XXXVIII atto

A Buenos Aires, all'inizio del mese di dicembre del 1932, lo scrittore sconosciuto Joaquín Cortés Estevarro, di Rio de Janeiro, consegnò a Jorge Luis Borges uno scritto in cui aveva collezionato le leggende dell'Amazzonia per avere un parere a riguardo. Borges gli disse che, se avesse ritenuto la narrazione interessante, avrebbe fatto in modo che venisse pubblicata su una rivista ma che il compenso sarebbe stato di poco conto. 

Leggende del Sud America narrano che, ancor prima dell'arrivo degli Europei, la grande foresta amazzonica fosse il luogo allo stesso tempo più pericoloso e più sicuro dellaTerra. Era il più pericoloso perché abitato da animali in grado di togliere la vita nei modi più disparati. Il più sicuro perché gli uomini che avevano eletto quegli intrichi lussureggianti come luogo in cui vivere si comportavano come gli animali: a differenza di coloro che sono stati civilizzati, uccidevano solo per nutrisi e difendersi.

Tra gli animali venerabili vi era la Grande Anaconda Bianca, una femmina che era riuscita a sconfiggere la barriera del tempo. 

Le leggende preincaiche dicono che l'autrice dei geoglifi presenti nella pianura di Socos fu proprio la Grande Anaconda Bianca che donò quelle mirabili opere alla civiltà come ringraziamento per la venerazione che le tributavano. Il rettile aveva tracciato col proprio corpo le linee che rappresentavano la bellezza della natura, dalla geometria perfetta delle conchiglie, passando per la semplicità dei fiori fino ad arrivare alla complessità del colibrì in volo. 

Le storie locali si mescolarono a quelle raccontate dai missionari cristiani cosicché alcuni identificarono nell'anaconda il serpente che suggerì a Eva di nutrirsi del frutto per conoscere la differenza tra Giusto e Sbagliato mentre altri ci videro la Bestia che stamperà il proprio marchio sulla fronte e sulla mano alla fine dei tempi.

La serpentessa, avendo attraversato diverse ere, aveva raggiunto dimensioni ragguardevoli: si pensava che superasse i cinquanta metri, che avesse la testa grande quanto un toro e che i denti, a centinaia, fossero traslucidi e ricurvi all'indietro. Probabilmente era albina: le squame venivano descritte di colore bianco, a eccezione di quelle sul ventre che pare vantassero sfumature che si avvicendavano dall'alabastro all'oro. In verità, nessuno essere vivente poteva vantare di averla incontrata, ma non si sa il motivo, se perché non fosse mai esistita o se perché nessun avventore fosse sopravvissuto. Le illazioni riguardo alla sua forma vennero evinte dai diversi ritrovamenti, ossia dalle squame, che finivano nelle ville dei collezionisti perché ritenute in grado d curare qualsiasi malattia, e dai denti che venivano utilizzati come archi dagli indigeni dell'Amazzonia. 

I lettori si staranno domandando cosa possa centrare la leggenda di un rettile con la scomparsa di Fernando in Amazzonia ed è la stessa cosa che mi sono chiesta pure io quando sono incappata, per un  caso fortuito, in un vecchio numero della rivista argentina Sur in cui venne pubblicato un racconto di uno scrittore di inizio secolo scorso, tal Joaquín Cortés Estevarro, morto senza diventare famoso e senza che nessuno mettesse mai ordine ai suoi scritti. Il nome mi sembrava  di averlo già sentito, era effettivamente omonimo del famoso ballerino di flamenco, ma su internet non si trova nulla d'altro a parte che, per un certo periodo, divenne pupillo di Borges, cosa che poi il grande autore negherà fino alla morte. In uno dei suoi diari considerati apocrifi, l'autore argentino parla dell'incontro con Joaquín Cortés Estevarro, descrivendolo come un uomo dai tratti singolarmente vaghi e dall'aspetto consunto e terroso, alquanto inusuale per un giovane uomo qual era. Resta il fatto che una leggenda dell'Amazzonia fu effettivamente pubblicata sulla rivista Sur su proposta di Borges... guarda caso, proprio quella relativa al mitico serpente.

