Prologo

Non sapevo quanto tempo fosse passato. Non che mi importasse, a dire il vero. Il tempo aveva cessato di interessarmi non appena avevo realizzato di essere immortale. L'eterno scintillio negli occhi, l'eterea bellezza... stupidi i mortali che desideravano tutto questo.
Vero: la vita umana è breve. Vengono semplicemente sparati in questo mondo per iniziare un lungo processo di decomposizione. Novant'anni se sono fortunati. Nemmeno un secolo per realizzarsi, per fare qualcosa che dia valore alla loro vita, qualcosa che rimanga anche dopo la loro inevitabile morte. Qualcosa per il quale il loro nome possa essere scolpito nella storia.
Tuttavia, nemmeno l'immortalità è così piacevole.
È noiosa dopo un po'. Io avevo riempito i miei primi anni lottando per la noia, causando guerre solo per avere un nuovo obbiettivo su cui concentrarmi, cancellare città e imperi per gioco. L'immortalità fa fare alle persone cose brutte. Beh, ha fatto fare a me cose brutte.
Per un po' ero stata anche eccitata riguardo tutte le avventure che avrei potuto vivere, tutte le storie che le persone avrebbero ricordato, che avrebbero sussurrato con paura, terrore. Il mio nome avrebbe fatto tremare imperatori sui loro troni d'oro.
Il mio nome.
Qual era il mio nome?
Dei, non riuscivo a ricordare.
Ero stanca e vecchia, ma più di tutto, ero sola. E fidatevi di me, l'immortalità diventa una maledizione se la si deve passare in solitudine. E io non avevo nessuno. Non più.
La lama della morte di un regno che ormai non esisteva più, ecco cos'ero: una guerriera senza una guerra, un comandante senza un esercito. Senza nome. Non possedevo nemmeno un nome.
Stavo morendo in una landa deserta, dove la pioggia era solo un sogno, come anche le ombre, ed ero miserabilmente sola.
Non sapevo quando o come caddi. Non sentii nemmeno l'impatto.
Un momento ero a malapena in piedi, trascinandomi, cercando di raggiungere un albero un'oasi, qualsiasi cosa avesse potuto salvarmi da quel mare di polvere... quello dopo, il sole sembrava molto incline a divorarmi, la terra sotto di me, mi bruciava la pelle.
Ma non sentivo nemmeno quello. E quindi rimasi lì, ferma, senza alcuna intenzione o forza di alzarmi, attendendo la fine della mia triste vita. Supposi fosse una benedizione, dopo tutto.
Avevo sempre creduto senza ombra di dubbio che sarei morta gloriosamente, in battaglia, servendo il mio regno, e raggiungendo poi le stelle, per guardare cosa sarebbe venuto dopo. Riposando.
Ma no.
I miei dei avevano altri piani.
Punirmi, ad esempio. Avevo fatto cose brutte, orribili e sapevo che le mie scuse non mi avrebbero mai redento completamente. Forse quello era il prezzo: essere stata strappata da casa mia, costretta a vagare e morire da sola. Avevo più di cento anni e in tutto quel tempo mi ero sempre vantata di essere la loro preferita, per certi versi. O questo era quello che pensavo prima... prima che accadesse tutto quanto.
Il caldo mi tolse improvvisamente il fiato. Tutto sembrava bruciare intorno a me. Dannazione, io stavo bruciando. Ma il sole evidentemente non voleva finirmi. Sentivo la pelle, una volta (una vita fa) candida, ora rossa, spaccata e bruciata in più punti; il mio respiro sembrava più un rantolo, la mia gola stridette e si tese come le corde di un violino scordato e i miei occhi lacrimarono. Non sapevo dire se fossero lacrime di gioia o di tristezza o semplicemente l'ultimo residuo di liquido che lasciava il mio corpo.
Adesso potevo a malapena allungare le dita.
Respirai una, due, tre volte.
