XVII atto

Sul primo momento, Fernando ed Ester si guardarono con meraviglia, senza capire cosa fosse avvenuto. Cercarono di leggere la risposta nel tremolio delle labbra, di indovinarla nel baluginare di una lacrima intrappolata tra le ciglia, si perdettero nei loro sospiri ritmati dal moto ondoso del petto. Incantati dall'odore dei corpi accaldati, si sfioravano i visi come mai avevano fatto prima d'allora ed ebbero la sensazione che i polpastrelli fossero più sensibili ed esigenti, increduli di poter finalmente accedere a luoghi prima di allora preclusi se non agli occhi.

La sensazione di essere diventati l'uno il riflesso dell'altra li investì d'improvviso e contemporaneamente quando un lampo illuminò il cielo per pochi istanti. Il bagliore chiaro, in un'atmosfera umida e tersa, mutò il panorama in giorno e loro si videro come si erano visti in quegli anni, ma percepirono sé stessi e l'altro differenti da quelli che erano stati fino a poco prima.

Il cambiamento, in verità, era avvenuto gradualmente, ma non ne avevano avuto consapevolezza.  Quando erano nati, erano due pezzi d'argento grezzi e furono fortunati a capitare tra le mani di un artigiano assai capace che riuscì a squarciare il velo che protegge il futuro per scorgere la bellezza in divenire. Sullo stampo effimero dell'immagine in potenza, con pazienza e precisione, aveva lavorato, sgrezzato e reso così lisce le loro superfici da divenire perfetti per riflettere ognuno la bellezza dell'altro. Un riflesso autentico, non mitigato dall'innamoramento accecante, ma in grado di accogliere ogni aspetto, dal più spigoloso al più smussato, perché privo di artifizi e strategie.

Avevano timore di parlare, quasi che la parola potesse infrangere quella realtà onirica e fare da ponte verso un passato in cui erano solo cugini. Un mero un frammento della loro anima era tesa alla preoccupazione, relegato in un angolo dall'estasi del momento e li teneva ancorati al suolo altrimenti sarebbero volati via come Marc e Bella sui tetti di Vitebsk nella versione pittorica che  Chagall stesso dà dell'incontro con la moglie.

Vi erano sì i pensieri, ma lasciavano fuori qualsiasi elemento di cupezza o semplicemente di astio che avrebbe potuto sciupare la purezza di quel momento. La gioia li avvolgeva impedendo alle brutture del mondo, dell'Italia fascista, dell'industria meccanica, del nonno ambizioso di incrinare il sapore della loro bocche e la tempesta ormonale generata dall'incontro dei loro respiri.

Anche le cose, fuori, parevano immobili e mute nell'intento di non turbare il chiaro di luna che, amplificando e moltiplicando il suo riflesso sulla superficie marina, più liquido e mutevole di essa, aveva a un tempo assottigliato e ingrandito il paesaggio, riflesso di uno spazio metafisico che si era creato nei giovani, un luogo neonato che accoglieva il germoglio di un noi ancora impronunciato.

Sapevano che una notte così non sarebbe potuta tornare, che il desiderio più grande nutrito fino ad allora era stato esaudito, scaturito in quel farsi avanti timoroso e nell'apprendere che le fantasie che costellavano le vite di entrambi si erano incarnate in modo imprevedibile e meraviglioso.

Il comune desiderio, riconoscersi come anime affini, era troppo in opposizione con le necessità della vita e il desiderio di tutti perché l'appagamento che in quel momento era stato accordato potesse altrimenti essere che fuggevole ed eccezionale.

La ruota del tempo aveva continuato a girare al di fuori di quella bolla straordinaria, così lontana dalle vicissitudini pragmatiche, dalle calamità dell'esistenza, dalle illusorie priorità del vivere civile, da far loro dimenticare di appartenere a una famiglia altolocata, la medesima per entrambi, che attendeva con ansia crescente il ritorno all'ovile delle pecorelle smarrite.

Il fatto inconfutabile che appartenessero a una famiglia ben in vista nella società potrebbe illudere la lettrice e il lettore a far credere che i protagonisti avranno vita facile, che si sposeranno senza incontrare ostacoli di sorta, che potranno iniziare quanto prima a studiare il modo di concepire degli eredi, ma proprio perché quel rango doveva essere mantenuto a tutti i costi, le conseguenze del loro legame reciproco furono più gravi, ben più gravi in verità di quanto si potrebbe supporre, perché esso contravveniva una regola non scritta di cui aveva fatto accenno Ignazio il Capitalista a un Fernando incapace di ascoltare perché preda del tarlo della gelosia.

Nel rincasare in piena notte, vestiti di un'espressione estatica, avevano trovato schierati tutti gli appartenenti alla famiglia, compresi i due Ignazio, che di soave non avevano nulla, né nelle pieghe amare delle labbra, né nelle rughe profonde tra le sopracciglia, né nei pugni sbiancati dalla forza con cui le dita premevano nei palmi. In quella cacofonia silenziosa di facce ostili, si distingueva, per la non appartenenza e per la diversa posa, il bell'angelo teutonico tenuto in palmo di mano dall'ingenuità bigotta di Imelda.

Ansgar era l'unico seduto su una sedia portata all'occorrenza nell'androne, un origami scomposto e accartocciato, una posa antitetica a quella cui tutti si erano abituati fino al pomeriggio. Il viso nascosto dai capelli biondi impedì ai cugini di comprendere subito cosa fosse successo, però l'odore di tragedia che trasudava da ogni dove non poteva essere imputabile meramente al ritardo del loro rincasare, il silenzio teso esibito da ogni componente gridava un allarme muto che fece accapponare loro la pelle. La farfalla del loro sentire aveva appena spiegato le ali e non aveva ancora imparato a volare che già era rimasta intrappolata nella vischiosa tela della perfidia.

