XXXIV atto

Fernando si era svegliato nel momento in cui era stato scaraventato giù dal letto.

Pensò di trovarsi nel sogno del suo passato, quando zio Terenzio lo aveva sorpreso a dormire nudo con Ester. Per un attimo che profumò di eternità, si illuse di poter essere ancora in quel luogo e in quel momento e di poter così cambiare quanto era successo in seguito. Evitare l'assalto nella villa di Amalfi, mettere al sicuro i suoi zii, sposare Ester. 

Gli occhi si inumidirono per l'emozione e, soggiogati dal sogno, si spalancarono convinti di poter rivedere le pareti conosciute del palazzo liberty, lo zio vivo anche se furente e, soprattutto, sua cugina, imbarazzata e vergognosa per aver mostrato al padre di essere diventata donna e aver smesso i panni di bambina.

Le pupille del giovane, però, si ritrovarono a fissare la canna di un Mauser 1922 Brasile, evidentemente carico e pronto a portarsi via la sua vita al minimo movimento. Con lentezza, alzò le mani portandole alla testa. 

L'uomo che imbracciava l'arma, tarchiato e con la fronte molto bassa delimitata da un'unica fila di sopracciglia, si limitava a grugnire e ad annuire a tutto ciò che l'uomo accanto a lui diceva con un tono apparentemente pacato. Questi era il  senhor Carlos XXX, proprietario della fazenda in cui lui e Gennaro erano ospiti, un signore maturo, dall'aspetto dignitoso, con la fronte spaziosa, gli occhi grigi e una barba rossiccia ormai quasi canuta. Fino a quel momento, l'aveva sempre visto in finanziera scura e con un bastone da passeggio dal pomo d'argento, mentre ora, sopra il pigiama di seta, aveva indossato la vestaglia da camera al contrario, come se avesse fatto tutto di fretta. 

Fernando non capiva una parola di portoghese e guardava i due uomini cercando di cogliere almeno il senso di quanto gli stava accadendo. La sera prima stavano bevendo cachaça, brindando ai futuri affari come se facesse addirittura parte della famiglia e ora era tenuto sotto tiro come se avesse minacciato lui stesso qualcuno. Anche quella situazione gli faceva ricordare un passato, ancora molto vivido, di sequestri, pistole e morte. 

Da dove era seduto sul pavimento, con la coda dell'occhio, vide un qualcosa muoversi sul suo letto e la sensazione della recente tragedia lo abbandonò per dare ancora spazio a quella avuta al risveglio, di essere di nuovo accanto a Ester, pronto ad assumersi le sue responsabilità di marito. 

Illusosi di ritrovare il volto amato, spostò lo sguardo dalla bocca minacciosa del fucile al letto sfatto. Rimase di stucco nello scorgere la figlia maggiore del senhor Carlos in lacrime che si stringeva  al petto il lenzuolo con le braccia nude, facendo intendere che sotto le coltri fosse assai poco o per nulla vestita. 

Il suo italianissimo «Non l'ho toccata nemmeno con un dito» venne completamente ignorato o, forse, incompreso.

Il senhor Carlos abbandonò le vestigia di gentiluomo e fu come se un demone si fosse impossessato di lui: urlava contro la figlia, contro di lui, contro lo scagnozzo. Sicuramente ce l'aveva anche con Dio perché invocava i santi cantilenando una litania che, con quel tono, più che una preghiera somigliava a una bestemmia musicale.

La canna del fucile dello scagnozzo si muoveva disegnando un otto davanti ai suoi occhi diversi, pronta a sparare e a mettere fine a quella pantomima della sua vita in quell'istante. Possibile che finisse tutto così? 

Sentì il fegato rilasciare la bile in modo massiccio tanto da sentirne l'amaro in bocca; strinse la mandibola rischiando di spaccarsi i denti e, poi, urlò a gran voce il nome dell'uomo che avrebbe potuto cavarlo di impiccio. 

«Gennaro!» 

