Dodici petali neri
AUTORE: TheManiae
PACCHETTO: giorno 7
GENERE: Dark, Introspettivo, Malinconico, Drammatico, Angst, Azione
Iniziò il dodici Dicembre, in una fredda giornata d'inverno.
Io e mia moglie, la mia bellissima Laura, la più grande gioia della mia vita, stavamo decorando l'esterno della casa per Natale, sempre più vicino. Luci rosse, gialle e verdi lampeggiavano allegre, mentre alcune renne di pezza si stagliavano sul tetto e una ghirlanda stava sulla porta. Ricordo che attirai mia moglie sotto il vischio e la baciai come non l'avevo mai baciata prima.
Fu allora che le sentimmo. Le catene. Quelle maledette catene.
Il tintinnio metallico era lontano, ma abbastanza udibile da farmi voltare di scatto, percependo una sensazione gelida lungo la spina dorsale. Strinsi mia moglie di riflesso, fissando un punto distante, dove credetti di aver visto qualcosa muoversi all'ombra delle case.
Rientrammo solo dopo alcuni inquietanti minuti passati nel silenzio, interrotto solo dai nostri respiri che si condensavano nell'aria. Il freddo si era fatto più intenso e nessuno di noi due voleva restare fuori. Preparai la cioccolata calda per me e Laura, ma quella sgradevole sensazione continuò a seguirmi finché non mi addormentai tra le sue braccia.
Il secondo giorno mi svegliai con una strana sensazione, una pressione sul petto, precisamente sul cuore. Non faceva male e non era così intensa da preoccuparsene, ma ogni momento libero della giornata mi ritrovavo a notarlo, appoggiandoci sopra la mano. Non dissi nulla a Laura, troppo occupata nella decorazione della casa.
Lavorammo come muli, come facevamo sempre in quel periodo dell'anno. Sistemammo l'interno della casa e montammo l'albero, un abete finto che si ritrovò completamente decorato, con sulla sommità una vecchia stella d'argento che la nonna di Laura ci aveva lasciato in eredità.
Quando finimmo il lavoro ci mettemmo a tavola a gustare un pranzo abbondante, tra uova, carne e pane come la perfetta famiglia americana.
Il campanello mi interruppe mentre le stavo parlando del piccolo cottage che avevo affittato, per passare qualche tempo da soli dopo natale. Quando aprii la porta non c'era nessuno, ma abbassando lo sguardo vidi qualcosa.
Una rosa, una normalissima rosa dai petali neri, eppure la sua sola vista mi fece rabbrividire. Mi chinai a raccoglierla ma la gettai subito, sobbalzando per il dolore prima di mettermi la punta dell'indice in bocca. Mi ero punto con le spine e il sangue che usciva sapeva di polvere.
Presi con più attenzione il fiore e lo gettai nella pattumiera, senza farlo vedere a Laura. Quando mi chiese chi fosse, mentii, dicendole che era stato solo uno scherzo da ragazzini. Non doveva vedere la rosa. Non doveva assolutamente vederla.
Il terzo giorno la pressione si era fatta più pesante, anche se sempre inferiore a qualsiasi tipo di
fastidio o vero dolore. Di nuovo, non dissi nulla a Laura, per non farla preoccupare.
La giornata trascorse tranquilla fino a sera, quando i nostri più cari amici Samuel e Leonard vennero a cena da noi. Ci conoscevamo tutti e quattro dai tempi del college, e non era stata certo una sorpresa quando all'ultimo anno i due si erano fidanzati.
Samuel e Leonard arrivarono quando il sole stava ormai calando all'orizzonte, mentre le ombre si allungavano sulle strade. Li accogliemmo e servimmo la cena, un primo piatto di pasta al tonno seguito da un secondo di carne di cavallo, patate arrosto e vino rosso, e infine un dolce leggero al tiramisù.
Il cielo si era fatto nero quando finimmo di mangiare e ci mettemmo a discutere del Natale, del lavoro, dell'incidente di Laura e di eventi mondani. Fu allora che sentii di nuovo le catene.
Bloccai il racconto di Samuel con una mano e corsi verso la porta, rabbrividendo quando la aprii e una folata gelida mi colse in pieno, scavando fin dentro le ossa. Guardai fuori, continuando a sentire quel tintinnio metallico, ma nelle tenebre della strada non vidi nessuno, solo ombre. Laura mi si avvicinò e anche lei guardò nel buio, tesa come una corda, tremante. Nessuno dei due riusciva a capire da dove provenisse quel maledetto suono.
