenda perché nella loro sofferenza c'era qualcosa di nobile mentre lei era sporca e nulla poteva consolarla. E poi come avrebbe potuto farsi consolare da chi soffriva per causa sua?

«Ti voglio bene, Aida» mormorò il padre e la ragazza provò in petto un dolore acuto che la fece scoppiare a piangere. Erano singhiozzi rumorosi, ma più cercava di trattenerli più questi uscivano dal suo petto incontrollati.

«Ti voglio bene» ripeté lui. «Sono arrabbiato, ma non con te, perché non avrebbe alcun senso. Sono arrabbiato con la vita e con me stesso per non avervi mai insegnato a usare quelle armi. Ai figli maschi si insegna, perché alle ragazze no? Se tu avessi conosciuto quell'arma a polvere avresti saputo che era carica e non l'avresti usata per il vostro spettacolo. Non avresti sparato. So per certo che non lo avresti fatto.»

Le parole del padre le arrivavano confuse tra i singhiozzi, tanto che la ragazza temette di aver sentito male. Trovava assurdo che si sentisse in colpa.

«Voglio aiutarti, ma non posso se tu ti nascondi.»

Per un folle istante Aida immaginò di aprire la porta e buttarsi tra le braccia del padre come faceva da bambina. Voleva smettere di pensare, voleva che qualcuno le accarezzasse i capelli e le dicesse che andava tutto bene, che ogni cosa si sarebbe sistemata, anche se non era vero. Voleva che le mentisse e che lo facesse in modo convincente come solo qualcuno che ti ama riesce a fare. Voleva solo poterci credere.

Ma non aprì la porta e continuò a piangere. Il padre rimase a parlarle a lungo, senza ricevere risposta. A un certo punto della mattinata qualcuno venne a chiamarlo per un incontro con i vertici dell'esercito, ma lui lo scacciò bruscamente: aveva una cosa più importante da fare.

Niente però riuscì a far uscire Aida dal bagno.

A un certo punto il padre fu costretto ad andarsene, ma le promise che sarebbe tornato in serata. E così fece.

Aida e Marisol erano andate da Beltran, che si dondolava in un angolo della stanza, le braccia strette intorno alle gambe o le sguardo fisso davanti a sé. Ogni tanto mormorava qualcosa ma nessuno riusciva a capire cosa.

Marisol si era inginocchiata accanto a lui e gli accarezzava la schiena, mentre Aida stava seduta su un divano dalla parte opposta del salotto e guardava la scena come ne fosse del tutto estranea. Beltran era migliorato negli ultimi anni – ormai era tanto che non si comportava più così – ma quello che aveva visto lo aveva fatto chiudere nuovamente nel suo mondo inaccessibile. Più lo guardava, più le faceva strano vedere quel ragazzo alto e allampanato riprendere i comportamenti che aveva quando era alto la metà, era come se la stanza si fosse ristretta, diventando fuori formato. Era estraniante.

Aida avrebbe voluto abbracciarlo, ma sentiva di non averne il diritto e quindi restava seduta dritta e rigida a guardare i suoi fratelli come se tra di loro ci fosse un fiume largo e profondo, che lei non poteva attraversare.

Quando il padre entrò si fermò un attimo sull'uscio, poi si accomodò accanto ad Aida, facendo sprofondare i cuscini. Pur non volendolo, Aida si inclinò nella sua direzione. Le loro braccia si sfiorarono e lei si allontanò subito, come se si fosse bruciata.

Rimasero qualche istante in silenzio a guardare Beltran e Marisol, mentre Marisol guardava loro. Aida sapeva che il padre avrebbe voluto fare qualcosa per Beltran, ma per qualche motivo il ragazzo non si era mai fatto toccare da lui e l'uomo sapeva che non era una buona idea riprovarci in quel momento.

«Aida» disse infine il padre. Poi esitò, come se non sapesse come continuare. Probabilmente stava cercando le parole giuste per non farla scappare a rinchiudersi di nuovo da qualche parte.