Sapeva che avrebbe dovuto ripetere quel nome diverse volte prima di svegliarne il proprietario. Se questi si fosse degnato di alzarsi e raggiungerlo, se avesse avuto la compassione di tradurre in modo corretto sia le parole del senhor Carlos che le sue, forse, non sarebbe morto. Forse.

Fernando non si fidava di Gennaro, anzi, ne aveva addirittura timore perché aveva compreso che stava rimandando il ritorno in patria di proposito. 

Sapeva che Ignazio il Capitalista manovrava questo suo scagnozzo come se fosse una marionetta, probabilmente gli aveva attaccato i fili quando era in Italia e ora, da lontano, li comandava tramite i telegrammi che riceveva quotidianamente.

Nonostante le premure usate perché non li leggesse, il giovane era riuscito ad adocchiarne un paio. Alcuni numeri messi apparentemente per errore tra le lettere delle parole avevano attirato la sua attenzione: i numeri, ne era sicuro, celavano un  codice segreto ma, anche se fosse riuscito a decifrarlo, rimaneva il problema di come fare ad accumulare abbastanza denaro per poter ritornare a casa. Gennaro non teneva alcuna intenzione di allargare i cordoni della borsa e lui, disperso nelle Americhe, non aveva alcun capitale. Quanto era stato sciocco e sprovveduto!

Ignazio, di sicuro, aveva architettato la mossa di allontanarlo convinto che il tempo avrebbe giocato a suo favore per riuscire a indurre la nipote a sposare quel folle di Ansgar. 

Fernando, però, aveva una fede profonda e inspiegabile che il piano del vecchio sarebbe andato a rotoli e lui sarebbe tornato da Ester quanto prima.

Durante la tratta Montevideo-Buenos Aires, vincendo la nausea che gli dava la navigazione, aveva messo mano a penna e calamaio per scrivere cinque lettere, concise per via del mal di mare, che avrebbe spedito una volta sbarcato. Cinque lettere, con cinque destinatari differenti, nessuno dei quali era Ester. 
Il primo era un suo amico d'università su cui sapeva di poter contare; il secondo era il gioielliere che aveva fatto il ciondolo che teneva appeso al collo come un amuleto; il terzo era un professore di Milano che non conosceva il Capitalista; il quarto era il barbiere di Napoli da cui si faceva sistemare ogni settimana; l'ultimo era suo fratello Giovanni che non aveva mai più visto dopo la tragedia occorsa ai loro genitori ma che aveva saltuariamente sentito nel corso degli anni.

Quando Gennaro entrò nella stanza, tutti si voltarono verso il nuovo arrivato; lo scagnozzo però, cocciuto nell'obbedire agli ordini, non cedette nella sua ostinazione nel voler tenere il fucile puntato contro Fernando. 

Il senhor Carlos iniziò a parlare all'uomo fitto fitto, il tono era morbido quasi volesse sottolineare la superiorità musicale della  lingua portoghese rispetto a quella italiana, ma a un tratto si inasprì alzandosi di volume, un rincorrersi di consonanti sincopato che rendeva il monologo simile alla scarica di una mitragliatrice. Dopo dieci minuti di emulazione dell'Amleto nel sepolcro del padre, si fermò per indicare il giovane e la figlia. L'indice rimbalzava dall'uno all'altra in una sudamericana danza macabra.

Finalmente Gennaro rispose.

Aveva  le mani congiunte e la testa china, pronta per il venerdì delle ceneri. Bisbigliava come un peccatore nel confessionale, interrompendo la posa plastica solo per battersi il petto e per ripetere tenha piedade come una beghina nella recita del rosario.

Piedade un corno, pensava Fernando che si sentiva sì peccatore ma non di quel peccato in particolare. 

«Potresti tradurre che non ho fatto nulla e non l'ho nemmeno toccata?»

Nell'udirlo parlare, il proprietario terriero disse (senza preoccuparsi di attendere la traduzione simultanea): «Se ele não casar com ela, eu vou matá-lo

Gennaro, in posizione paternoster, disse qualcosa al senhor Carlos che scosse vigorosamente la testa. L'italiano insistette, ma il brasiliano si indispettì e si rivolse allo sgherro che intensificò la mira come se volesse sparare lì lì da un secondo all'altro. 