Anche Samuel e Leonard ci raggiunsero, confusi dal nostro comportamento improvviso. Rimasi sconcertato quando, spiegandogli che avevamo già sentito quelle catene fuori casa, loro risposero di non sentire assolutamente nulla.
Se fino a quel momento avevo pensato potesse essere uno scherzo della mia mente, dopo il quarto giorno capii che qualcosa di oscuro stava agendo.
La serata coi nostri amici era continuata alcune ore prima che loro se ne andassero, ma per tutto il tempo una certa ansia mi aveva stretto il petto, e la mia Laura mi confidò di sentire lo stesso. Ci mettemmo a letto, stretti in un caldo abbraccio, e fu lì che ebbi l'idea.
Al mattino mi svegliai presto e preparai la colazione a letto per mia moglie, cosa di cui lei fu felicissima, e per il resto del giorno facemmo tutto insieme, dal guardare la TV, al cucinare, fino a finire il puzzle a cui stavamo lavorando da giorni. Avevo deciso di avere una giornata solo per noi, senza impegni, per poter rilassarci dalle strane esperienze dei giorni precedenti.
Quando arrivò la sera le cucinai qualcosa di leggero e ci stendemmo sul divano, avvolti da una coperta e con lei stretta tra le mie braccia, mentre in TV trasmettevano il nostro film natalizio preferito. Tutto era perfetto.
Poi sentimmo di nuovo le catene fuori casa, ma oltre a esse giunse anche un forte colpo metallico. Entrambi sussultammo e, dopo esserci guardati a vicenda, andammo a vedere. Quando aprii la porta, mia moglie lanciò un grido inumano.
La spazzatura era sparsa sul marciapiede, i cassonetti metallici riversi a terra, e un'ombra alta e nera ci fissava dalla strada. Era avvolta da un mantello fatto di oscurità e da sotto il cappuccio
emergevano solo un paio di corna da ariete, ricurve e contorte. Dopo qualche secondo alzò il braccio verso di noi, rivelando una mano pallida e mostruosa che tra le dita stringeva una rosa nera. Una catena spezzata pendeva dal polso, creando quell'orrendo tintinnio.
Sbattemmo la porta e ci barricammo dentro casa, chiudendo ogni passaggio il più rapidamente possibile e chiamammo la polizia. Quando gli agenti arrivarono però, lo strano essere era svanito nel nulla.
Il giorno dopo cercammo di convincerci delle parole degli agenti, ovvero che doveva essersi trattato dello scherzo di qualche ragazzino ancora in vena di Halloween. Una parte di me sentiva che qualcosa di peggiore aleggiava su di noi, ma per tutta la mattinata ignorai quella voce.
Finché non sentii mia moglie gridare.
Lasciai perdere il pranzo che stavo preparando e corsi nel giardino sul retro, dove Laura coltivava nel suo piccolo orticello. La trovai a terra, schiacciata contro il muro nel tentativo di stare lontana da qualcosa, gli occhi ricolmi di orrore. Seguendo il suo sguardo, vidi l'Ombra.
Il nero cappuccio emergeva da sopra la staccionata di due metri, fissandoci senza occhi, in un silenzio interrotto solo dal suo respiro sepolcrale. Il sole era fuggito dietro le nuvole, gettando il giardino in una tetra oscurità che pareva viva.
Raccolsi mia moglie e la riportai in casa, sempre tenendo d'occhio la figura quando potevo, e appena mi fui assicurato Laura stesse bene tornai fuori, armato con una mazza da cricket. Feci alcuni passi avanti, ingoiando la paura e cercando di apparire il più minaccioso possibile, urlando contro l'Ombra. Lei non reagì, limitandosi a fissarmi, respirare e a far tintinnare quelle maledette catene.
Poi, com'era venuta, se ne andò.
Appena tornai dentro chiamai di nuovo la polizia, stavolta dicendo che qualcuno ci stava perseguitando con indosso un costume. Nemmeno io sapevo se credere a quelle parole.
Mentre gli agenti esploravano la zona in cerca d'indizi, io rimasi per tutto il tempo con mia moglie, provando a tranquillizzarla. Non l'avevo mai vista così, pallida come uno spettro e con le lacrime agli occhi. Riuscivo a sentire il terrore primordiale che la faceva tremare e le gelava il sangue, lo stesso che avvinghiava il mio cuore in una morsa gelida.
Quando i poliziotti tornarono mi dissero di non aver trovato nulla e che nemmeno interrogare i vicini era servito a qualcosa. Sembrava come se nessuno a parte me e Laura avesse visto quella cosa.