Aida lo guardò con la coda dell'occhio. Suo padre le aveva sempre voluto bene, ma lo dimostrava in un modo più contenuto e austero rispetto alla madre. Ora avrebbe dovuto assumere il ruolo di entrambi.

Non continuò la frase e non cercò di abbracciarla. Rimase solo seduto accanto a lei e Aida gliene fu grata.

Nei giorni successivi, nonostante gli impegni che il ruolo di Principe gli imponeva, riuscì a trovare sempre alcuni momenti da passare con i figli. Aida e Marisol erano da sempre inseparabili, ma ora passavano letteralmente tutto il tempo insieme, notte e dì. Dormivano e mangiavano insieme, e il resto della giornata stavano semplicemente sedute da qualche parte, una accanto all'altra.

Aida non sapeva cosa girasse per la testa di Marisol. Quello che sapeva era che lei non aveva voglia di fare nulla. Passava ogni istante a lottare per non soccombere al proprio dolore e non le restava energia per fare nient'altro. D'altra parte, non ne vedeva il senso. Era meglio stare lì ad aspettare che il giorno passasse, aspettando il successivo, che sarebbe trascorso in modo identico. E nel suo non fare niente continuava a ripensare lo stesso pensiero morboso e più ci pensava più le faceva male, ma era inevitabile, non riusciva a concentrarsi su niente che non fosse quello.

Per una settimana le ragazze furono esentate dalle loro lezioni, poi il padre decise che era meglio che riprendessero e così fecero. Mentre prima Aida si era sempre dedicata allo studio perché lo riteneva importante, ora lo faceva solo perché così volevano gli altri. Dopo pochi giorni si accorse però che cercare di capire questioni economiche e politiche le teneva la mente impegnata e più l'argomento era difficile più il suo cervello riusciva a staccarsi dai suoi pensieri morbosi, dandole qualche attimo di pace.

Cominciò ad aspettare con ansia le sue lezioni e a chiederne di supplementari, e quando il padre si rifiutò di aggiungerle un'ora di mitologia nordica dopo cena Aida cominciò a imparare da autodidatta quello che nessuno voleva insegnarle. Si riempiva la mente di informazioni, cercando di non lasciare nemmeno un sottile spazio per i ricordi. Studiare era il solo metodo che aveva per non pensare e cominciò ad abusarne.

Smise di leggere romanzi e non scrisse più nemmeno una riga.

Marisol un po' studiava con lei, ma non riusciva a tenere i suoi ritmi e spesso si addormentava nella poltrona accanto alla sorella. Aida si accorse che ora Marisol dormiva un sacco, molto più di quanto avesse mai fatto, come se riuscisse a trovare nel sonno quello che Aida trovava nello studio.

«Nei sogni la mamma è viva» le aveva rivelato una volta. «Ed è come se non fosse mai accaduto niente. Vorrei non svegliarmi mai.»

Nei sogni di Aida invece Xiana non c'era mai. Erano pieni della sua assenza. Non la vedeva mai morire, semplicemente non c'era. Sognava momenti della loro vita quotidiana e tutti si comportavano normalmente, come se lei non fosse mai esistita e Aida non riusciva a sopportarlo. Avrebbe pagato tutto l'oro di Domhan Ekte per poter avere i sogni di Marisol.

Una sera era seduta in biblioteca con in grembo un vecchio volume sulla politica delle isole del nord prima dell'inizio della dinastia Delmar, quando Esteban entrò nella stanza. Lanciò un'occhiata a Marisol, addormentata sul divano poco distante, e si sedette accanto ad Aida.

Sul tavolino di marmo davanti ai divani era posata una lampada a gas che diffondeva una luce giallastra nella stanza, inondando il volto di Esteban di ombre.

Ogni volta che lo vedeva, Aida si ricordava confusamente che era arrabbiata con lui per via di quello che aveva visto quella notte nel salotto di sua madre, ma pensarci voleva dire ricordare anche che quella era stata l'ultima volta che aveva visto Xiana viva e Aida preferiva non farlo. La sua mente cercava di cancellare quella notte come se non fosse mai esistita e in fondo quello che aveva visto e sentito non aveva più alcuna importanza.

