26 - Fuoco incrociato
Mancano davvero pochi giorni alla pubblicazione, quindi vi facciamo un regalino, un altro capitolo, sbrigatevi a leggerlo perchè poi sparirà!
Baci.
Noy
S. passò una mano tra i capelli sciolti di Kay, lunghi e neri, gli scendevano sulla schiena, incurvata all’insù dalla posizione restrittiva. «Bentornato tra noi», mormorò. Erano setosi, gli scivolavano tra le dita e avrebbe potuto stare ore ad accarezzarli, ipnotizzato dalle forme che prendevano e dai colori con cui la luce giocava tra di essi.
Kay farfugliò qualcosa, impedito dalla ball gag, scosse la testa e i capelli gli caddero dalle dita, dimenò le gambe e le braccia, bloccate dalle polsiere e dalle cavigliere, che cigolarono appena.
«Sì, alla fine ti ho legato e imbavagliato lo stesso.» S. fece scorrere le ginocchia sul lenzuolo di cotone bianco e toccò le giunzioni di metallo tra i quattro arti, in alto, sopra alla schiena di Kay. «Ma che bel maialino allo spiedo che abbiamo…» sogghignò tra sé e sé, non c’era nessuno che avrebbe potuto apprezzare la battuta. Certo non il maialino.
Avrebbe potuto chiamare Kay così.
«Che ne dici se ti chiamo maialino? Porcellino?»
Il sub si agitò di nuovo e farfugliò qualcosa, fili di bava scesero dai lati della pallina rossa.
«Non dovresti parlare, lo sai che poi è peggio», S. sospirò, certi sottomessi non imparavano mai. «Che cosa potrei farti? Che cosa potrei farti…»
Aveva la mente vuota. Non c’era un solo pensiero, una sola idea, immagine, desiderio che la attraversasse. Non su cosa avrebbe potuto fare a Kay, almeno. Lo aveva lì, a disposizione, proprio come aveva desiderato da quando lo aveva visto entrare al Confessionale qualche settimana prima, e non sapeva cosa farne.
A parte accarezzargli i capelli.
Non si era nemmeno svestito, perché era moscio come quando ascoltava i discorsi dei politici, e non era il caso di metterlo in bella vista. A Kay aveva tolto solo la giacca e il papillon e non certo perché non aveva avuto il suo consenso a spogliarlo. No. Perché gli era salita la nausea e non gli era ancora passata. Si massaggiò la pancia e scivolò giù dal letto.
C’erano un sacco di cose che avrebbe potuto fargli, perché non gliene veniva in mente nemmeno mezza? Cazzo.
Kay aveva smesso di muoversi e lo fissava con le sopracciglia corrugate. Era perplesso, forse preoccupato? Difficile da dire con la faccia deformata dalla pallina.
Un filo di nervosismo gli incrinò la voce. «Cosa?» S. gli slacciò la fibbia della gag e gli liberò la bocca. «Su, parla, avanti!»
Il sub tossicchiò e si schiarì la gola. «Che succede?»
S. sbatté la cinghia di cuoio del bavaglio sul letto, a mezzo centimetro dal suo volto e lo fece trasalire. «Non so di che parli.» Convincente quanto un bambino che dice che non vuole niente per Natale. Ma la reazione di Kay era stata deliziosa. Sbatté di nuovo la cinghia sul letto, dall’altro lato del suo viso e lo fece trasalire ancora. «Beh? Abbiamo perso la lingua?»
Kay chiuse gli occhi e si prese qualche istante per respirare. Era il momento di approfittarne, aveva le difese abbassate, era ancora più vulnerabile!
Per l’amor di Dio, doveva fare qualcosa!
Una fitta gli serrò lo stomaco e la nausea gli risalì la gola, che si strinse in un conato a vuoto. S. si voltò, portandosi una mano davanti alla bocca, e gli diede le spalle. La schiena era coperta da brividi urticanti che gli risalirono fin sulla testa.
«S.» il tono di Kay era morbido e fastidioso. Che aveva da essere così dolce? «Tutto bene?»
Samuel si grattò la testa, si sarebbe volentieri strappato la pelle di dosso, se fosse servito a qualcosa. «Sì, tutto bene!» Si voltò di nuovo verso di lui. «Tutti a chiedermi se va tutto bene. Non mi vedete? Non vi sembro normale?» Lanciò la ball gag per terra, aveva bisogno di spaccare qualcosa. Magari la sua faccia?
«No.»
La testa di Samuel scattò verso il viso del sub. «No cosa?»
«Non mi sembri normale.»
Come osava parlargli così? Un altro conato gli risalì la gola, perché non la rabbia, invece? Si coprì la bocca e chiuse gli occhi, serrò gli addominali e lo represse. «Non è il modo di rivolgersi a me» borbottò, fiacco.