Il sesto giorno mi svegliai ancora stanco e con un peso sul petto. Mi alzai, cercando di non svegliare Laura, e scesi in giardino per fare una passeggiata. Pensai che l'aria fresca di Dicembre mi avrebbe aiutato a svegliarmi, e così fu. Bastarono pochi momenti fuori perché i peli lungo le
braccia si rizzassero e la pelle d'oca mi avvolgesse completamente, riattivando quelle parti del cervello ancora addormentate.
Camminai in avanti e indietro lungo il marciapiede ancora qualche minuto, ma proprio quando stavo per tornare dentro, il mio vicino mi chiamò. Anche lui stava passeggiando fuori di prima mattina e cominciammo a parlare del più e del meno, le solite cose che la gente chiede per cortesia.
Stavo per salutarlo quando l'Ombra apparve alle sue spalle. Un secondo prima non c'era e quello dopo si era materializzata dal nulla, avvolta nel suo nero mantello. Lanciai un grido, sobbalzando e quasi rischiando di cadere sul marciapiede, mentre il mio vicino mi guardava confuso.
Gli urlai di stare attento a quella cosa alle sue spalle, guardandomi attorno in cerca di una qualsiasi arma per difenderci. Rimasi di sasso quando, dopo essersi voltato, mi rispose di non capire di cosa stessi parlando. Alle sue spalle non vedeva nulla, se non la strada.
Impaurito e confuso diedi ascolto alle gambe e corsi in casa, chiudendo la porta a chiave e restando davanti alla finestra, fissando il mio vicino che si grattava la testa e sospirava. Si voltò e rincasò, attraversando l'Ombra come se fosse fatta di fumo.
Restai lì per non so quanto tempo, a fissare quella creatura che ci stava perseguitando, a comprendere che solo io e Laura potevamo vederla. Tra i passanti nessuno riusciva a sentire il tintinnio delle catene, chi gli passava affianco la ignorava completamente e persino chi gli camminava attraverso non avvertiva nulla.
Quando tornai da mia moglie la trovai sveglia e in lacrime, le mani che stringevano coperte come se fossero l'unica cosa che poteva proteggerla. La abbracciai e le dissi che sarebbe andato tutto bene.
Il settimo giorno qualcuno doveva uscire per andare al supermercato. Provai a chiamare amici e parenti, ma per qualche motivo il cellulare squillava a vuoto e si interrompeva. Laura era più vulnerabile alla presenza dell'Ombra e sapevo di non poterla lasciare a casa da sola, quindi andammo insieme.
Il luogo non era troppo lontano da casa, appena una decina di minuti in auto, ma ogni singolo istante mi sentivo osservato. Laura sedeva accanto a me e, mentre guidavo, la vedevo lanciare occhiate cupe ai lati della strada.
Entrammo e prendemmo tutto l'occorrente che ci serviva, cercando di fare il più velocemente possibile. Mancava solo un'ultima cosa, una confezione di cioccolata calda, la preferita di Laura. Stavo per prenderla, quando alle nostre spalle sentimmo le catene.
Non mi voltai nemmeno. Afferrai mia moglie e le tappai le orecchie, mentre lei chiudeva gli
occhi e cominciava a piangere. Corremmo alle casse, quasi urlando alla commessa di fare presto. Lei ci guardò confusa ma non disse nulla.
Scappammo verso casa, superando tutti i semafori rossi mentre mia moglie teneva la testa nascosta sotto la mia giacca, le mani premute sulle orecchie mentre io guidavo. Non avevo il coraggio nemmeno di guardare nello specchietto retrovisore. Ci chiudemmo dentro appena arrivati e misi Laura a letto, la mazza da cricket vicina per ogni evenienza.
L'ottavo giorno ci risvegliammo in un mondo grigio.
Una pallida nebbia era scesa su di noi durante la notte, ricoprendo le case e le strade. Un gelo innaturale si infilò fin dentro le ossa mentre guardavo la strada dalla finestra. Il sole stesso sembrava solo un disco a malapena visibile.
Restammo in casa tutto il giorno, intrappolati nel nostro incubo. Io ero spaventato ma Laura stava molto peggio. La vedevo magra e smunta, come se non mangiasse da giorni, e quando la toccavo la sua pelle sembrava sottile e fragile come vetro. Ogni tanto mi sorrideva, dicendomi che andava tutto bene, ma vedevo come anche solo quel gesto le costasse fatica.
Erano quasi le sei di sera quando le catene tintinnarono. Laura sussultò e si chiuse in posizione fetale, cominciando a tremare e piangere, il viso nascosto tra braccia. La avvolsi in una coperta e andai fuori, trovando l'Ombra appena fuori dall'uscio di casa, che mi fissava in silenzio. Per un momento la paura fu superata dalla rabbia e allora le gridai contro, agitando la mazza, insultandola, urlandole di lasciarci in pace.
