X atto
A Imelda stavano molto a cuore le sorti della figlia e si era congratulata con sé stessa per essere riuscita a spiegarle in modo chiaro, meticoloso e didascalico i fatti della vita senza urtarne la sensibilità come, invece, aveva fatto con lei sua madre anni prima.
Ipotizzava che la causa di quei modi brutali fosse perché nordica e in Svezia - era rinomato! - erano barbari, volgari, fin troppo espliciti.
Ricordava ancora l'apprensione della prima notte di nozze e, se non fosse stato per il suo amato Terenzio, avrebbe vissuto quell'esperienza del del del....non riusciva nemmeno pensarlo... in modo assai più traumatico di quanto lo fosse stato.
Anzi, cosa che non aveva mai confessato al prete, se ripensava a quella notte, le veniva un sorriso sognante, sospirava e si augurava che suo marito continuasse a cercarla per per per... niente da fare!
Potremmo addirittura teorizzare che Imelda abbia subito un trauma da geometria solida applicata?
La donna, allora ragazza, ricordava le crude parole di sua madre, avvezza ai termini anatomici perché figlia di medico, e le frasi degne di un libro di fisiologia che descrivevano le fasi dell'accoppiamento come una teoria di solidi geometrici fatti di muscoli, sangue, umori che si compenetravano e fondevano in qualcosa di assolutamente osceno.
Rammentava le guance incandescenti, la bocca secca, la risatina della genitrice che voleva tranquillizzarla riguardo alla natura animale, ai doveri della donna, agli istinti degli uomini.
Se le avessero chiesto di trovare tre parole per quella esperienza sui fatti della vita, queste sarebbero state: imbarazzo, disgusto, oscenità.
Invece lei aveva risparmiato tutto quell'imbarazzo a sua figlia, alla sua dolce Ester che, finalmente, si era accorta che al mondo esistevano altri ragazzi oltre a Fernando.
Non aveva perso tempo e, l'indomani aveva organizzato una cena per pochi intimi per favorire i contatti tra lei e il nobile Ansgar.
Si immaginava già nonna mentre teneva tra le braccia un bel nipotino biondo dagli occhi chiari, tutti e due chiari.
Aveva invitato anche i suoi genitori perché suo figlio le aveva chiesto aiuto per convincere il Capitalista a investire in quell'affare di nuove medicine di cui non aveva capito nulla se non che permettevano di mantenere la linea senza difficoltà... Finalmente anche Ignazio sembrava aver messo la testa a posto!
Ester non aveva chiuso occhio la notte precedente e, dunque, aveva approfittato del pomeriggio afoso per riposare in camera sua. Subito dopo aver tentato di mettere in pratica i consigli di sua madre, si era vergognata del proprio comportamento e, soprattutto, del misero fallimento del proprio operare. Il disgusto che aveva letto negli occhi di Fernando era il medesimo che provava verso sé stessa.
Eppure, anche se disgustato, aveva provato ugualmente a baciarla... Era veramente quello il modo per conquistare un uomo? Giocare come il gatto fa col topo?
In quel momento pensava che l'amore fosse solo un gioco meschino dove c'era un vincitore e un vinto. Quel meccanismo, pur illustrato in modo confusionario da sua madre, le aveva aperto gli occhi: il sentimento messo in poesia dall'alba dei tempi era una menzogna.
Mentre seguiva con lo sguardo i motivi floreali del soffitto affrescato, un metodo che usava per distrarre gli occhi dalla voglia di piangere, si stupì di come apparissero diversi i colori durante il passare delle ore. Il verde fresco delle foglie sembrava appassito e, ora che era quasi sera, le ombre si erano allungate come spettri lungo i muri intristendo le tonalità come per accordarle al suo umore.
Sua madre entrò in camera senza bussare sciorinando un abito da sera che aveva appena fatto arrivare dalla sartoria.
«Metterà in risalto i tuoi colori!»
Imelda la incitò ad alzarsi, sembrava impaziente di appoggiarglielo addosso per confermare la sua teoria cromatica.
«Guardati! Che ti dicevo?» le disse trascinandola davanti allo specchio.
Ester vide solo il riflesso di una ragazza che non voleva diventare donna.
Era un bell'abito verde petrolio con un ricamo macramè sul corpetto e una gonna lunga di raso di seta. Aveva le spalline sottili che le avrebbe lasciato la schiena scoperta, anche se un velo trasparente della stessa tonalità le avrebbe cinto le spalle.
Sua madre, che l'aveva mandata a darsi una rinfrescata, l'aspettava assieme alla cameriera che stava scaldando il ferro per arricciare i capelli. Aveva portato con sé un cofanetto coi suoi prodotti di maquillage fatti arrivare apposta dall'Antica Officina Profumo Farmaceutica di Firenze.
