Il suo nome è Isabella
Autore: hikoshiki
Pacchetto: Fantasmi – Dolcetto! Il nome della ragazza è "Isabella".
Quello è un incrocio maledetto: ogni notte, a quell'ora, una donna bionda si manifesta a chi svolta a quell'angolo. La polizia non sa chi sia e nessuno al paesello corrisponde a quella descrizione.
I piedini piccoli e pallidi salirono in fretta la vecchia scala scricchiolante. Aveva corso su e giù così tante volte, in pieno buio, che ne conosceva ogni singola piega del legno o assicella rialzata, un pericolo che avrebbe potuto costarle caro se, nel suo precipitarvisi, vi avesse inciampato contro. Immaginava la pelle sollevata delle dita che avrebbe stretto fra le mani biancastre, il fiotto di sangue silenzioso che inondava e copriva le schegge di legno conficcate nella carne tenera. Al sol pensiero rabbrividiva. Ma lei era astuta e di tutti i pomeriggi passati a studiare quelle travi ne aveva ricavato un piccolo tesoro.
Quando giunse al solaio, si diresse dritta dritta sotto la finestra e, con il nasino roseo poggiato sul davanzale, si tenne bassa e rimase a osservare.
Nei suo i occhi neri, come se vi fossero entrate nelle iridi, le nuvole della notte si muovevano quiete, appannate dalla leggera foschia che, quando il vecchio orologio scoccava le ventitré, iniziava a farsi strada tra i vicoli deserti e i ciottoli sbilenchi di quel paesino semi-sconosciuto. Lei si faceva trovarelì, sempre puntuale, trepidante, pronta a scoprire cosa quella notte le avrebbe servato.
Le strade erano deserte. Solo la macchina della polizia, durante la ronda, viaggiava in tondo ma a sirene spente e silenziosa, così da non svegliare i cittadini che erano riusciti a prendere sonno.Tant'è che, malgrado tutti erano soliti andare a letto molto presto, pochi di loro riuscivano a chiudere occhio o a dormire quieti.
Da settimane, ormai, dei mormorii preoccupati balzavano fra le loro bocche; si limitavano a sussurrare quelle parole, quasi un grande orecchio potesse sentirli e condannarli a morte; facevano finta di non sapere, di non sentire l'inquietudine divenuta come un grosso spillo nel materasso sulla quale era diventato impossibile trascorrere delle ore, consapevoli che, là fuori, stava per accadere qualcosa di terribile.
Non c'era locanda o luogo di ritrovo o casa di cui non si discutesse dello strano morbo che si stava diffondendo, e i pochi che ne parlavano riuscivano a farlo solo perché l'orrore di quanto avvenuto non aveva ancora toccato un proprio familiare o, peggio ancora, se stessi.
Era la medesima lena ripetuta anche a chi, la storia, la conosceva già. Partiva tutto da quell'angolo da cui il povero disgraziato di turno passava o vi si imbatteva per caso. Questo accadeva puntualmente quando la lancetta piccola segnava le ventitré e quella più lunga si approssimava al due. La nebbia calava e si infittiva, il viandante o lo sventurato di passaggio arrivava a perdere la cognizione e l'orientamento, si confondeva e magari provava a camminare in tondo, senza mai pervenire in alcun dove. Qualcuno aveva tentato a urlare, ma chi abitava nei dintorni non aveva sentito alcunché; nemmeno i poliziotti di ronda che avevano passato delle notti intere appostati di fronte quell'angolo avevano potuto riportare novità.
Ciò che accadeva al povero disgraziato, perché il caso volle che fossero sempre giovani uomini a imbattersi in quell'inferno, era difficile da raccontare senza che le proprie mani prendessero ad avere spasmi nervosi e la bocca si inaridisse.
Avveniva che, passando da lì, nella nebbia, due labbra rosee si avvicinavano all'orecchio dell'uomo e vi sussurravano qualcosa che nessuno di questi, quando sopravvissuti, riusciva a descrivere. Erano parole che, come un artiglio, colpivano le viscere, le afferravano e le strappavano via da un corpo ormai esanime. Ipnotizzati, gli uomini continuavano ad ascoltare cosa la nebbia volesse sussurrargli e quando delle ciocche di capelli biondi ne solleticavano il viso, loro sorridevano come se non capissero nulla di cos'è che stesse accadendo.