Lei non rispose, limitandosi ad alzare la mano in cui stringeva la rosa nera. Digrignai i denti e strinsi la mazza, lanciandomi in avanti per colpirla alla testa. Rischiai di scivolare quando la punta della mazza attraversò il cappuccio e colpì lo stipite della porta.
L'Ombra restò lì, immobile, a fissarmi in silenzio.
Il nono giorno la nebbia si era fatta ancora più fitta e cupa. Il sole pareva svanito dal mondo, immerso in un grigio sudario.
I miei sogni furono tormentati da orrende visioni e quando mi svegliai ero madido di sudore. Un brivido mi percorse dalla testa ai piedi quando mi alzai, il gelo che si insinuava nelle ossa.
Feci un bagno, ma anche con l'acqua calda al massimo continuavo a sentire freddo e passai la maggior parte della giornata a letto, stretto a mia moglie. Laura stava anche peggio, pallida e tremante, parlava pochissimo e sempre con frasi corte o singole parole.
Mi addormentai e mi svegliai più volte, finché non decisi di andare a prendere qualcosa da mangiare. Volevo prepararmi un panino e una tazza di caffè, ma mi accorsi di aver finito lo zucchero. Il supermercato era troppo lontano e non avevo intenzione di lasciare Laura da sola per troppo tempo, quindi pensai di chiedere al vicino.
Uscii e quasi mi persi in quella nebbia, così fitta da potersi tagliare con un coltello. Bussai alla porta e attesi per qualche secondo e poi per un minuto, ma non venne nessuno. Suonai il campanello, ma di nuovo non ci fu risposta.
Pensai fosse uscito e quindi mi diressi dall'altra nostra vicina, dal lato opposto della casa, ma nemmeno lei rispose. Mi parve molto strano, essendo lei una vecchia in carrozzella che soffriva di artrosi, impossibilitata a stare fuori troppo a lungo con quel freddo.
Colto da un orribile pensiero, corsi a bussare alle porte di tutto il vicinato, suonando il campanello e urlando a squarciagola per farmi sentire. Non rispose mai nessuno, e quando provai a guardare attraverso le finestre, gli interni erano invasi dall'oscurità. Solo quando tornai alla casa del mio vicino vidi qualcuno all'interno, che mi fissava a sua volta.
L'Ombra stava dall'altra parte del vetro, a pochi centimetri dal mio viso. Appena la vidi caddi all'indietro dallo spavento, lanciando un grido e restando immobile a fissarla terrorizzato. Appena ebbi il coraggio di alzarmi corsi a casa e strinsi mia moglie più forte che potevo.
Eravamo rimasti solo noi. Io, Laura e l'Ombra.
Il decimo giorno decisi che quella situazione non poteva continuare.
Appena mi svegliai preparai tutto l'occorrente e feci le valigie. Laura mi osservava seduta sul letto, stretta nelle coperte e chiusa in un silenzio inquietante, gli occhi pesante e cupi che mi seguivano.
Presi i bagagli e li portai in auto, prima di far scendere anche mia moglie. Ci vollero diversi tentativi prima che riuscissi a farla alzare e vestire, dovendola quasi sollevare di peso. Era gelida al mio tocco e la sua pelle sembrava carta.
Salimmo in macchina e partimmo, ingranando la marcia per lasciare al più presto quel posto maledetto. Dovetti attivare i fari antinebbia per illuminare il velo grigio che ormai ricopriva il nostro mondo, ma anche così i miei occhi riuscivano a vedere solo a pochi metri dall'auto.
Stavamo per lasciare la nostra strada quando il grido di mia moglie mi fece frenare di colpo. I suoi occhi erano iniettati di terrore e il suo dito indicava davanti a noi. All'inizio non vidi nulla ma dopo alcuni secondi cominciai a sentire le catene e una sagoma scura si avvicinò dalla
nebbia. Non le avrei permesso di fermarci.
Schiacciai l'acceleratore e mi lanciai a tutta velocità contro l'Ombra, le grida di mia moglie che mi accompagnavano nel mio gesto folle e disperato. Attraversai l'incubo come un proiettile nel fumo, sentendo un gelo innaturale lungo la schiena che mi fece provare un terrore come mai ne avevo provato, ma eravamo liberi.
Mi lanciai sulla strada, in una tempesta di emozioni che si agitava nel mio petto tra rabbia, paura e sollievo. L'uragano si scatenò in un pianto liberatorio e in una risata folle.