«È tardissimo» mormorò Esteban sottovoce, per non svegliare Marisol. «Perché non vai a dormire?»

«Non ho sonno» rispose Aida senza staccare gli occhi dalle pagine.

La ragazza pensava che Esteban avrebbe insistito, invece lui disse: «Ti va di parlare con me?»

Aida lo guardò. «Di cosa?»

«Di quello che vuoi. Di quello che stai leggendo, per esempio. O del perché lo stai leggendo.»

La ragazza sollevo il libro in modo da mostrargli la copertina. Non aveva nessuna voglia di parlare e sperava che quel gesto gli bastasse.

«Penso che siano almeno due secoli che nessuno legge questo volume.»

Aida si strinse nelle spalle.

«È interessante?»

«Io lo trovo interessante.»

«Tuo padre pensa che tu studi troppo.»

«Anche tu lo pensi.»

«Vero, anch'io lo penso. Tutti lo pensiamo e siamo preoccupati per te.»

Avete paura che il mostro dentro di me si faccia vedere di nuovo, pensò, ma non lo disse. Esteban era uno dei pochi che sapeva.

«Capisco che stai male e che ti senti in colpa. Vorrei poterti aiutare, ma non so come.» Esteban sospirò. «Oggi sono stato al mausoleo e ho parlato con lei.»

«Hai parlato da solo.»

«Forse. Voglio però credere che da qualche parte lei mi abbia ascoltato. Le ho parlato di te e di Marisol e di Beltran.»

«Perché?»

«Perché è quello che lei avrei detto se fosse stata ancora qui.»

«Se fosse stata qui non avresti avuto bisogno di dirle queste cose.»

«Non queste, ma di voi parlavamo. Ho solo pensato che continuare a parlarle, anche senza ricevere risposta, fosse meglio che fingere che non sia mai esistita. Mi ha fatto bene sfogarmi.»

«Mi stai dicendo che dovrei farlo anch'io?»

«No, se non vuoi. Quello che voglio dire è che parlare con qualcuno di ciò che ci tormenta aiuta. Se non vuoi farlo con noi puoi sempre farlo con lei.»

«Quello che dici non ha senso. Lei è...» Un nodo stretto alla gola le impedì di proseguire.

Esteban sospirò, ma non aggiunse altro. Rimasero in silenzio per un po', seduti vicini, e Aida si era quasi decisa ad andare avanti a leggere quando infine lui poggiò le mani sulle ginocchia e si alzò.

«Accompagno Marisol a dormire. Dovresti andare a letto anche tu.»

«Sì, finisco il capitolo e vado.»

Esteban sospirò di nuovo, come se sapesse che stava mentendo. Poi si chinò su Marisol e la scosse piano per una spalla. Lei bofonchiò qualcosa e si passò una mano sul viso, spettinandosi la frangetta già spettinata. Poi, senza essersi svegliata davvero, si alzò e si lasciò guidare da Esteban fuori dalla stanza.

Aida guardò la porta richiudersi alle loro spalle e poi riportò lo sguardo sul libro. Finì il capitolo e stava per iniziarne un altro, ma il pensiero intrusivo che le girava nella testa fin da quando Esteban l'aveva lasciata sola le fece chiudere il libro.

Se fosse davvero andata al mausoleo, cosa sarebbe successo? Si sarebbe sentita meglio o peggio? Fino a quel momento lo aveva accuratamente evitato perché aveva paura: di cosa esattamente non lo sapeva nemmeno lei. Quello che sapeva era che il pensiero di trovarsi davanti alla tomba della madre le faceva venire voglia di piangere fino a rimanere del tutto prosciugata.

Si alzò e uscì dalla biblioteca. Si guardò intorno: non voleva che qualcuno la vedesse, come se stesse facendo qualcosa di proibito anche se proibito non lo era affatto.