Quando al mattino dopo i passanti li ritrovavano dall'altra parte della città o, addirittura, in altre città, dopo le segnalazioni della polizia locale, quegli uomini non erano più gli stessi. Ridevano sadici con ancora le mani sporche di sangue, ma nessun omicidio poteva essere loro imputato ed era sconosciuta la fonte di tutto quel sangue che li ricopriva. Dondolavano avanti e indietro eblateravano roba a caso; tutti, nessun escluso: che fossero braccianti, avvocati, giovani medici o futuri scienziati, rimbambivano fino a ridursi a folli meschini, storditi, instupiditi, nessuno che ricordasse chi fosse il giorno prima. Nessuno che ricordasse il proprio nome o riconoscesse la propria madre. Nessuno che, alle ventitré in punto, non iniziasse a raccontare la stessa storia, con le medesime parole. La piccola le aveva sentite per caso da un ragazzo che si era strappato con le mai i capelli e blaterava da solo, alle ventitré, passando sotto la sua finestra, gli occhi fissi su quell'angolo che entrambi avevano di fronte.
Diceva:
«Nessuno ha mai visto l'inferno. Io l'ho visto, dovete credermi, e me ne sono innamorato. L'inferno ha due occhi limpidi e luccicanti come stelle nella notte, ha una bocca bella da baciare fino a consumare la propria, capelli morbidi nella quale le dita si deteriorano a furia di accarezzarli.L'inferno è meraviglioso. Il mio dio è perfezione, questo è il suo nome: Isabella. Chi la venera, porta il suo nome. Non saprete mai cos'è il piacere e cos'è lo stupore finché non vi sarete imbattuti in lei. E nessuno dica di conoscere creatura che possa equipararla in candore e bellezza, perché Isabella è l'inferno, e in lei trovo pace. Isabella! Che il suo nome consumi la mia bocca! Isabella, che possiate osannarla e mandare alle fiamme coloro che si rifiuteranno di farlo! Isabella! Che il sangue delle vostre madri venga sacrificato a lei e che gli occhi dei vostri padri si consumino come i miei, accecati dall'essere sublime che è. Isabella. La mia pazzia è amore, il mio blaterare pura venerazione! E maledirò chiunque pensi che sia matto a urlare il tuo nome, Isabella! Che mi brucino vivo, che mi sacrifichino per te che sei Paradiso e Inferno, che le mie parole siano il canto della tua voce. Guardami mentre il mio corpo si consuma al sol pronunciare il tuo nome! L'ardore che ho per te, Isabella, mi condurrà alla follia. E anche lì ti glorificherò!»
Era rimasta lì, con le orecchie tese e gli occhietti sgranati e increduli. L'aveva visto arrampicarsi su per i balconi di un palazzo di fronte e, da un terzo piano, si era lasciato schiantare al suolo. Il suo corpo era rimasto in quell'angolo per ore, fino al ritrovo dei poliziotti. Lui era stato il primo. Nessuno l'aveva detto, ma lei lo sentiva, in cuor suo. Quel giorno in cui l'intero paese aveva notato che qualcosa non quadrava, che stava accadendo uno strano avvenimento che ne avrebbe richiamati altri e altri ancora, e così era accaduto. In molti dei ragazzi che si erano imbattuti in Isabella facevano di tutto per tornare in quell'angolo e decantare le stesse parole. Con l'aiuto della polizia avevano iniziato a prenderli in tempo, prima che si suicidassero, ma non per questo si erano arresi.
Una scena, vivida come non mai, si era impressa nei suoi occhi insieme a quelle nuvole. Ancora una volta aveva salito le scale di corsa e, ancora una volta, si era accucciata dietro il vetro della finestra in attesa. In un attimo la nebbia aveva già iniziato a fare il proprio decorso. La scena si era svolta seguendo sempre lo stesso copione ma, alla fine di questa, l'uomo non era stato trascinato via. Si era fermato e aveva sollevato gli occhi, quasi all'altezza della sua finestra. Ciò che la piccola aveva visto dopo l'aveva fatta piangere disperatamente e tremare fino all'alba.
