Capitolo 37

Aprire gli occhi era sempre una tortura: le luci dell’ospedale gli parevano troppo intense. Era l’ennesima tortura che si aggiungeva ai dolori che, ogni giorno, lo attanagliavano in ogni arto. Qualsiasi gesto, soprattutto nei primi tempi, costava a Julyen una fatica che non avrebbe mai immaginato. 

Gli avevano dato del miracolato: non erano pochi coloro che l’avevano dato per spacciato. L’esser sopravvissuto a uno squarcio del genere era una storia che, in futuro e se mai fosse tornato al bar del Vicolo degli Ulivi, gli sarebbe bastata per avere pagata qualsiasi consumazione. 

Non si sentivano molte storie su Kiaphus e, tra gli ubriachi, più apparivi spararla grossa, più loro erano disposti a pagare per sentire altri racconti. 

Piegò un braccio a fatica, portandolo sopra la faccia e coprendosi gli occhi: i medici non sembravano aver fatto caso al simbolo sul collo - nessuno l’aveva ancora denunciato? Possibile che quella copertura che aveva acquistato al mercato nero fosse così resistente? 

Un colpo di fortuna, per lui. Un po’ meno per la Anderz che, inconsapevolmente, continuava ad avere una minaccia intorno: avrebbe potuto giocare su quel che gli era successo per ottenere un qualche avvicinamento nei suoi confronti.

Aveva ascoltato alcuni notiziari che gli altri occupanti della stanza seguivano con un qualche interesse pur di far trascorrere più velocemente le giornate lì, nell’ospedale di Grinda, in cui si ritrovava confinato da… un tempo indefinito. Non aveva idea di quanto tempo fosse passato dal momento in cui aveva sentito un’esplosione perforargli i timpani e la sensazione di freddo impossessarsi del corpo.

Ancora aveva dolore a muovere gli arti, si trascinava a fatica in bagno, ma sopportava il dolore, aggrappandosi alle stampelle come se da esse dipendesse davvero la sua incolumità, per sistemare la copertura che, fino a quel momento, gli aveva salvato la vita. Non aveva idea di come avrebbe reagito la Anderz se avesse saputo la verità sul suo conto, ma probabilmente non gliel’avrebbe fatta passare liscia. Ingoiò a vuoto, rabbrividendo al pensiero di immaginare la sua esecuzione: ne aveva viste tante, ma essere sul patibolo, consapevole di avere gli occhi di tutti puntati addosso, di essere al centro delle grida e degli insulti lo spaventata più dell’idea in sé della morte. 

«Armonia… certo che si diverte con l’ironia» ridacchiò uno degli altri uomini, alzando appena il volume della televisione. 

«Chi?» mugugnò Julyen, cercando di voltarsi verso di loro. Teneva gli occhi socchiusi, consapevole che fosse uno dei tanti effetti collaterali delle medicine con cui gli infermieri e i medici lo imbottivano durante il giorno. 

«La Anderz, Tann. Chi altro credi che sarebbe capace di mandare un messaggio così chiaro - andate a quel paese - alla Confederazione con un solo nome?» chiese un altro scoppiando poi a ridere. «Se poi ci pensate, è arrivata qui con la Concordia, ha chiamato Armonia la sua flotta, ma l'unico nome giusto per lei è quello della Discordia».

«Mh-mh» rispose Julyen, tornando a guardare il soffitto. 

«Sarà bello tornare a combattere».
Julyen perse il filo del discorso poco dopo, smettendo di ascoltare i botta e risposta che si alternavano alla voce della conduttrice del telegiornale. Il tempo iniziava a stringere nei suoi confronti, non avrebbe potuto più rimandare troppo quello che aveva intenzione di fare - ciò che Kaeler gli aveva ordinato.

Avrebbe dovuto farlo da tempo, ma Briya si era sempre rivelata sfuggevole: riusciva a scappare anche al destino che gli altri volevano decidere per lei, ma sarebbe arrivato il momento in cui anche lei sarebbe stata protagonista di un crollo. Sapeva che stava arrancando nel cercare di uscire fuori da quella situazione in cui la distruzione di ciò che rimaneva del Patto, la morte di Jareth Edam e lo squarcio della Discordia l’avevano messa. 