«Dom, stai male?»
Quanta preoccupazione!
«Vorrei che la gente smettesse di farmi questa domanda e di impicciarsi degli affari miei.» Samuel si accasciò sul materasso e si prese la testa tra le mani. Che aveva?
«Forse siamo preoccupati per te…»
«Sì? E che ti frega di come sto?» sibilò Samuel, tagliente. «Solo perché non performo più? Si è rotto il giochino, è questo che pensate?»
Kay spalancò gli occhi e scosse la testa. «No, ma che dici?» Era ridicolo, legato con le gambe e le braccia all’insù, vestito di tutto punto, e con un’espressione di apprensione sul bel viso. Era sbagliato, avrebbe dovuto essere in preda alle convulsioni dell’orgasmo, mentre gridava di essere risparmiato.
Samuel allungò una mano, sciolse il gancio che teneva legate insieme le cavigliere e le polsiere e lo liberò. «Puoi andare, la serata è finita.»
Era stanco. Stanco di dover mettere su la maschera dell’essere perfetto, superiore, intoccabile. Stanco di essere visto, di dover rispondere alle richieste di tutti. Voleva solo andare a nascondersi in un buco da qualche parte e non risalire più in superficie.
Il materasso si mosse e si flesse dietro la sua schiena, le mani di Kay, grandi e pesanti, gli si posarono sulle spalle. «Samu, ma che cazzo dici?» Gliele iniziarono a massaggiare, le dita gli strinsero i muscoli, tesi. «Si può sapere che hai, per favore?»
Avrebbe voluto dirgli di smettere, ma tanto non gli avrebbe dato retta. A ogni movimento delle dita spasimi di dolore si diramavano per tutto il corpo. Si meritava il supplizio.
«Samuel?» Kay smise di massaggiarlo e gli appoggiò soltanto le mani sulle spalle.
«Che c’è?»
«Mi puoi rispondere, per favore?» L’amico mise le gambe attorno a lui, gli premette le mani sul torace e lo fece aderire all’indietro contro il suo petto.
«Ti ho detto di andare.»
Perché il corpo di Kay era così caldo e avvolgente? Perché avrebbe voluto rannicchiarsi tra le sue braccia e addormentarsi?
Che cos’era diventato?
«E a quanto pare non ti ho dato ascolto. Ora, ti prego, rispondi alle mie domande.» Kay gli circondò il corpo con le braccia e strinse, gli posò le labbra sul collo e gli lasciò un bacio, leggerissimo. «Perché non dovrebbe fregarmene di come stai?»
Era difficile dare risposte caustiche quando qualcuno gli faceva le coccole, ma anni e anni di esperienza dovevano pur valere a qualcosa. E Samuel era un professionista della stronzaggine e del mantenere le persone a distanza. «Perché ci conosciamo a malapena.» Mosse le spalle e si allontanò dal suo petto. «E so che fai finta di interessarti solo perché vuoi fare sesso.»
Kay allentò la presa dell’abbraccio, ma non lo lasciò andare. «Quindi non potrei essere genuinamente interessato a come stai, perché ci conosciamo poco e voglio solo fare sesso. Capito.» Gli strusciò la punta del naso sul collo. «Non perché magari mi piaci.»
Cosa c’era da “piacere”? Era un ammasso di nevrosi, caratteraccio, supponenza, arroganza. L’unico motivo per sopportare la sua presenza era il bel visino, il corpo tenuto a regime e per il sesso.
Samuel si divincolò e gli fece sciogliere l’abbraccio. «No, è per quello che ho detto io.» Strusciò in avanti con il culo e si voltò verso di lui. «Sai come faccio a saperlo?»
Kay appoggiò le mani al materasso e sospirò. «Dimmelo, sentiamo.»
Avrebbe dovuto prenderlo a pugni quando ne aveva avuto l’opportunità. «Perché», Samuel incurvò le labbra in un sorriso freddo, «non mi si alza più e l’idea di fare sesso con qualcuno mi dà il voltastomaco. Letteralmente.»
Kay gli avrebbe risposto: “Ok, allora, ciao, ciao, ci vediamo!”
«Mh…» lo sguardo del master gli percorse il corpo, dalla testa fino ai fianchi, e tornò sul viso. «No, mi piaci ancora lo stesso.»
«Certo!» Samuel si alzò in piedi, sbracciandosi, «perché tanto basta che mi metti a pecora, che cazzo te ne frega?»
«Non ho detto…» Kay si sporse verso di lui. «Non ho detto che mi interessi per il sesso e basta.»
Samuel sollevò gli occhi al soffitto. «No, certo, ma perché sono carino. Se fossi un cesso, col cazzo che saresti ancora qui a perdere tempo.»
