16. Rudy

Non ha detto il mio nome, ne ha avuto la possibilità o meglio, sembrava proprio la preposta dei due conduttori a doverlo sputare fuori, ma è rimasta in silenzio. In quel momento ero un fascio di nervi, poi Lenoir mi ha guardato dritto negli occhi, ha ringraziato la Onlus che ogni giorno si batte contro le violenze domestiche ed è uscita dal palco salutando tutti con il suo splendido sorriso e un'andatura fiera di chi è assolutamente consapevole di quel che ha fatto e purtroppo ne attende anche le ripercussioni. Le grida che sento dentro al suo camerino sono le conseguenze.

Nel momento in cui l'altro conduttore è uscito infuriato, dopo qualche minuto di sconcerto le persone hanno iniziato ad andare fuori dal teatro, così, anche Stella e Alessandro si sono alzati; quest'ultimo voleva andare da Lenoir ma sua moglie abbozzandomi un sorriso lo ha trattenuto. Trascinandolo quasi di peso dalla sala immensa verso i taxi, si è voltata facendomi un cenno con la testa in direzione dei camerini. Non ho capito subito cosa stesse indicando, quindi sbuffando per la mia incapacità di afferrare le possibilità al volo, ha mimato con le labbra un, va da lei, piuttosto categorico e sufficientemente velato da non farsi vedere dal marito.

Negli ultimi trenta minuti nessuno è ancora uscito dal camerino di Lenoir, in compenso, di persone ne sono entrate molte. Il collega che era con lei sul palco, una signora molto elegante sulla cinquantina, due ragazze e per ultimo il capo di Lenoir che non ha neppure bussato tanto era furioso. Dentro, le urla sono a livelli massimi ma a causa della porta chiusa non riesco a capire molto, ho intuito che le voci maschili gridano contro Lenoir e una voce femminile, non la sua, sta cercando di placare gli animi con poco successo. Mi sento fuori luogo qua, Stella ha detto di venire ma non ho assolutamente idea se a Lenoir possa far piacere, vorrei potesse capire che apprezzo ciò che ha fatto e sono mortificato che ne debba pagare le conseguenze. Giro i tacchi per andarmene, quando dalla porta escono le due ragazze e la seconda accosta senza chiudere. Adesso sono in grado di ascoltare benissimo ciò che le stanno dicendo, i due uomini sputano veleno e sentenze senza ritegno e le loro parole mi riportano direttamente a quella notte. Sento crescere piano piano la bestia incontenibile che in alcuni momenti fa capolino. Questa volta non sono tre tifosi ubriachi che abusano di lei ma due coglioni che nel pieno delle loro facoltà le stanno urlando contro, e tutto questo accade solo per una mia scelta.

«Signori, dovete placare gli animi» rimprovera i due l'unica donna rimasta nella stanza, a parte Lenoir.

«Io non mi calmo, cazzo. Questa deve fare quello per cui è pagata. Dannazione» dice il suo capo.

«Ben detto» incalza l'altro, «ti avevo mandato una lettera con il nome da dire prima della chiusura e tu mi hai fatto fare la figura dell'imbecille lasciandomi sul palco come un coglione. Avevo la sala con gli occhi addosso.»

«Sia ben chiaro, io oggi dovevo presentare la serata insieme a te, vero?» Riconosco la voce di Lenoir.

Qualcuno mugugna un sì.

«La scaletta è stata approvata da entrambi ieri pomeriggio, ricordi?»

Di nuovo un uomo annuisce.

«E abbiamo provato sia ieri che oggi. Correggimi se sbaglio!» Puntualizza meticolosa.

Nessuno risponde, ma Lenoir imperterrita prosegue.

«E dimmi, caro collega, alla fine della serata dovevamo dire il nome di un presunto benefattore?»

Anche a questa domanda, nessuna parola dai due uomini, ma la donna con voce flebile accenna la risposta tanto attesa da Lenoir. «No, perché il signor Hoffman voleva rimanere anonimo, era stato chiaro.»

«Appunto!» grida Lenoir. «Pertanto, Costanza fai un bel controllo anche alle persone che ti ronzano attorno, perché qualcuno il nome di Hoffman lo ha fatto saltare fuori.»

«Non so come sia potuto accadere» si giustifica.