Nel seminterrato c'era una porta che conduceva direttamente dal castello alla cripta, lo sapeva perché tutti gli anni, nel giorno della loro morte, il padre l'aveva portata a fare visita ai nonni. Conosceva bene la strada e la imboccò dapprima spedita, poi sempre più lentamente. Più si avvicinava più le pareva che quello che stava facendo non aveva alcun senso. Cosa sperava di ottenere? La redenzione? Sua madre ormai era... non c'era più e mai avrebbe potuto perdonarla.

Nessuno la fermò, come sempre quando camminava per il castello, ma questa volta si sentì una sopravvissuta, quasi avesse attraversato una palude piena di insidie e ne fosse uscita sana e salva. La porta era chiusa a chiave, ma Aida – così come i suoi genitori e Marisol – possedeva un passepartout che le permetteva di entrare ovunque. La serratura si sbloccò con un rumore metallico.

Aida scivolò dentro in silenzio, come se temesse di dare fastidio ai morti, e trattenne il respiro. All'interno del mausoleo vi erano sempre accese alcune lampade a gas in modo che fosse perennemente illuminato, sia di giorno che di notte, quando nessuna luce penetrava dalle finestre in alto sulle pareti. Il resto dell'enorme stanza era rivestito di specchi – sui muri, sul pavimento e perfino sul soffitto. A spezzare l'infinito gioco di riflessi vi erano solo le strutture in marmo delle tombe dei ventitré Principi e Principesse che avevano preceduto suo padre nel governo di Portonovo. Accanto a ciascuno di loro vi era un'altra tomba rivestita di specchi in cui riposava il loro consorte e, vicino a queste, altre tombe più piccole per gli altri parenti di sangue.

Aida sapeva che, se avesse girato lo sguardo a destra, avrebbe visto una tomba di specchi solitaria. Se si fosse avvicinata e avesse alzato lo sguardo avrebbe letto, in mezzo a una complicata decorazione di vetro di fiori e farfalle, il nome Xiana Delmar e, sotto di esso, le parole "ventiquattresima consorte divina" affiancato da due date "517 a.D. – 561 a.D.".

Avrebbe visto questo, se si fosse mossa, ma Aida era paralizzata appena oltre l'uscio. Intorno a lei mille altre Aida la guardavano, a loro volta immobili e con un'espressione di orrore sul volto. La ragazza vedeva la sua figura riflettersi in un infinito gioco di rimandi e ogni Aida non faceva altro che ricordarle chi era e cosa aveva fatto. Ogni riflesso era un'accusa, un dito puntato contro di lei a gridare in silenzio "colpevole!".

Aida sentì una morsa stringerle il petto e le venne caldo e freddo contemporaneamente. Aveva bisogno di aria, che in quello spazio reso infinito dagli specchi sembrava mancare.

Fece lentamente un giro su se stessa. Sapeva che il mausoleo aveva un altro ingresso, che portava direttamente su una grande terrazza esterna. Si diresse verso la porta boccheggiando, con la sensazione di muoversi nel miele. I polmoni sempre più stretti le impedivano di respirare. Fece cadere la chiave due volte mentre cercava di infilarla nella serratura, ma finalmente riuscì ad aprire e si precipitò sulla terrazza.

Si allontanò il più possibile dagli edifici fino a raggiungere il parapetto di marmo dalla parte opposta. Vi si appoggiò con entrambe le mani e forzò i suoi polmoni ad aprirsi e a incamerare l'aria.

Inspirò ed espirò, a occhi chiusi.

Lo fece più volte fino a sentire la morsa che le attanagliava le viscere allentarsi, poi aprì gli occhi. Il terrazzo affacciava a nord e lì, sulla sommità della Gemma, riusciva scorgere le terre del principato fino alle montagne che tracciavano il confine con Kozan. Due falci di luna – calante per Lite-Lys e crescente per Flott-Lys – illuminavano le infinte pianure che separavano il Castello dalle aguzze cime rocciose all'orizzonte.

Inspirò ed espirò.

I granelli del marmo le si conficcavano nella pelle delicata dei palmi, ma Aida non si mosse.

Inspirò ed espirò. In quel momento non era in grado di fare nient'altro.

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