A differenza delle versioni precedenti dove l'albinismo era mantenuto anche negli occhi, ed erano dunque rossi, in quella la serpentessa aveva un occhio azzurro e uno nero, caratteristica che, secondo lo studioso, venne acquisita per assimilazione in una notte di maggio dell'anno 1932. Fu la data a sorprendermi perché non si seppe più nulla del nostro protagonista a partire proprio da maggio del '32 fino alla sua ricomparsa ad Amalfi nel... ve lo svelerò in seguito, basta non avere fretta.

Joaquín Cortés Estevarro raccontò di quando la Grande Anaconda Bianca incontrò un uomo solo, nudo, incapace di muoversi nell'Amazzonia e di come iniziò a strisciare attorno al suo essere per avvilupparlo e soffocarlo come è uso dei boa. 

L'umano era un alieno in quell'intrico di alberi. Soggiogato dalle proprie emozioni, si muoveva in modo sgraziato, bloccato dai vestiti e incapace di seguire l'istinto come sono soliti fare gli altri animali. 
La luce scemava scolorando il verde potente e fresco e acuendo il rumore in lontananza di uno dei tanti torrenti che affluivano nel Rio delle Amazzoni. 
Sentiva di essere seguito, lo era da quella mattina, ma ora i suoi predatori erano cambiati. Ne era certo, nonostante il buio lo avesse lasciato in balia degli altri suoi sensi, organi così atrofizzati rispetto alla vista che capì di non poter fare nessun passo senza rischiare la morte. I suoi inseguitori smuovevano le foglie con una delicatezza quasi impercettibile e l'aria si era addolcita di un effluvio dolciastro e pungente. 

La serpentessa aveva percepito l'uomo dal puzzo di paura e rimpianto che il suo corpo produceva. Normalmente, visto che avrebbe partorito da lì a poco (l'anaconda ospita le uova all'interno del proprio corpo senza deporle), non si sarebbe mossa dalla tana che aveva costruito per l'occasione, ma quel bocconcino era entrato nel suo territorio in modo così incauto e lo aveva seguito per poter sferrare il suo attacco una volta che fosse calata la notte. 

Mentre lo soffocava lentamente, egli non si opponeva come se non desiderasse altro che andare incontro alla morte. In tutte le prede di cui si era nutrita permaneva sempre un barlume di speranza, ma in lui non ve ne era più. 

Quando il cuore dell'uomo si fermò, l'anaconda si prese il suo tempo per ingoiarlo. Spalancò le falangi e, aiutandosi, coi denti aguzzi, iniziò dai piedi e risalì lungo il corpo, un centimetro alla volta. 

Giunta al cuore, il primo raggio di sole illuminò gli occhi di colore diverso. 

La leggenda dice che la Grande Anaconda Bianca si innamorò di quel contrasto singolare e che, allo stesso tempo, riconobbe da quel segno il fatto che l'uomo fosse una divinità sua pari. 

Bloccò le mandibole e cercò di rigurgitare il manicaretto proprio mentre decine di serpenti uscivano dall'altro capo del suo corpo, partorendo così, contemporaneamente, dalla testa e dalla coda. 

Una volta riuscita nell'impresa, ne resuscitò il cadavere baciandolo con la lingua biforcuta, mentre decine di neonati lo avvolgevano per dargli il benvenuto in un quadretto familiare che a noi sembra solo raccapricciante.

Il racconto qui non è chiaro perché dice che la Grande Anaconda Bianca e l'uomo divennero tutt'uno pur avendo due corpi separati: io ipotizzo che sia un'idea copiata dalla Santa Trinità, ma non lo sapremo mai. Forse.

Da quel momento le leggende cambiarono. 

La serpentessa sfoggiò gli occhi di due colori diversi e l'uomo, a cui rimasero tatuati i segni dei denti in due file di punti circolari ed equidistanti, assimilò  le capacità proprie di quel rettile: l'efficacia dell'uccidere, la pazienza, la forza e, soprattutto, divenne un dio. 

Io non sono sicura che l'uomo diventato dio fosse Fernando ma, tra le tante ipotesi che ho formulato, questa è l'unica, sebbene inquietante, che può giustificare gli avvenimenti che seguirono.


Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top