Era da sola.

Contro la Proxima Hemithea. 

Non avrebbe resistito per molto, ne era certo. 

«Ehi, Tann» urlò uno dei compagni di stanza, facendo sbuffare Julyen. 

«Che altro volete per oggi? Sto soffrendo già abbastanza senza dover vedere le vostre facce, non torturatemi anche con le voci».

«È l’ora di pranzo, ti portiamo le solite schifezze?»

«Preferirei mangiare la coperta».

«Come preferisci, basta dirlo» gli urlò l’ultimo a uscire prima di chiudere la porta. Li invidiava: loro ormai si erano ripresi ben più di lui, tanto che avevano l’autorizzazione ad andare a pranzo e cena nella mensa comune. 

Quando ricadde il silenzio, si mise a fatica sul letto, allungando un braccio verso le stampelle. Quei momenti in cui era da solo li permettevano di portare avanti quel piano che sembrava assicurargli la salvezza. Aveva il pad appoggiato sul comodino e, di tanto in tanto, quando riusciva ad avere le forze, lo sbloccava, rimanendo a fissare per interi minuti lo schermo, indeciso se scrivere o no a Kaeler: non voleva esporsi, ma quella lontananza così prolungata dal padre ogni tanto lo spaventava. Era cresciuto per essere il suo braccio destro, non poteva tirarsi indietro quando l’intero gruppo di Affiliati della Mano Scarlatta contavano su di lui per togliere di torno l’unico ostacolo rimanente del Patto. 

Dura di testa e dura a morire. 

Si alzò a fatica, appoggiando il piede sinistro a terra e mordendosi un labbro quando l’intera scarica di dolore si spanse dal calcagno all’anca. Cercò di ricordarsi le indicazioni del fisioterapista che aveva visto nei giorni precedenti, ma tutto sembrava inutile. Forse, si disse, sarebbe stato meglio ascoltarlo davvero piuttosto che fissare l’albero fuori dalla finestra.

Strinse i denti, cercando di muovere le braccia per spostare le stampelle. Per quanto la stanza apparisse piccola in quel momento gli sembrava che il corridoio fosse infinito e i quattro letti disposti ognuno in un angolo non lo aiutavano a capire a quanto ammontasse davvero la distanza: se solo nei medicinali ci fosse stato il Chow, avrebbe saputo un minimo come gestire i postumi sul corpo. 

Il pavimento bianco volerlo risucchiare attraverso quelle linee - di poco più scure - che lo attraversavano a distanze regolari, creando una scacchiera. Vedeva sfuocati i contorni di molte cose presenti nella stanza e la cosa lo agitava: era abituato a dover avere tutto sotto controllo, a sapere cosa ci fosse esattamente in ogni angolo e quei medicinali lo confondevano. Non si sarebbe stupito se avesse rivelato a qualcuno la verità dopo che l’ennesimo ago si era infilato sulla pelle del braccio. 

A fatica, si trascinò in bagno, lasciando che la punta del piede destro strascicasse sul pavimento e che i polsi dolessero ogni volta che doveva spostare in avanti le stampelle. La luce si accese non appena si avvicinò alla porta - l’unica cosa buona del luogo: non doveva agitarsi nella ricerca dell’interruttore. 

Chiunque avesse portato lì il suo bagaglio senza controllarlo gli aveva fatto un favore: tutta la scorta di fondotinta che credeva di aver perso durante la battaglia, era lì. Sorrise tra sé, lasciando cadere una stampella in terra e appoggiando la mano al bordo del lavandino per sorreggersi: nessuno aveva fatto caso all’etichetta del barattolo, staccata in un angolo: lasciava intravedere qualcosa di colore diverso, ma per tutti non era altro che il quarto barattolo di sapone sistemato sul lavandino. Aveva segnato il cognome sul tappo, così come gli altri tre compagni di stanza. Mettere le cose in bella vista era il modo migliore per nasconderle. 