L'uomo aveva uscito un grosso coltello dalla borsa e, con un gesto secco, l'aveva sollevato per aria e fiondato sulla propria mano, tranciandola, ma non di netto; un lembo di carne la faceva ciondolare mentre il sangue vi zampillava sopra. Aveva iniziato a mormorare, gli occhi chiusi e un sorriso sulle labbra, quasi fosse in pura estasi. La bambina si era coperta la bocca con le manine, per non urlare.Un altro colpo del coltello, poi un altro ancora. Il braccio non gli si staccò con la stessa facilità. Non smetteva un attimo di sorridere. Ci provò anche con la testa, ma gli bastò tranciar via la carotide per cadere sulle sue stesse gambe, sgozzato e agonizzante in un'enorme pozza di sangue.
Quando la polizia l'aveva ritrovato, c'era un dettaglio in più rispetto alla scena che aveva visto la bambina: sul muro, col sangue dell'uomo, qualcuno aveva scritto: "È per te, Isabella".
Se n'erano seguiti altri e altri e altri ancora, a volte anche più di uno nella stessa notte.
A poco a poco, orrore e disgusto si erano affievoliti in lei e gli occhi erano rimasti a guardare sempre per più tempo. Quando un giovane straniero si era scuoiato il viso davanti a lei, a stento aveva battuto ciglio. Aveva dato la colpa al fascino di Isabella che lei, a differenza di chi blaterava senza realmente saper nulla, vedeva. La donna le aveva anche sorriso, una volta.
Era meravigliosa, quasi divina, di una bellezza che non avrebbe potuto mai, in alcun modo, appartenere a questo mondo. Nonostante ciò che si dicesse in giro sulla sua mostruosità, la piccola se n'era imbarazzata; le gote le erano diventate di un candido rosso bollente. Era stato impossibile non sorriderle a propria volta, anche se poi si era maledetta per tanta incoscienza. Si era nascosta al suo sguardo, rannicchiandosi sulle gambe tremanti; aveva afferrato le ginocchia con le manine e fissato il buio del solaio chiedendosi se l'avesse vista davvero o fosse stata solo una sua impressione. In un moto di impavido coraggio, era scattata in piedi, pronta a correre via, ma quando aveva guardato dalla finestra, tanto la donna quanto l'uomo erano spariti.
Quella notte, però, aveva deciso che l'avrebbe chiamata.
Sollevando la finestra pesante e scricchiolante, mentre la nebbia iniziava a infittirsi, sporse la boccuccia contro la fessura e provò a fischiettare, per vedere se riusciva a muovere le labbra. Sì, ci sarebbe riuscita.
Aveva atteso tutto il giorno quel momento, e notte dopo notte aveva pianificato quell'escamotage per poter attirare la sua attenzione. Negli occhietti neri, le nuvole sparirono, lasciando il posto a una foschia lucente.
Lungo la strada, un uomo camminava fischiettando un motivetto allegro. Dall'aria, doveva essere l'ennesimo ragazzetto incosciente che stava tentanto la sorte, perché, dopo quegli avvenimenti, alcuni uomini presi dalla spavalderia avevano iniziato a passare di lì, quasi a volerla sfidare.
La piccola pensò che, forse, loro non dovevano vedere quel mutamento nella nebbia, il moto lento con la quale si calava, l'incalzante avvicinarsi e avvolgerli. Semplicemente, una volta messo piede su quell'angolo, si immobilizzavano, e accadeva ciò che doveva accadere.
L'auto della polizia passò vicino al ragazzo, ma non parve notarlo, né nessuno provò a dissuaderlo. Lui continuò a camminare incontro alla foschia, senza smettere di fischiettare.
Il cuore le prese a battere con forza nel petto mingherlino; sembrava un motore potente attaccato a un triciclo. Le mancò il fiato quando vide le braccia lunghe e bianche di Isabella comparire e prendere fra loro il viso dell'uomo. Si era chinata per baciarlo sulle labbra. Gli occhi del giovane si erano animati di una follia pronta ad esplodere. Era successo tutto in un attimo: lei gli si era affiancata, aveva poggiato le labbra contro il suo orecchio e gli aveva sussurrato delle parole mentre i suoi lunghissimi capelli biondi si muovevano come fluttuanti in mezzo a loro.
