II atto
La mattina seguente il palazzo fu svegliato dalle voci di Terenzio e Imelda.
Ester aveva appena fatto in tempo a legare la mano sinistra dietro la schiena a Fernando che le urla perentorie di suo padre l'avevano fatta affrettare verso l'albero per tornare nella sua camera.
In diciassette anni di matrimonio non era mai successo che i due sposi avessero un diverbio di tale entità oppure, qualora fosse successo, erano stati bravi a non far trapelare nulla oltre la loro camera da letto.
Tutti, nel palazzo, sapevano di cosa stessero discutendo. La servitù era divisa in fazioni: c'era chi dava ragione a lei, chi a lui, c'era anche chi concordava con entrambi, ma nessuno si esimeva dal dire la propria opinione sebbene non richiesta e ininfluente, un po' come succede ora coi reality.
L'oggetto di discussione era, ovviamente, quanto era accaduto la sera prima.
Terenzio si era svegliato furioso con sé stesso per il tipo di accoglienza che aveva riservato al nipote, orfano e sottopeso. Non solo lo aveva incolpato per l'amenità di avere gli occhi di colore diverso, ma perché aveva usato la mano sinistra per mangiare quello che doveva essere il dolce in suo onore, trasformando l'onore in un incubo.
Ed era stato proprio un incubo a metterlo di fronte alla verità.
La coscienza di Terenzio aveva indossato le sembianze di Giovanni buonanima per rimproverarlo di come avesse trattato il suo amato figliolo e per ricordargli di quello che aveva fatto per lui quando il loro padre era migrato in America.
In stile Dickens, il fantasma gli aveva fatto rivedere in moviola le proprie azioni.
La verga impietosa che lacerava la pelle, gli occhi acquosi della sua piccolina mentre stringeva terrorizzata il coniglio di pezza, il disgusto disegnato sulle labbra di Ignazio su cui mai aveva alzato la mano.
E la paura riprovevole di sua moglie verso ciò che suo nipote rappresentava secondo la superstizione popolare.
Imelda aveva sostenuto con fervore che avrebbe accolto quell'orfano, ma che era suo dovere morale correggere il male che era entrato in quella casa e che, forse, con la preghiera, con la devozione, con la lettura dei testi sacri, con l'ausilio di un esorcista e, soprattutto grazie alla verga di faggio, Dio avrebbe avuto misericordia della loro famiglia.
Le farneticazioni in crescendo avevano fatto uscire dai gangheri Terenzio che era entrato nel salone, ove veniva servita la colazione, urlando il nome del nipote.
Fernando si era scapicollato per le due rampe di scale di marmo, pregando, in cuor suo, che lo zio volesse solo informarlo che aveva deciso di rinchiuderlo in un collegio. Era entrato nella stanza trattenendo il respiro e si era avvicinato all'uomo quel tanto che bastava per dimostrare sia il proprio coraggio nel non arretrare davanti alle difficoltà, sia il proprio buonsenso nel tenersi a una distanza che gli avrebbe permesso di sottrarsi a uno schiaffo.
Terenzio lo fissava con gli occhi iniettati di sangue e le mani strette a pugno, livide tanto le unghie erano conficcate con forza nel palmo.
Erano così intenti a fissarsi che nessuno dei due si accorse dell'ingresso di Ester e Coco.
L'uomo squadrò il nipote, i suoi occhi diversi, le guance scavate, la mano legata dietro la schiena e, quando fece un passo verso di lui, si ritrovò la figlia allacciata alle gambe.
«Papà, ti prego. Non gli fare del male!»
Quel gesto sorprese Fernando e, ancor di più, Terenzio che capì di aver perso la stima della bambina. Nel guardarla in volto vedeva gli occhi pervinca risaltare ancor di più per il rossore della sclera messa a dura prova del pianto. Col cuore colmo di vergogna, si chinò per prenderla in braccio mentre pensava a cosa fare per non perdere né l'affetto di Ester né l'orgoglio.
A togliere dall'imbarazzo l'uomo ci pensò Imelda che, coi capelli lasciati sciolti per la prima volta in diciassette anni, entrò e s'accomodò al suo posto senza dire nulla. Attese che gli altri si sedessero, guardò l'orologio e annuì quando vide che almeno le sfogliatelle venivano portate in tavola all'ora giusta.
«Tuo fratello sta ancora dormendo?» chiese a Ester quando la lancetta dell'orologio segnalò che erano passati cinque minuti dalle nove.
Ignazio li raggiunse in quel momento, trascinando i piedi e sbadigliando come se non fosse successo nulla. Era possibile, in effetti, che fosse ignaro del litigio dei suoi visto che era così indolente da sembrare addormentato da sveglio e morto da dormiente.
Ester, seduta accanto al cugino, lo spiava di sottecchi stare rigido e con gli occhi bassi, senza osare servirsi delle prelibatezze che erano state servite. La bambina prese una sfogliatella tiepida e si alzò per posarla sul piattino del ragazzo, cosa che causò un singulto a sua madre.
«Signorina! In questa casa non è tollerata la maleducazione...»
«Imelda, taci. Per favore.»
Terenzio, stizzito come non mai, si alzò dal posto di capotavola, si fermò un attimo dietro la sedia della figlia per posarle le mani sulle spalle, poi fece due passi per piegarsi sulla schiena del nipote e liberargli la mano imprigionata. Facendo attenzione, aprì con delicatezza le sua dita contratte per vedere le condizioni del palmo, spalancò gli occhi e assottigliò la labbra. Senza dire altro, appallottolò bende e corda per posare l'involto sporco di sangue accanto alla tazza di caffè della moglie, si chinò per baciarla sulla guancia e le sussurrò qualcosa all'orecchio che la scandalizzò per un attimo, prima che si riappropriasse della consueta espressione di cristiana modello.