Il viso di Ansgar si sollevò e,  illuminato dal lampadario a goccia, fu visibile nella sua deformità bluastra, evidente conseguenza di un pestaggio ferino.

Tutti i componenti della famiglia fissarono Fernando, le sue mani, le sue ginocchia, anche Ester si voltò verso di lui, non per incolparlo,  ma per proteggerlo e  scagionarlo dalle accuse che, non ancora formulate, lo avviluppavano.

Prima che uno dei due aprisse bocca, Imelda si avvicinò al nipote e lo schiaffeggiò in pieno volto con la forza che aveva e, dunque, fu il gesto a ferire Fernando più che il colpo. A parte il pessimo benvenuto di tanti anni prima, nessuno aveva mai più usato violenza nei suoi confronti.

Il suono secco e sordo risuonò amplificato nel silenzio spezzando l'incantesimo che sembrava aver avvolto la notte fino a quel momento, nell'incanto e nell'incertezza. Ogni voce in quella stanza si levò  perentoria, stridula, tonante, sarcastica, delusa in una cacofonia distonica che feriva il cuore più che l'orecchio.

Solo Fernando era rimasto immobile, senza respiro, con una mano sulla guancia e l'immagine della zia impressa nella retina. Ester si era messa davanti a lui, frapponendosi ai parenti che si erano avvicinati, allargando le braccia e sollevando il viso dagli occhi pervinca sgranati per la sorpresa di quel benvenuto, incapace di credere che la bellezza di poche ore prima si fosse tramutata in un incubo per la seconda volta quel giorno.

Le domande rivolte ai giovani, parecchie e ripetute, suonavano accusatorie e, proprio per tale motivo, rispondere in tono pacato risultava impossibile.
Solo Ester, comunque, lo stava facendo.

Raccontò una verità parziale, che comprendeva Ansgar e Fernando, il pomeriggio, la sua voglia di allontanarsi dall'appuntamento ordinato dal nonno, la richiesta, esaudita dal cugino, di prendere una boccata d'aria prima di rientrare per chiarirsi le idee. Erano stati tralasciati i baci dati ai due uomini, la frustrazione del primo al Tedesco, la libertà assaporata sulle labbra di Fernando e la gioia dello scoprire di essere ricambiata in modo totale e senza clausole da chi aveva sempre avuto accanto. Quando aprì bocca per difenderlo dall'imputazione di aggressione non ancor ufficialmente formulata, venne trascinata via e rinchiusa a chiave in camera sua da una madre arrabbiata e fuori dai gangheri come non l'aveva mai vista.

Ricacciando le lacrime, Ester attaccò l'orecchio al pavimento per cercare di distinguere, tra le voci, quella di Fernando, ma mai riuscì a sentirla nelle ore che trascorsero prima che la casa riacquistasse la parvenza della consueta quiete notturna. Ester aspettò ancora per un tempo che le sembrò infinito e poi aprì la finestra per ripercorrere la strada verticale che l'avrebbe portata da lui ancora una volta.

Non appena posò il piede nudo sul davanzale, le mani del cugino le cinsero la vita sottile per aiutarla a entrare. Il conforto di essere l'uno nelle braccia dell'altro lenì la sofferenza delle ultime ore.

«Non piangere» sussurrò Fernando baciandole gli occhi umidi.
Erano le prime parole che Ester gli sentì pronunciare da ore, la sua voce non era cambiata pur addolcendosi nel tono. Gli posò la mano sulla guancia colpita dalla madre e scosse il capo, ancora incredula di quello che aveva visto.
Non sapeva cosa fosse successo dopo il suo allontanamento e, ora più che mai, paventava l'idea che suo nonno potesse mandare via il cugino con una qualsiasi scusa.
Il solo pensare alla possibilità che potessero separarli ora che erano così vicini la fece piangere di nuovo.
«Ester, mi feriscono di più le tue lacrime dello schiaffo di tua madre.»

«Voglio dormire qui con te così non ti accadrà nulla.»

Quelle parole singhiozzate gli fecero tornare alla mente la bambina bionda che stringeva la sua Coco, una piccolina che aveva detto di volergli bene poche ore dopo averlo visto per la prima volta, nonostante la madre avesse detto che era un diavolo, e che gli aveva tenuto la mano sul cuore per fargli sentire la sua presenza alleviando il vuoto che perder la sua famiglia gli aveva provocato.
Quella piccolina era cresciuta ed era sbocciata in una sensuale e inconsapevole creatura vestita solo con una bianca camicia da notte di sangallo che stava stringendo in quel momento, una donna che aveva mantenuto quell'antico spirito, generoso, caritatevole, cordiale e puro che lo aveva legato a sé senza alcun vincolo se non la forza profonda del suo affetto.

«Vorrei stare per sempre tra le tue braccia» gli disse Ester mentre si sdraiavano assieme nel piccolo letto.

«Anche io... E sarà così, vedrai.»

«Come fai a esserne certo?»

Fernando le prese la mano e se l'appoggiò al cuore.

«Non lo senti anche tu, dentro di te, che sarà così?»

Ester chiuse gli occhi per sentirgli il cuore battere. Vi appoggiò anche l'orecchio, poi spalancò gli occhi chiari e fissò quelli diversi di Fernando.

«Sì, ma come può essere? È una magia

Il giovane sorrise, spense l'abat jour, e attirò la cugina a sé per tenerla ancora più stretta.

«Alcuni lo chiamano così.»


Ringrazio Marc Chagall per aver voluto illustrare il XVII atto.
Me l'ha detto in una seduta spiritica,
mica me lo sono inventato!

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