In quel momento, Fernando pensò di essere al cospetto di Giuda in persona, pentito e pronto per impiccarsi al ramo di un albero. Doveva ammettere che, per lo meno, da quello che riusciva a capire, l'uomo cercava di discolparlo in modo assai convincente, specie quando gli sembrò di udire che per lui fosse come un figlio «Ele é como meu filho» e che era pronto a garantire per la sua onestà «Ele é um homem honesto e sabe o que fazer.»

Poteva ben parlare della sua onestà! Non tanto di quella della figlia del senhor Carlos, una ragazzotta che si chiamava Pietra, un nome appropriato visto che in quel momento pareva la pietra dello scandalo

Dal padre non aveva preso nulla, né i capelli rossi, né l'altezza. Assomigliava così tanto alla madre che, quando vicine, sembrava di vedere due foto della medesima persona scattate in epoche diversi. Gli occhi scurissimi e ravvicinati, il naso dal dorso stretto ma dalle narici appiattite, la bocca larga e morbida, l'unica dolce nota di un volto che appariva a modo suo attraente, anche se non rispondente ai canoni d'estetica classici. Aveva le gambe robuste e il seno abbondante che straripava dal colletto degli abiti a ogni inspirazione perché costretto in vestiti che sarebbero stati giusti se la ragazza avesse dato al sarto la possibilità di tagliarli della misura corretta. 
Veniva comunemente considerata bella e, anche se nessuno avrebbe mai ammesso questo a voce alta, tra le cause delle numerose richieste di prenderla in sposa vi erano soprattutto le terre che avrebbe ricevuto in dote.

Da quando era arrivato nella fazenda, Fernando si era reso conto di aver colpito la fantasia romantica della primogenita del senhor Carlos, ma non le aveva dato retta e aveva continuato a sperare nella buona riuscita del piano che stava architettando da quando aveva scritto le lettere.

Nello sbarcare a Buenos Aires quasi tre mesi prima,  la sensazione di ritrovare in quella città straniera qualcosa di Napoli gli aveva infuso coraggio riguardo a ciò che pensava di fare.

La sensazione era dovuta in parte all'aspetto della ciudad, palazzi residenziali circondati da una distesa di case basse e monocrome, ma soprattutto era il familiare andirivieni caotico, il modo esagerato di gesticolare degli abitanti, il profumo di cibo e caffè che riusciva a contrastare i miasmi delle strade. La gente aveva i colori e l'aspetto di tutti i popoli della Terra, ancor più che a Napoli, perché lì si vedeva veramente ogni sfumatura di tonalità di pelle, segno che, nonostante il razzismo insito nell'animo umano, l'amore -o forse solo il sesso - era riuscito a scardinare la paura del diverso. Ad accompagnare le differenti carnagioni, però, c'era anche la differenziazione in classi sociali ed economiche che pretendeva si praticasse la disuguaglianza ghettizzando i meno abbienti in periferie degradate e rese schiave di un'opulenza vistosa e barocca.

Si erano stabiliti in un albergo nel barrio Palermo, nella zona de Las Cañitas, perché lì c'è vita notturna: Gennaro gli aveva confidato che conosceva una casa che ospitava le donne più belle del mondo. Per l'uomo, ogni luogo ospitava le donne più belle e, per comprovare la propria tesi, si perdeva sempre nella descrizione di particolari minuziosi riguardo alla corporatura, agli odori e alle abitudini sessuali delle sue divinità. Un paio di volte aveva provato a trascinarlo in quel burdel, si divertiva a pronunciarlo in spagnolo, poi aveva perso ogni speranza e ci era andato da solo. Erano rimasti a Buenos Aires per nove giorni e Gennaro aveva religiosamente osservato la sua personale novena sessuale, pur rimanendo attivo e lucido durante il giorno. 