Alzò lo sguardo verso il lavandino, osservando il proprio riflesso dai contorni sfuocati: la battaglia lo aveva segnato e anche se non doveva più portare alcun cerotto, era rimasta una cicatrice sulla guancia che gli continuava a ricordare il punto in cui uno dei tanti detriti l’aveva sfiorato.

Lui era il fortunato, il miracolato. 

Il ricordo della morte di Dax e di tanti degli altri compagni di squadra lo colpì all’improvviso, procurandogli una fitta al petto, come se avesse ricevuto un pugno in mezzo alle costole. Non avrebbe mai dovuto affezionarsi a loro, non avrebbe mai dovuto stringere un legame che si sarebbe potuto spezzare facilmente. Quella battaglia l’aveva dimostrato: nessuno poteva essere al sicuro ed era questione di attimi prima che la morte ti raggiungesse nello spazio. 

Sarebbe stato difficile tornare sulla Discordia come se niente fosse, tornare a combattere quella guerra in cui lui non era altro che una delle tante voci che venivano calpestate, ignorate da quelle solo all’apparenza più forti dei comandanti e dei capi politici. 

Allungò una mano verso il rubinetto, spostandola lateralemente con gesti lenti, stringendo i denti ogni volta che una nuova fitta gli arrivava alla spalla. 

Quando sentì l’acqua scorrere, tirò un sospiro di sollievo: il contatto del liquido freddo con il palmo della mano gli regalava qualche attimo di pace. Piegò a fatica le dita, cercando di raccogliere un po’ d’acqua per sciacquarsi il viso: sentiva che l’odore di farmaci e sterilizzante gli si era incollato addosso, ma non poteva fare molto - finché non fosse uscito da lì, non se lo sarebbe tolto. Ignorò il fatto che buona parte dell’acqua gli fosse finita sulla maglietta, ma nessuno ci avrebbe fatto caso. Sbatté più volte le palpebre, cercando di far tornare nitida la vista: non era la prima volta che gli capitava, ma avrebbe dovuto sbrigarsi - il tempo per mangiare dei compagni non era infinito e lui avrebbe dovuto continuare a recitare la parte del ferito normale. 

Allungò una mano verso il proprio barattolo, il più vicino alla doccia che campeggiava nell’angolo: era priva del piatto doccia, cosa che permetteva che l’intero pavimento del bagno si allagasse quasi ogni volta che qualcuno di loro si faceva una doccia. Era finito a terra almeno cinque volte per colpa della pozza ed era quasi felice che, di tanto in tanto, preferissero rimanere con la puzza addosso piuttosto che attentare senza volere alla sua vita. 

C’erano tanti piccoli accorgimenti che sembravano regalare una qualche normalità a lui e agli altri pazienti: non avrebbe mai ringraziato abbastanza le barre che correvano ad altezza della vita per tutto il perimetro, permettendogli di avere un appoggio in più. 

Alzò il coperchio, volutamente lasciato aperto per non dover durare troppa fatica alla volta successiva. 

La consistenza ormai familiare del fondotinta gli accarezzò i polpastrelli quando lo trascinò verso di sé: distingueva a fatica il vero contorno del contenitore, ma sapeva dove fosse, lo riusciva a percepire. 

Allontanò la mano dal barattolino dopo aver sollevato un po’ di fondotinta con le dita; inclinò la testa, toccandosi il collo: per un’altra volta, la fortuna girava dalla sua parte visto che non era necessario spanderlo perfettamente per coprire il segno lasciato da quella condanna. 

Si bloccò sul posto, quando un’altra figura scura comparve sullo specchio. 

«Quindi è davvero questa la verità». La voce fin troppo calma della Anderz gli procurò un brivido su tutta la schiena. «Gav».


L'angolino buio e misterioso

La scena finale non vedevo l'ora di scriverla *saltella*

Ebbene sì, la prossima settimana concludiamo tutto e anche per Armonia gli aggiornamenti saranno il martedì e il venerdì.

Niente, lasciamo Julyen nei guai😬

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