I atto
L'immobilità era l'unica strategia che gli era venuta in mente affinché l'incontro con gli zii sconosciuti andasse per il verso giusto.
L'undicenne Fernando sostava nell'ingresso della residenza estiva del fratello preferito di suo padre e aspettava che questi lo raggiungesse. Sperava che l'esercizio dell'immobilità lo rendesse invisibile al personale che si affaccendava nella prima ora del meriggio in modo che gli inevitabili pettegolezzi non raggiungessero gli zii prima di fare la sua conoscenza.
Ignorando con quali parole il prete dell'orfanotrofio lo avesse descritto nelle lettere, teneva gli occhi bassi e premeva una mano sull'addome per tentare di limitare meccanicamente i borborigmi provenienti dallo stomaco ormai vuoto da quasi due giorni. Indipendentemente dalle parole dell'uomo di Chiesa, la permanenza in quel tugurio di minorenni dimenticati lo aveva messo davanti a una verità che, fintanto che i suoi genitori erano in vita, aveva ignorato. Del resto, ancora non era entrato nella sua nuova casa che l'autista, andato a prenderlo alla stazione di Vietri sul Mare, nel vederlo, aveva mascherato un ghigno dietro il fazzoletto con cui aveva finto di soffiarsi il naso, mentre il maggiordomo che gli aveva aperto la porta aveva tossito per dissimulare il disgusto. Meglio rimanere immobile e tenere gli occhi bassi affinché nessun altro si accorgesse di lui. Se solo avesse avuto ancora fiducia in Dio! Almeno avrebbe potuto pregare che suo padre gli avesse raccontato la verità al riguardo della bontà d'animo del fratello...
Non era mai entrato in una dimora altrettanto sontuosa, un palazzo di marmi di Carrara e vetrate policrome che dominava il Golfo di Amalfi circondato da una corte di agrumi che aggiungeva al salmastro marino il profumo floreale dei limoni. L'ingresso, ornato con quadri di grandi dimensioni e statue delle Grazie, più che accoglierlo, sembrava volerlo respingere ed è forse per questo che nell'immobilità Fernando ricercava una perfezione che era ben lungi da sentire.
Lo zio Terenzio fu il primo a comparire. Lo chiamò per nome dalla cima dell'ampio scalone a due rampe sulla cui tromba vegliava un lampadario di Murano bianco di dimensioni ragguardevoli. Mentre scendeva velocemente, tradendo il suo entusiasmo, continuava a ripetergli quanto fosse benvenuto e quanto lo attendessero tutti, soprattutto la cuginetta.
Fernando dovette interrompere suo malgrado l'immobilità per tentare di reclutare la dignità che denutrizione e sporcizia dei passati mesi avevano attutito. Nel raddrizzare la spina dorsale, le sue movenze assomigliarono al serpente che, ipnotizzato dal suono di un flauto, esce dalla cesta. Sensi all'erta e occhi mobili, pronti a valutare ogni minimo segnale di pericolo e a individuare una via di fuga, anche se, nel suo caso, non era contemplata alcuna possibilità di fuggire al suo destino. Con un atto di coraggio, puntò lo sguardo sullo zio che, nel vedere la particolarità fino a quel momento ignorata, si fermò sull'ultimo gradino zittendosi all'improvviso.
Occhi negli occhi, nipote e zio ebbero modo di studiarsi a vicenda. Il ragazzo ammirò il portamento fiero, i lineamenti cesellati del volto e il vestito di ottima fattura che metteva in risalto le fattezze dalle proporzioni in armonia con le statue dell'ingresso. Per contrasto, si sentì ancor più misero nei suoi vestiti fin troppo corti e larghi, nei capelli che dalla morte dei genitori non erano più stati tagliati e nell'odore che emanava il suo corpo, un puzzo che, invece di affievolirsi, si acuì nello scontrò con l'acqua di colonia 4711 dello zio.
«Condoglianze.»
Dal canto suo, dopo averlo visto in volto, Terenzio non riuscì a dire nient'altro. Innanzitutto la somiglianza col defunto Giovanni lo aveva riportato indietro nel tempo, facendogli provare quell'indimenticabile fame d'aria di cui soffrì per un un paio d'anni dopo l'abbandono paterno. Fu soprattutto, però, la paura dell'imprevedibilità della reazione che avrebbe avuto la moglie a spingerlo a domandarsi se avesse fatto bene ad accogliere quello che, in fin dei conti, era uno sconosciuto.
Nipote e zio smisero di studiarsi a vicenda quando dal giardino comparì zia Imelda con un mazzo di Iris in mano. La donna degnò di un fuggevole sguardo il nuovo arrivato, chiamò una cameriera per essere sollevata dal fardello e, solo dopo aver raccomandato le cure necessarie al bottino floreale, sembrò accorgersi di lui.
Fernando ammirò il camminare a piccoli passi della zia, come se le ginocchia fossero legate tra loro, e lo sbuffo disegnato in aria dalla mano su cui svettava un diamante. Tutto in lei sottolineava l'origine nordeuropea, a partire dall'altezza superiore a quella delle donne italiane, passando per i capelli chiarissimi e gli occhi grigi, fino all'ostentazione di un sorriso che non superava mai le labbra.