In Argentina avevano preso appuntamento con tre uomini d'affari: uno che voleva iniziare un commercio di automobili, un altro che aveva investito nella caña de azúcar e nella yerba mate, infine un terzo che si occupava di import-export. Se all'inizio delle trattative Fernando parlava uno spagnolo elementare, verso la fine del soggiorno riusciva sia a capire che a farsi comprendere tanto che, al momento della partenza, ebbe sogni in quella nuova lingua.

Fernando aveva sempre avuto alle calcagna la balia asciutta, tranne un pomeriggio, quando Gennaro si era allontanato in modo misterioso. Lui ne aveva approfittato per andare all'ufficio postale e spedire le lettere. Si era guardato le spalle mille volte, aveva cambiato strada repentinamente infilandosi nei vicoli, si era ingobbito per non dare nell'occhio. Per fortuna, lo spagnolo che masticava e i soldi che aveva erano riusciti a sortire l'effetto sperato: le sue lettere e la speranza a esse legata sarebbero giunte in mani amiche che avrebbero in qualche modo portato il messaggio a Ester senza insospettire Ignazio il Capitalista o zia Imelda.

Aspettami. Sono tuo! Lo sono sempre stato e sempre lo sarò. Perdonami per aver dubitato, non commetterò due volte lo stesso errore. Tornerò da te appena possibile. Aspettami, ti prego.

Prima di giungere nella fazenda del senhor Carlos, Gennaro lo aveva trascinato per due mesi lungo l'America meridionale. 

Le luci della città di Buenos Aires avevano lasciato posto a paesaggi più naturali, selvaggi, tanto isolati da far sembrare la notte luminosa per via della Via Lattea che sembrava così vicina da poterla sfiorare con le dita. 
La pampa lo aveva sorpreso per la vastità con cui lo sguardo poteva perdersi in quell'oceano dorato di cereali e terra bruciata. 
Aveva sentito odori per la prima volta di cui non conosceva le parole per descriverli, aveva assaggiato il cibo semplice ma nutriente dei popoli della Bolivia. Stanco del viaggio, si era lasciato convincere a masticare coca trovando un vigore che mai sperimentato.

Gennaro tradiva in modo variopinto e numerico il giuramento di fedeltà alla moglie italiana, Fernando manteneva quello fatto alla cugina che aveva abbandonato in un momento di disperazione.

«Casamento ou morte!»

Questo, Fernando, lo aveva capito bene.

«Digli che non ho fatto nulla: non posso sposarla perché è lei che mi si è infilata nel letto.»

Gennaro aveva iniziato a tradurre, ma si era fermato nel momento in cui Pietra aveva scostato la coperta esponendo il corpo nudo a tutti i presenti. L'uomo era rimasto ammutolito, con gli occhi fuori dalle orbite mentre i muscoli della mandibola cedevano davanti alla scena che, invece di essere sensuale come ci si sarebbe aspettati, sembrava quella della macellazione di un maiale.

La ragazza era imbrattata di sangue sulle gambe e sull'addome, persino il letto era zuppo. D'istinto, tutti guardarono il giovane che, vestito dal solo pigiama, era in ordine e non aveva addosso nemmeno una macchiolina rossa.

Lo sgherro fu così sopraffatto che abbassò l'arma mentre un annichilito senhor Carlos sembrò perdere qualsiasi capacità di parlare, muoversi e persino respirare.

Fernando, convinto che quel tentativo di incastrarlo fosse stato smascherato per via della goffaggine con cui era stato inscenato,  si mise ad applaudire come se si trovasse a teatro.

«Davvero poco credibile che io non sia nemmeno un po' sporco» disse indicando il proprio pigiama. «Cristo Santo, nemmeno un macellaio tratterebbe una donna così!»

Alle parole del giovane, il senhor Carlos emise un lungo lamento da animale ferito nell'orgoglio, strappò il fucile dalle mani dello sgherro e si preparò a sparare contro l'italiano che gli aveva disonorato la sua primogenita:
«Virgem Mãe de Deus... Eu vou te matar bastardo!»

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