«Come sia accaduto non lo so, so solo che ti pago per fare ciò che dico io. Tu sei una mia creatura!» urla il suo capo e quelle parole mi stanno facendo ribollire il sangue sottopelle.

«Io non sono la tua scimmietta ammaestrata. A causa di quella clausola sul contratto mi fai vestire come una zoccola, d'ora in poi devo anche saltare sulle zampette e riportarti la pallina da brava cagnetta?»

«Ma senti questa ingrata, tu non eri nessuno prima di incontrare me...»

Quel coglione non è riuscito a concludere la frase, sono entrato dentro al camerino e con un destro l'ho steso lasciando tutti a bocca aperta.

Dopo qualche minuto di gelo iniziale, il presentatore impaurito è corso a prendere del ghiaccio, la signora Agnelli dell'acqua mentre io e Lenoir siamo rimasti in silenzio, l'uno davanti a l'altra con il suo capo a terra che si massaggiava la mascella sinistra ululando come un Chihuahua. Quando l'ho guardata, ho sussultato. Da vicino è stupenda, già durante la serata avevo potuto apprezzarne la figura snella in questo abito strettissimo ma non mi ero accorto di quanto la scollatura fosse profonda.

Si avvicina un po' in avanti toccandomi la mano destra. Il suo tocco è esattamente come ricordavo: morbido e delicato, come una piuma sulla mia pelle.

«Cosa ci fai tu qui?» dice sottovoce, visibilmente stupita.

Ed io come un imbecille non ho idea di cosa rispondere; origliavo la tua discussione e a causa delle parole offensive nei tuoi confronti ho preso a pugni lo stronzo, mi sembra eccessivamente stupida come verità. «Non sapevo a chi rifilare il mio destro giornaliero e, passando di qua per caso, ho scelto lui.»

Sorride mentre si china per raccogliere il fagotto in smoking a terra. «Puoi darmi una mano, per favore?»

Annuisco prendendo l'uomo dalla spalla destra mentre Lenoir lo afferra dalla sinistra.

«Mi avesse fatto scegliere un abito meno stretto, in questo momento, avrei più possibilità di movimento, dannazione.»

Mettendo il malcapitato sulla poltrona noto che è a piedi nudi con le dita magre dipinte di un colore tenue, come le mani. Si lega i capelli sopra la testa con un pennello da trucco, poi sistema la spalline dell'abito per evitare che i seni escano dalla scollatura e io sono totalmente eccitato. Abbasso lo sguardo e capisco che non posso nemmeno tentare di nasconderlo con facilità. Chiudo un bottone della giacca girandomi un po' di lato, mentre il ferito si rianima.

«Ti denuncio, Hoffman. La tua carriera è finita» grida contro di me senza guardarmi in volto.

Lenoir ride scuotendo la testa mentre arrivano gli altri due testimoni oculari. «Marchetti, non denunci proprio nessuno, fallo e ti giochi la sottoscritta. Sappiamo entrambi che sono la tua gallina dalle uova d'oro e non puoi permetterti di perdermi.»

Spalanca gli occhi conscio dell'evidenza dei fatti. Lo sta tenendo letteralmente per le palle.

«Tu» rivolgendosi al conduttore, «non farai parola con nessuno di quello che hai visto stasera altrimenti sputtano il tuo compenso a tutti i giornali, alla faccia della beneficenza. Sai benissimo quanto il pubblico ami questi pettegolezzi.» Volge lo sguardo alla sua destra. «E tu, Costanza, per favore controlla lo staff, queste fughe di notizie non fanno bene all'integrità della Onlus.»

Annuisce.

«Infine, come pattuito, la mia parcella è interamente donata a favore della causa, in più, il signore qui presente» indica Marchetti, «ti seguirà in camerino per poterti girare con un assegno la sua percentuale.»

L'uomo mugugna qualcosa sotto il ghiaccio, ma Lenoir con uno sguardo lo fulmina.

«E adesso vi prego di andare, ho disperatamente voglia di togliermi questo vestito di dosso.»

Tutti se ne stanno andando dalla stanza me compreso, quando mi chiama. «Rudy.»

«Sì?» dico voltandomi verso di lei.

«So che è tardi ma ti va di bere qualcosa insieme quando ho finito?»