Senza ancora rivolgergli la parola, si limitava a squadrarlo da capo a piedi in modo così ostentato che Fernando aveva abbassato lo sguardo come aveva imparato a fare dopo che il prete aveva iniziato ad additarlo come l'espressione terrena della volontà del maligno. La zia si era avvicinata, le vedeva i piedi, calzati da sandali coi lacci sottili, le cui dita si arricciavano e distendevano in un concerto silenzioso suonato dall'andirivieni della servitù.
«I tuoi genitori non ti hanno insegnato le buone maniere?»
La voce, in contrasto con il significato delle parole, modulò il trillo di un flauto e il ragazzino fu costretto a rivelare quanto era diventato ormai inutile tentare di nascondere.
Imelda non riuscì a dissimulare la sorpresa. Con la mano alla bocca per non urlare, guardò il marito scrollando la testa.
Fernando sapeva che l'aspetto selvaggio guadagnato in quei mesi aveva accentuato la stravaganza del colore dei suoi occhi, rendendo il suo aspetto ancor più inquietante di quanto non lo fosse abitualmente. I suoi occhi, infatti, avevano un colore peculiare perché uno era chiaro tanto l'altro era scuro. Di quattro fratelli, solo lui era nato così, ma nessuno prima del prete aveva mai avanzato l'ipotesi, per lo meno in sua presenza, che ciò potesse essere foriero di una colpa assai grave.
L'eterocromia non è frequente ma, mentre in un mondo variopinto come quello attuale passa quasi inosservata, in passato era lo stigma di Satana.
Gli zii ora fissavano i suoi occhi diversi: chissà cosa stavano pensando? Forse di rispedirlo da quel prete in orfanotrofio?
Ester aveva quasi sei anni quando vide Fernando per la prima volta.
I suoi genitori le avevano detto che sarebbe venuto a vivere con loro uno dei cugini rimasti orfani, raccomandandosi di non fargli i dispetti e soprattutto di farlo sentire a casa visto che aveva avuto un lutto grave. Lei lo aveva aspettato per due settimane, spiando dalla finestra e domandando continuamente a tutti quando sarebbe arrivato. Era, però, riuscita a perdersi l'ingresso del nuovo venuto perché nessuno l'aveva informata che quello era finalmente il giorno giusto e così aveva fatto il sonnellino come al solito.
Quando aveva saputo del suo arrivo, si era precipitata nel salone ma lui non c'era.
Avrebbe dovuto portare ancora un po' di pazienza: l'avrebbe conosciuto a cena perché adesso dovevano renderlo presentabile, così le aveva detto la cameriera facendole l'occhiolino.
«Cosa vuol dire presentabile?»
«Lavarlo e sistemargli i capelli.»
«Li ha lunghi?»
«Adesso li ha corti.»
«È triste?»
«Non mi sembra.»
«Vorrà giocare con Coco anche se è birichina?»
«Certo, signorina. Sarà contento di farlo.»
Ester, non contenta, aveva cercato di carpire dal maggiordomo e dal cameriere personale di suo padre qualche dettaglio in più, ma questi non avevano fatto altro che borbottare, tossicchiare e scrollare la testa.
In compagnia dell'inseparabile Coco, un coniglietto di pezza dalla forma di una sfera con due orecchie lunghe, si era arrampicata sull'albero che univa camera sua a quella del nuovo arrivato, al secondo piano, esattamente sopra la sua, senza riuscire a vedere nulla perché le cameriere avevano lasciato gli scuri socchiusi. Così aveva dovuto attendere la sera per soddisfare la propria curiosità.
Poco prima di cena, durante le presentazioni, Fernando aveva tenuto gli occhi bassi e aveva allungato la mano per stringerla a suo fratello Ignazio, ma a lei, sua madre, non lo aveva permesso.
L'orfano, alto quasi quanto il cugino nonostante avesse quattro anni di meno, aveva alzato di scatto la testa per la sorpresa di dover assistere a un simile atto di stizza e aveva guardato la cugina in viso per la prima volta. La bimba aveva così potuto vedere ciò che lui aveva cercato di nascondere.
«Sono bellissimi!» aveva esclamato battendo le mani davanti al viso.
La voce dell'innocenza fece sorridere Fernando per la prima volta da quando era in quella casa. Ester, spalancando gli occhioni color pervinca e svicolando dalle sottane della madre di cui sembrava una copia in miniatura, si era avvicinata per presentargli Coco. Lui aveva afferrato la sfera di pezza con estrema cura, non come faceva Ignazio che la calciava lontano per divertirsi, e aveva stretto un'orecchia nel dirle «Lieto di conoscere tutte e due», guardandosi bene di non toccare la piccola per non ripetere l'esperienza di poco prima.
«Perché hai gli occhi diversi?»
Il ragazzino aveva piegato le ginocchia ossute per essere alla sua altezza, si vedeva che era abituato a prendersi cura dei fratelli, e le aveva accennato un pizzicottino sulla fossetta, gesto che aveva allarmato gli zii e intenerito la bambina.