Purtroppo di quelle emozioni solo le prime due rimasero, mentre l'ultima si estinse rapidamente quando guardai fuori dai finestrini, rivedendo la nostra casa. Fermai la macchina, confuso, e pensando di aver sbagliato strada feci dietrofront, stavolta facendo attenzione a prendere la direzione giusta.
Ci vollero pochi minuti prima che mi ritrovassi di nuovo nel mio quartiere, e così accadde anche la terza e la quarta volta che ci provai. Al quinto tentativo mi fermai e presi a pugni il volante, lanciando maledizioni e insulti al cielo. Mia moglie rimase in silenzio, fissandomi tra le lacrime.
L'undicesimo giorno mi svegliai in un mondo immerso nelle tenebre, da solo. Laura non c'era e fuori il cielo era nero. Non era il buio di una fredda notte di Dicembre, no, era l'oscurità incarnata, un vuoto famelico che avrebbe divorato ogni cosa.
Corsi fuori e controllai ogni stanza, finché non trovai la porta sul retro spalancata. Uscendo in giardino vidi un varco spalancato nella palizzata, le assi di legno spezzate da qualcosa di enorme. Gli alberi oltre la recinzione erano immersi nel buio, bocche spalancate sul nulla, e da quel nulla emergeva solo il suono delle catene.
Rimasi a fissare quel cancello oscuro per diversi secondi, finché non sentii le grida di mia moglie. Mi lanciai nel buio, chiamandola con le lacrime agli occhi mentre attraversavo il sottobosco. Cespugli e rami bassi mi graffiarono la pelle e mi strapparono i vestiti, ma non smisi mai di correre per raggiungerla.
Uscii dalla selva oscura e per poco non andai a inciampare su una lapide. Molte altre emergevano dal terreno, ordinate in lunghe file che sembravano arrivare fino alla fine del mondo in ogni direzione. Erano nere, lucide come ossidiana e senza nome.
Fu davanti a una di esse che trovai Laura. Apparentemente stava bene, senza alcun graffio o ferita, ma nei suoi occhi c'era un vuoto che mi fece rabbrividire. Stava in ginocchio sull'erba, vestita con una camicia da notte bianca come la sua pelle, fissando con insistenza la pietra davanti a lei.
Le catene tintinnarono e l'Ombra apparve alle sue spalle. Mi gettai tra di loro, spalancando le
braccia e urlando a mia moglie di scappare, pronto a qualsiasi possibile attacco. Tuttavia, la mia determinazione scemò quando sentii una gelida carezza sulla guancia, proveniente dalle mie spalle
«Adesso basta» disse Laura, sorridendomi quando la guardai. «È finita.»
Le sue labbra accarezzarono le mie in un ultimo bacio prima che la vedessi svanire nel vento, portata via per sempre da me. Una fiamma blu si accese nella mano aperta dell'Ombra, che la tenne vicina al petto come farebbe una madre con la figlia appena nata.
Caddi in ginocchio e la supplicai di ridarmela, piangendo e offrendo qualsiasi cosa avessi, compresa la mia stessa vita. Lei mi guardò in silenzio, senza dire nulla, ma per un istante la mostruosità che aveva riempito i miei incubi svanì, lasciando il posto a una pallida fanciulla in nero, avvolta da piume di corvo. Sotto il cappuccio, un viso temibile mi sorrideva con una dolcezza che mai avevo sentito.
Fu l'ultima cosa che vidi prima che l'oscurità mi avvolgesse.
Mi svegliai al mattino, il cielo grigio illuminato da un pallido sole. Ero adagiato al tronco di un vecchio albero morto, bianco come un osso e con diversi corvi neri posati sui rami. Davanti a me, c'era la tomba di Laura.
La foto mi fissava con occhi pieni di vita, scattata in un tempo diverso, più felice di questo. Sotto la lapide di marmo bianco erano incise due date.
13 Ottobre 1988 - 2 Dicembre 2020.
L'incidente. Certo, come avevo potuto dimenticarlo?
Le lacrime mi rigarono le guance e chiusi gli occhi, battendo i pugni contro la pietra fredda finché non riuscii più a sentire le dita, intorpidite e doloranti. Gridai finché la gola non mi fece male, insultando e odiando l'intera creazione, perché sapevo che in essa lei non c'era più.
Tornai a casa, senza mai sapere cosa fosse realmente successo in quell'incubo di dodici giorni. Un'ultima stranezza mi accolse quando rientrai, trovando un pacco con un grosso fiocco dorato sul mio letto. Aprendolo, vi trovai una rosa nera avvolta da un nastro rosso e con due fedi nuziali legate ad esso. Le lacrime scorsero quando la annusai.
Aveva l'odore più dolce che avessi mai sentito.
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