Le manine si erano strette forti attorno al parapetto.
«Is-» aveva provato a mormorare, ma la vocina le era scemata contro il vento forte che spazzava tutto, meno che la nebbia. «Isa-»
La donna aveva spostato gli occhi dal povero disgraziato e li aveva alzati verso lei.
«Isabella...» l'aveva chiamata senza nemmeno controllare la propria boccuccia. Lei le aveva sorriso. Mollando l'uomo, aveva lasciato che la nebbia lo facesse continuare a camminare, l'aria allegra di un beone, le mani tremolanti e i passi incerti, quasi ognuno di questi lo conducesse sul baratro di un abisso in cui sarebbe sprofondato. Isabella era rimasta lì. Continuava a fissare la bambina e non smetteva di sorridere. Quando aprì le labbra, schiudendole come l'avessero appena baciata, la vide mormorare: «Bambina...»
Si sentì raggelare. Le gambe le cedettero di colpo, in un misto fra euforia e terrore. Le venne da piangere e urlare, ma un rumore richiamò la sua attenzione, acuendo tutti i suoi sensi. Le lacrime sembrarono fermarsi. Qualcuno aveva aperto e chiuso il portone al piano di sotto. Pochi secondi, e poté sentire uno strisciare di piedi salire le scale, gradino dopo gradino. Si ricordò del legno ruvido, delle assi sollevate, delle piccole schegge pronte a tradire chi vi avesse inciampato sopra. L'intera casa era al buio. Aveva spento l'ultima candela alle nove. L'odore di cera aleggiava ancora nell'aria ma, adesso, sembrava che un altro profumo si mischiasse a quello, come di lavanda e nebbia: Isabella. La sentì respirare e sorridere dietro la porta, mentre il dito longilineo picchiettava contro il legno e la mano libera si stringeva attorno al pomello dalla vernice crepata.
«C'è nessuno?» cinguettò, un tintinnio acuto in mezzo al buio.
La piccina portò le mani paffute sugli occhi e se li coprì, volendoseli tenere stretti.
Tremolava ancora quando lo scricchiolio della porta fu seguito da piedi nudi sul legno. Scorse, dall'indice appena spostato, una veste bianca scivolare lungo le travi, sempre più vicina a lei. La donna si chinò sulle ginocchia e toccò la manina tremante.
«Hai paura?» le domandò con una voce così soave che lei ebbe voglia di gettarsi tra le sue braccia. Tirò su un solo occhietto e lasciò che questo si spalancasse di fronte al suo viso lucente. A quella vicinanza, Isabella era ancora più splendida e le forme del suo viso una cornice misericordiosa per chi la guardasse. Le sorrideva con gentilezza e le accarezzava i capelli gustandone la sofficità.
«Sei così bella...» mormorò come estasiata.
Anche la seconda manina scivolò via e il cuore prese a batterle con ancora più forza quando la vide con entrambe gli occhi. Li stropicciò.
«Ogni notte ti ritrovo dietro quella finestra e vedo come mi osservi. Spero che il mio operato ti sia gradito. Non so quanti ne serviranno, ancora, perché la tua energia esploda e si manifesti. Lo leggo nei tuoi occhi che riuscirai a portare più distruzione di quanto io sia riuscita a compiere. Iosento come il tuo sangue sgorghi più in fretta quando ti chiamo col tuo vero nome...»
La piccola la osservò. Attese che la chiamasse.
«Isabella...» disse la donna, sorridendole. «Nessuno ha mai visto l'inferno, anche se molti pensano solo di sapere cos'è che sia. Io l'ho visto.L'inferno è meraviglioso. Il mio dio è perfezione, questo è il suo nome: Isabella. Chi la venera, porta il suo nome.»
La piccina le sorrise. La donna la prese per mano e la invitò ad alzarsi.
Dal primo piano l'odore dei cadaveri in putrefazione era dilaniante, e lei sembrò compiacersene. «Volevo essere come te» si giustificò ruotando fra le manine un bulbo oculare ingiallito. Glielo donò.
«Sarai più forte di me. Tu sei Isabella. Isabella è l'inferno, e in lei trovo pace.Hai un mondo che ti aspetta, piccina.»
Scesero le scale, mano nella mano.
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