«Sono nato così.»
Suo padre l'aveva subito presa in braccio e aveva invitato tutti ad andare a cena.
A tavola, Fernando aveva mostrato modi impeccabili, degni di quella nobildonna che era stata sua madre, e tutto era andato senza intoppi fino al momento del dessert quando, per gustare il biancomangiare al limone fatto apposta in suo onore, aveva preso il cucchiaino con la sinistra ammutolendo la zia e, di conseguenza, lo zio. Imelda aveva fulminato il marito con lo sguardo. L'uomo, sebbene avesse borbottato qualcosa a proposito del fatto che il ragazzo era appena arrivato, non aveva fatto desistere la moglie dall'ordinare che le venisse portata la verga di legno di faggio.
«Il demonio si approfitta del buon cuore delle persone per instillare il peccato.»
«Imelda, è qui solo da qualche ora...»
La donna colpì la mano sinistra del nipote con scudisciate sempre più impietose, fino a quando vide stillare il sangue.
Ester, ammutolita dal gesto più crudele a cui avesse mai assistito nella sua breve vita, provò vergogna per i suoi genitori che tanto si erano raccomandati di far sentire a casa il nuovo arrivato e, al contempo, ebbe paura che suo cugino decidesse di andarsene.
«Ora puoi pregare per i tuoi peccati e pensare a come redimerti.»
L'orfano, che aveva sopportato la punizione senza lamentarsi né piangere, venne rinchiuso nella sua stanza.
Questo fu il suo benvenuto nella nuova casa.
Ester, abituata a considerare i suoi genitori come persone buone e gentili, rimase molto scossa da quella dimostrazione di violenza, forse perché incapace di darsi una spiegazione.
Quando il palazzo sprofondò nel silenzio, uscì dalla finestra assieme a Coco per arrampicarsi sull'albero fino al secondo piano.
Entrò in punta di piedi nella stanza e si avvicinò al letto.
«Dormi?»
Il ragazzo si tirò a sedere e accese la luce del comodino, pur cercando di rimanere nell'ombra.
«Da dove sei entrata?» Lei indicò la finestra. «Non è pericoloso?»
Ester fece spallucce, gli affidò Coco per salire sul letto e subito gli guardò dietro la schiena perché sembrava nascondere qualcosa.
«Perché tieni la mano lì?» Fernando strinse i denti e non rispose. «Non ti fa male?»
«Tua madre me l'ha legata dietro la schiena perché non sia tentato di usarla.»
«Perché?»
«Alcuni sono convinti che sia la mano del demonio.»
Ester riprese Coco, l'abbracciò stretta e cercò di trovare un senso in quanto le era stato appena detto.
«Ma le mani non ce le ha fatte tutte e due Dio?»
«Sì.» La bambina appoggiò il coniglietto e slegò la mano del cugino. «Tua madre ha detto che mi darà altre scudisciate se la libero.»
Per la seconda volta quella sera, Ester si vergognò dei suoi genitori e cercò di capire perché avessero fatto un lungo discorso a lei e a suo fratello per raccomandarsi di trattare il cugino con estrema cura dato che era così sventurato, così solo, così orfano e, poi, erano stati loro i primi a farlo sentire non voluto.
Aiutò Fernando a muovere il braccio per riattivare la circolazione e guardò la mano liberata.
Il respiro le si mozzò in gola. Era gonfia, segnata, la pelle si era spaccata in più punti mostrando la carne viva non ancora cicatrizzata.
Due grosse lacrime le caddero sul palmo martirizzato, ma non cercò di nasconderle.
«Me la devi legare di nuovo, magari non stretta come prima.» Lei aveva negato con la testolina bionda. «Se non lo fai, sarà peggio.»
«Non voglio farti male.»
«Me ne farai se non la leghi!»
«Non posso farlo domattina?»
«Ti dovresti svegliare prima di tutti e tornare qui...»
La bambina gli sorrise, spense la luce e si infilò sotto le coperte.
«Dormiamo assieme così sarà più facile.»
Il cugino non disse nulla e si stese a sua volta dandole le spalle.
«Tanto tempo fa dividevo spesso il letto con mio fratello Giovanni.»
Ester lo sentì tremare e gli passò Coco.
«Prova a stringerla forte: fa passare tutti i guai.» Dopo qualche minuto capì che, col cugino, il coniglietto non aveva effetto. «Non riesci a dormire?»
Come risposta sentì solo il suo respiro farsi più profondo, ma le sembrò come le volte in cui voleva far credere a sua madre di essersi addormentata.
Si strinse a lui fino ad arrivare a mettergli la manina sul cuore.
«Io e Coco ti aspettavamo da tanto. Non andare via.»
Il respiro del cugino si mozzò e una mano, più grande e calda, si appoggiò sulla sua.
«Non ho nessun altro posto dove andare.»
Dopo un tempo che le sembrò infinito nel tentativo di non cedere al sonno per vegliare su di lui, finalmente Fernando si addormentò sul serio e così lei poté rilassarsi.
«Io e Coco ti vogliamo già bene.»
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