«E questa da dove esce, ora?»
«Senti, Kay, mi sono stancato. Prendi le tue cose e vai via.» Samuel si avviò verso la sedia su cui aveva posato la giacca, unico indumento che si era tolto.
Senza una parola, Kay si rivestì. Samuel poteva leggergli l’espressione di delusione che aveva in faccia. Forse gli faceva anche pena. Il Dom a cui non gli tira più il cazzo. Afferrò il cilindro e il bastone e uscì dalla stanza, un peso fastidioso gli premeva sul petto e si ingrossava al passare di ogni secondo.
***
Samuel rilesse la mail appena arrivata sullo smartphone: Sono aperti i provini.
Sarebbe stata la sua occasione!
Il 14 dicembre alle due del pomeriggio. Meglio appuntarselo subito sull’agenda.
La porta d’ingresso della sala di registrazione si spalancò, una folata fredda gli avvolse le gambe e il viso, ma era niente rispetto all’espressione dipinta dul viso di Lù: gelo e furore.
Lo stomaco e le palle gli si rimpicciolirono, diventarono non più grandi di un granello si sabbia.
La domme marciò verso di lui e Samuel si raggrinzì sui divanetti. Come aveva fatto a trovarlo? E lo avrebbe ucciso subito o dopo lunghe torture?
Lù si fermò e gli appiccicò lo schermo del suo telefono davanti alla faccia. «Che cosa sarebbe questo?»
«Uno Xiaomi, credo.»
«Che ridere!» Lù glielo avvicinò ancora di più al viso, la luce bianca lo accecava. «Il messaggio che mi hai mandato, che cosa significa?»
«Beh», Samuel le posò una mano sul telefono e lo allontanò, «chiaramente l’opposto di quello che ti ho scritto, visto che sei qui.»
Lù si infilò il cellulare nel cappotto e inclinò la testa di lato. «Mi hai davvero dato buca? Mi stai seriamente dicendo che mi hai dato buca e non ti vuoi nemmeno scusare?»
Samuel si alzò in piedi e si lisciò la giacca e i pantaloni. «Mi sono scusato, nel messaggio in cui ti dicevo che non riuscivo a venire a-»
«Samuel», la voce di Lù riverberava tutta l’autorità che di solito limitava al dungeon, «non mi prendere per il culo.»
Era più bassa di lui di una trentina di centimetri buoni, eppure pareva che lo sovrastasse.
«Avresti potuto dirmi che non volevi prendere un caffè con me, invece di inventarti un altro impegno.»
Samuel allargò le narici, le aveva dato abbastanza spazio per sfogarsi, era il caso di farle ritrarre e calare l’energia. Abbassò il tono della voce e lo svuotò di ogni emozione. «Qualunque cosa ti avessi scritto, ti saresti incazzata e mi saresti venuta a cercare.» Avanzò di un passo e la costrinse ad arretrare. «Perché non ti entra in testa che non ne voglio parlare?»
Lù deglutì e spostò il peso in avanti verso di lui, ma senza muoversi. Ci voleva ben altro per intimidirla, ma ameno si era calmata. «Perché non ne vuoi parlare? Sono preoccupata. Edoardo è preoccupat-»
«E basta!» Samuel gettò le braccia al cielo e avanzò verso di lei, che si spostò di lato. La cosa terribile è che non stava urlando, ma spingeva la voce in avanti come un’arma e dava stilettate decise a chiunque fosse nel raggio d’azione, in questo caso Lù e Sara, la segretaria, dietro al banco della reception. «Avete rotto il cazzo!» Procedette a passo marziale verso la porta. «Non voglio più sentire domande su come sto, cosa ho che non va, che cosa mi succede. Ok? Basta.»
Sara tremava, aveva le braccia appiccicate al petto e gli occhi spalancati e lo seguiva con lo sguardo come un cerbiatto seguirebbe i fari dell’automobile pregando di essere risparmiato. Era fortunata, non gli interessava colpirla in alcun modo, era solo stata vittima del fuoco incrociato con la domme – a cui ci voleva ben più di un urlo per spaventarla.
Samuel si fermò davanti al bancone e si sporse verso la ragazza. «Vedi perché ti ho detto di no a un appuntamento? Lo capisci ora?»
La pupilla della poverina era grande come un piattino da caffè, annuì freneticamente e si ritrasse sulla sedia.
«Ok, bene che lo abbiamo chiarito del tutto.» Samuel batté due volte le dita sul legno lucido e si voltò verso la porta.
Era un vero peccato, però, perché i capelli lunghi e neri di Sara gli ricordavano quelli di Kay e non gli sarebbe dispiaciuto vederli sparsi su un cuscino mentre la inforcava. Ah, già, se solo fosse riuscito a farselo venire duro.
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