Polvere di riso al profumo di Iris, il rosso per imporporare le gote e le labbra, il bistro usato in polvere per scurire la palpebra e, mischiato all'olio, per evidenziare le ciglia.
Si lasciò trasformare come una bambola e si guardò.
Il suo umore si modificò all'istante. In quella nuova Ester c'era qualcosa di bello. Si sorrise allo specchio e la cameriera trattenne una risatina.
«Vi trovate bella, eh, signorina? Lo siete, lo siete!»
Sua madre le appoggiò le mani sulle spalle, mentre la cameriera usciva lasciandole sole.
«Stai proprio diventando donna,» sospirò con la voce incrinata, «avrei voluto che tu rimanessi la mia bambina ancora per un po' di tempo, ma vederti così bella mi riempie d'orgoglio. Ti piaci?»
Ester abbracciò sua madre, i pensieri del pomeriggio sembravano svaniti.
Forse l'amore poteva essere veramente come quella cosa bella che sognava da bambina quando dormiva assieme a Fernando.
Forse si era sbagliata.
Forse Fernando l'avrebbe vista come donna e non come una sorellina.
Fernando, invece, non aveva partecipato alla cena quella sera.
Quando si era scusato con Imelda, la zia sembrava addirittura contenta che lui dovesse incontrarsi con un possibile socio e gli aveva fatto gli auguri per l'accordo condendolo via senza altre cerimonie.
Avrebbe voluto passare a salutare sua cugina per fare pace, sempre che quello della sera precedente potesse chiamarsi litigio, ma la camera di Ester era stata presa d'assalto da un esercito di cameriere capitanato dalla zia.
Cosa le avevano fatto?
L'avevano agghindata come una bella statuina per fare bella figura su Ansgar?
Non c'era bisogno, quel damerino biondo era già più che preso dalla bellezza eterea dalla fanciulla.
Mentre lui parlava di macchine, lei gli avrebbe sorriso?
Si sarebbero appartati?
Si sarebbe fatta baciare?
Aveva sempre pensato che le avrebbe dato lui il primo bacio, ma ora non ne era più così certo.
«Ingegnere? Ingegnere, cosa ne pensate?»
Sollevò gli occhi dalla pasta allo scoglio e guardò l'uomo che gli sorrideva. Si era distratto, chissà di cosa stavano parlando?
«Non sono ancora ingegnere.»
L'uomo dai capelli sale e pepe e il pizzetto curatissimo, mise le mani sul ventre gonfio e rise.
«Non si parla d'altri che di voi tra gli accademici. Quando potrò vedere i disegni nei dettagli?»
«Solo dopo che avremo firmato gli accordi. Voi capite, don Salvatore, che questo motore cambierà la storia dell'automobile...»
«Si dice che andrete a Pisa per conoscere Enrico Fermi e che, forse, lo stesso Duce vorrebbe parlare con voi tanto che...»
«Don Salvatore, voi date retta ai pettegolezzi!»
L'uomo aveva assottigliato le labbra e si era sporto sul tavolo.
«State attento, Fernando,» disse sottovoce cercando di recuperare un sorriso di circostanza per far intendere altro a chiunque li stesse osservando, «ho sentito che voi avete destato molto interesse tra coloro che progettano macchine belliche.»
«Io non costruirò più nulla che possa uccidere un altro essere umano.»
«Voi dite così che siete giovane, ma quando vedrete gli svànzichi piovere dal cielo, cambierete idea.»
La succulenta pasta allo scoglio era stata cucinata ad arte, al dente come piaceva a lui, con solo un'ombra di pomodoro e la scorza grattugiata del limone. Eppure non se la gustava perché non riusciva a pensare ad altro se non a cosa stesse mangiando Ester in quel momento e, soprattutto, a con chi stesse parlando.
Ester toccò a malapena il sorbetto al limone, così come aveva appena assaggiato le sette portate servite durante la cena.
Doveva proprio aver deluso Fernando se non si era presentato. Suo padre le aveva detto che era uscito per parlare di affari, ma era sicuramente una scusa per non vederla.
Si era aspettata di scambiare due parole con lui già quella mattina, durante la lezione di matematica, invece le aveva fatto sapere, tramite la cameriera, che doveva lavorare a dei progetti non ben specificati e che avrebbero dovuto rimandare lo studio della goniometria.
Se non fosse stato arrabbiato, sarebbe venuto comunque a salutarla e ad assegnarle due esercizi, invece nulla.
A pranzo era rimasto chiuso in camera e si era fatto portare una mozzarella.
E poi era uscito senza salutarla.