Il cameriere portò frutta, altro caffè e apparecchiò per un altro ospite. Poco dopo, Ignazio, il padre di Imelda detto il Capitalista, entrò, col consueto passo lungo e ben disteso. Pur essendo sulla sessantina, aveva un aspetto giovanile e curato, coi capelli ancora neri naturali, gli occhi di pece, i baffi a manubrio e il sigaro sempre in bocca. Le malelingue dicono che sia stato addirittura seppellito con un cubano stretto tra i denti. Era così energico che alcuni pensavano avesse una riserva di pile al posto delle ossa, il suo vocabolario personale era scevro di parole come fatica, riposo, dormire. Proprio per questo non si capacitava di avere un nipote indolente, con l'aggravante dell'omonimia per giunta.
Lui era il vero capofamiglia perché Terenzio era in grado di garantire l'elevato tenore di vita a sua moglie e ai suoi figli solo perché lavorava per il suocero. Non che ne fosse succube, sia chiaro, ma non godeva di certo di tutte le libertà, del tipo che non poteva domandargli in modo diretto che cosa ci facesse alle nove del mattino della domenica in casa sua non invitato e senza avvisare.
Ignazio aveva sempre un motivo per cui faceva una visita.
Il tempo è denaro, unica citazione di Sir Francis Bacon che conoscesse, sembrava essere stata scritta su misura per lui perché quell'uomo produceva capitale in ogni momento della sua esistenza e non faceva (quasi) nulla che non arrecasse un profitto.
Questa volta, erano ben due le ragioni del suo avvento.
In primis, portare un rimedio farmacologico per curare l'indolenza del nipote.
Vi immagino mentre fate un sorrisino nel leggere quanto sto per scrivere, ma sappiate che l'azione fu fatta con un intento amorevole.
A quel tempo, la cocaina veniva suggerita, dopo i già citati studi di Freud, come rimedio per la noia esistenziale, l'agitazione delle donne, l'appetito eccessivo e l'indolenza. Dopo attenta valutazione su come far assumere al ragazzino il principio attivo, decise di optare per quella che sembrava la soluzione più ragionevole e meno invasiva, ossia facendogliela fumare. L'amorevole nonnino si era fatto preparare dal farmacista una ventina di sigarette di pasta di coca, così, giusto per vedere se funzionava sul nipote.
Alla prima boccata, il quindicenne, che mai si era acceso una sigaretta, sputò i polmoni per quanto tossì, cosa che deluse il nonno tanto che questi si fumò il cubano e la sigaretta di coca in contemporanea per dare il buon esempio sul comportamento corretto di un vero uomo.
Ignazio il giovane, che iniziava solo in quel momento a guadagnarsi il soprannome di cocainomane, finì da bravo la sua medicina e perse l'indolenza. Sembrava elettrificato, si muoveva convulso, agitato e verboso, fin troppo espansivo, tanto che i genitori, ancora sotto shock per la litigata mattutina, mandarono, telepaticamente, Ignazio il vecchio a dare via i piedi.
La cosa sorprendente è che il nonnino si era anche lui fumato un'intera sigaretta di coca senza che il suo umore o il suo comportamento fosse variato di una virgola, insomma non sembrava strafatto come il nipote... del resto campò cento anni. (Il tizio che viene sempre portato a esempio dai fumatori, mio nonno fumava ed è campato cento anni, era Ignazio che, una volta buonanima, è diventato il nonno di tutti i viziosi.)
Persa l'indolenza (e guadagnata una dipendenza), il nonno si premurò di affrontare il secondo punto del suo personale ordine del giorno.
In secundis, accertarsi delle capacità di Fernando.
Se la cocaina non avesse funzionato sul nipote, Ignazio il Capitalista avrebbe dovuto valutare altri candidati a cui affidare i suoi affari. Terenzio se ne occupava già, ma non aveva fiuto e doveva sempre spiegargli come cavare il sangue dalle rape perché da solo non ne era capace.
L'astuto signore esaminò il ragazzino senza trovare nulla di disdicevole nel suo aspetto e zittendo la figlia quando aveva rimarcato l'ovvio, ossia che Fernando aveva due occhi di colore diverso ed era mancino.
Gli chiese cosa avesse studiato e cosa volesse fare da grande, ma non attese risposta perché, subito, lo interrogò con domande di carattere generale, a cui il ragazzo rispose correttamente, e gli fece fare i conti a mente.
Fu a questo punto che Fernando mostrò uno dei suoi talenti, cosa che rafforzò la tesi demoniaca di Imelda, sorprese Terenzio e inorgoglì Ester. (Ignazio il giovane era strafatto e quindi la sua reazione non rientra nella casistica.)
L'orfano, non solo aveva una rapidità di calcolo fuori dal comune, ma era in grado di compiere operazioni che solitamente facevano i liceali.
«Dimmi: quando si accorse tuo padre di questa tua capacità?»
«Quando avevo quattro anni, signore.»
«Ti ha fatto studiare anche con un precettore?»
«Sì, signore.»
Il vecchio si accese un altro cubano e aspirò contento.
«Bene. Ti manderemo nelle migliori scuole per proseguire ciò che ha iniziato di tuo padre.»
«Papà, anche Ignazio deve frequentare le scuole migliori...»
Senza dare retta alla figlia, il capofamiglia si alzò e se ne andò, contento di aver preso due piccioni con una fava.
Trovi un approfondimento storico e farmacologico sulla cocaina.
⚠️La cocaina è una delle droghe più pericolose esistenti: può distruggere la tua vita e quella dei tuoi familiari!
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