La Madre Terra mi stava chiamando, già sentivo le radici e gli animali muoversi sinuosamente tra il terreno, per raggiungere il mio corpo in procinto di esalare l'ultimo breve respiro, pronti per afferrarmi e portarmi giù, giù, giù. Di me sarebbe rimasta solo un'ombra, la mia esistenza sarebbe stata cancellata, nessuno avrebbe ricordato chi ero, nessuno avrebbe ricordato il mio nome. Ma lì, proprio nel punto dove ora giacevo esausta, un elleboro nero sarebbe cresciuto e mai appassito. E tutti coloro che avrebbero visto e riconosciuto il magnifico fiore, che cresceva solo agli inizi dell'inverno, avrebbe realizzato che li era morto qualcuno che una volta era stato importante, così tanto che gli dei avevano fatto crescere un elleboro in quell'arida terra.
Ero sicura, sicura che quel fiore sarebbe cresciuto ed ero sicura che qualcuno si sarebbe fermato, avrebbe sorriso leggermente, alla sua vista, magari si sarebbe fermato per dire qualche parola di preghiera. Nessuno, tuttavia, avrebbe ricordato il mio nome, spazzato via dall'esistenza. Quel pensiero mi fece male, il mio cuore ebbe un sussulto: stava ormai emettendo gli ultimi battiti, spingendo, cercando di andare avanti, di fare un altro sforzo. Eppure al pensiero del fiore, accettai lo sconforto, il dolore la paura. Accettai ogni cosa, bella e brutta che avevo passato, le azioni terribili e quelle meravigliose che avevo compiuto. Mi sentii pronta ad accettare anche la morte.
E improvvisamente fu tutto nero. Ma non era Miris, spirito e dio delle morti gentili. Quando i miei occhi si abituarono all'oscurità, sopra di me, vidi la creatura più maestosa che avessi mai visto. Non ebbi paura. Non mi agitai quando un drago delle dimensioni di un elefante — e quindi ancora un cucciolo — mi sovrastò, la corazza ossidiana che rifletteva i raggi del sole in fasci iridescenti. I suoi occhi erano di un blu profondo, screziati di viola, gemelli dei miei. Lo fissai senza sapere cosa aspettarmi, cosa pensare di quella gloriosa creatura, che sentivo tanto simile a me. Non che mi importasse, a quel punto.
Ma il drago— il drago inclinò il grande muso e si avvicinò  così tanto che le sue narici erano a qualche centimetro dal mio naso ansimante. L'ultimo respiro sembrava non arrivare più. Rilasciai un rauco rantolo. Ero indecisa se chiedere al bestione di muoversi e lasciarmi vedere gli ultimi raggi di sole che, se ero fortunata, mi avrebbero uccisa, o se semplicemente dirgli che se aveva fame, io non avevo altro da offrirgli se non ossa e carne bruciacchiata.
Eppure quegli occhi, quei grandi occhi da rettile che possedevano le stesse sfumature delle mie iridi... mi morì un gemito in gola. Il drago sbatté le palpebre, confuso. Era— era solo un cucciolo e mi guardava come se si aspettasse che mi sarei alzata e che gli sarei salita in groppa e che avremmo sorvolato i cieli insieme fino alla fine del mondo. Ma sapevo che non sarei mai stata capace di muovere un muscolo. Annaspai, feci uno sforzo, provai a muovermi e reagire e lottare, perché a meno che quella non fosse un'illusione, uno stupido scherzo degli dei, non ero più da sola.
Ma non riuscii a muovere altro che le dita, che si contraevano e distendevano freneticamente. Tutto il resto era atrofizzato. Piantai gli occhi su quelli del drago, che sembrava in cerca di spiegazioni, di un segno.
"Fai la tua mossa, bestione" non sapevo se un qualche suono fosse veramente uscito dalla mia bocca secca, dalle labbra spaccate e dalla gola arida, ma il drago ricevette il messaggio.
Riuscii solo a sentire dei grandi artigli afferrarmi saldamente, senza ferirmi, poi l'oblio.

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