Erano due ore che sorrideva e rispondeva con garbo ad Ansgar, due ore in cui avrebbe preferito piangere sciogliendo tutto il trucco. Il tedesco le aveva detto, in tre lingue diverse, quanto fosse bella e che quel vestito le faceva risaltare gli occhi.
Suo fratello e Gilles, invece, sembravano molto più interessati al nonno o, meglio, a come fare per scucirgli una bella somma di denaro per l'affare delle amfetamine.
Suo nonno aveva già glissato il discorso un numero considerevole di volte adducendo come scusa che ci fossero a tavola due signore, ma Ester avrebbe dato chissà quale cifra per non sentire sua madre fare le sue lodi ogni due per tre con l'intento di fare colpo su Ansgar.
Sua nonna, come sempre, non era venuta a cena, preferendo la solitudine del suo palazzo e i suoi libri.
Suo padre era l'unico che s'era accorto del suo vero umore e le aveva ripetuto più volte che Fernando avrebbe rincasato presto.
Ma non era stato così: erano quasi le undici e di lui non c'era nemmeno l'ombra. E, comunque, si sarebbe subito accorta del suo ritorno visto che il rombo del motore della sua Alfa Romeo Super Sport 1929 amaranto non passava inosservato. Forse stava scarrozzando quella moretta intrigante che, a vedere quel bolide che gli aveva regalato suo padre, chissà quali moine gli avrebbe fatto. Si sarebbe ancora strofinata ma, con lei, Fernando non si sarebbe tirato indietro. Perché quella ragazza non era come lei, ci sapeva fare con gli uomini.
Era sempre più nervosa e non vedeva l'ora di alzarsi da tavola, ma la pendola, quella sera, si era presa una vacanza.
Si stava addormentando sul piatto, quando gli uomini decisero di andare nello studio a fumare e lei potè uscire in giardino. Camminò verso il cancello d'ingresso, senza sapere perché, ma con la speranza di vedere tornare la macchina amaranto.
Nulla, la notte continuava a essere silenziosa.
Camminò verso l'agrumeto. Il profumo dei limoni, che si acuiva di notte, le dava sempre un certo conforto, ma quella sera nulla le avrebbe calmato il battito del cuore.
«Mi stavi aspettando?»
I piedi si bloccarono sul selciato e la peluria s'irrigidì sulle braccia increspandole la pelle. Le luci del palazzo erano vicine, ma aveva paura di trovarsi lì da sola con Ansgar.
«Ho fatto due passi e stavo rincasando per andare a dormire.»
«Ti accompagno.»
«Non è necessario. Sarai uscito per passeggiare...»
Il ragazzo le si era avvicinato e aveva allungato una mano verso di lei carezzandole la spalla nuda.
«Hai freddo?»
Senza attendere una risposta, il tedesco si tolse la giacca e gliela drappeggiò sulla schiena, approfittandone per avvicinarla al petto.
«Ti ho già detto che sei bellissima? È tutta la sera che voglio insegnarti a baciare, così nessuno ti potrà più prendere in giro.»
Ester fece un passo indietro, ma le mani forti del giovane la trattennero.
«Ti ringrazio, ma sono stanca... e non mi va.»
Lui fece una risatina e le mise una mano sotto il mento per alzarle il viso.
«Normale essere così nervosa, ma sarò gentile con te, vedrai.»
Ester boccheggiò e spinse le mani sul suo petto, senza però spostarlo di un centimetro.
«Ho sentito mia madre chiamarmi, sarà preoccupata...»
«Mi ha mandato qui lei.»
Sentì le braccia imprigionate in quella stretta poco gentile e la bocca ariana calare su di sé come una mannaia.
Sapeva di fumo, di barolo chinato, di acido.
Le sue labbra cercavano di schiuderle le sue, ma lei teneva i denti serrati. Riuscì a voltare il viso e a dire solo «No!» prima che lui le glielo rigirasse con forza.
Cercò di divincolarsi muovendo le gambe e il bacino e lui rise.
«Ah, così vuoi molto di più di un bacio? Fai la santarellina, ma non lo sei, eh?»
Si ritrovò una mano sul sedere che la spingeva verso qualcosa che la metteva a disagio senza sapere perché e, prima che svenisse dalla paura, qualcuno di molto forte staccò quel disgraziato da lei facendole ritrovare il respiro.
Il Tedesco, come vela portata dalla bora, era sospinto verso la villa da una teoria di calci sul deretano che avrebbe ricordato nei secoli a venire.
L'aria profumata di limone sembrò accendersi di vita grazie alle urla e alle imprecazioni in tedesco di un giovane che, da lì a poco, sarebbe stato scaraventato fuori dal cancello assieme ai suoi due compari.
Nell'immagine l'Alfa Romeo Super Sport 1929.
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