Annuisco strizzando l'occhio sinistro prima di sparire dietro l'angolo.

Quindici minuti al massimo. Ha detto prima di chiudere la porta, ed esattamente dopo quel tempo è uscita con addosso un paio di jeans scuri troppo stretti per le mie arterie, una camicia bianca inserita sul davanti nei pantaloni, delle sneakers ai piedi, la borsa a tracolla e sulle labbra il suo immancabile sorriso.

Essendo arrivati entrambi in taxi, abbiamo dovuto chiamarne uno anche per andarcene dal teatro. Lenoir ha scelto il locale, io non sarei stato in grado, con i ragazzi ho frequento solo club e in questo momento nessuno dei due ha voglia di troppe persone attorno. Il posto in cui siamo arrivati è carino e intimo, suppongo che Lenoir conosca i proprietari perché, nonostante sia presente qualche persona all'interno del locale che palesemente ha riconosciuto entrambi, nessuno per adesso ha chiesto autografi o fatto domande. Due ragazze hanno accennato un movimento verso di me, ma l'occhiataccia del barista è bastata per farle desistere.

Non abbiamo parlato fino a quando il cameriere è venuto per il nostro ordine: una birra per lei e un vino rosso per me.

«Un tedesco che ordina del vino rosso?» Inclina la testa di lato e i capelli le cadono sulla spalla.

«Non sono amante degli alcolici e il vino è il migliore dei mali.»

«Allora, alle sane scazzottate!» dice portandosi la birra alle labbra.

«Alle scazzottate» ripeto ridendo dopo di lei.

«Hai bisogno del ghiaccio? Se vuoi chiedo a Giulio, la tua mano è piuttosto rossa» chiede preoccupata dopo un sorso di birra.

«Non importa, mi conosci, sono abituato alle risse!» rispondo scherzosamente, quando mi accorgo che il suo volto si rabbuia.

«Ti devo le mie scuse Rudy, mi sono comportata malissimo ogni volta che ti ho incontrato, ma di fatto io devo ancora ringraziarti per ciò che è accaduto cinque anni fa. Senza di te, non so cosa sarebbe potuto succedere...» Sorride. «E stasera devo farlo di nuovo.» Mentre parla, con le dita sfiora delicatamente la bottiglia di birra e non so perché quel gesto così innocente se fatto da lei mi eccita da morire.

Per quanto io desideri questa donna davanti a me, so benissimo di camminare su una linea sottile. Non è solo un corpo a caso. È molto di più, e mentre mi parla avverto una fitta che non sentivo da anni: paura. È una sensazione inconsueta ma intrigante. Ho fatto centinaia di cose stupide nella vita e non ho mai avuto paura. Non è che non capisca i rischi che corro, è solo che non mi spaventano. Mi rendo conto di non essere normale in questo, ma sono fatto così con il tempo ho imparato ad accettarmi.

Perché sento quest'emozione estranea quando guardo Lenoir? Cosa c'è in lei che mi spaventa? Mi sento follemente attratto... più di quanto lo sia stato da chiunque in tanti anni. È solo questo? Ho sempre avuto una facciata, come se avessi sempre capito tutto e tutti, ma la realtà è che questa donna mi sta tirando fuori, di nuovo, qualcosa che pensavo di aver chiuso cinque anni fa, in camera con lei. E non so come comportarmi a riguardo. «Mettiamoci una pietra sopra e ripartiamo da questo momento» dico cercando di distogliere il cervello da questi torbidi pensieri. Mi ripeto: è la sorella del tuo compagno di squadra e la figlia del mister, cazzo, comportati da uomo e non da adolescente in calore.

Si avvicina con il seno al tavolo e la sua camicia si apre leggermente permettendomi di vedere le spalline del reggiseno. Fremo mentre sussurra: «Ok, mettiamo una pietra sopra su tutto, perché non ho intenzione di fare nuovamente errori...» si avvicina ancora di più, «adesso sei parte della squadra e sarebbe...» socchiude gli occhi in una dolce smorfia da bambina. «Su hai capito di cosa sto parlando, Rudy.»

Un lampo di rabbia scorre nel mio corpo. Errore? Ma mi trattengo perché se dovessi scattare non ci sarebbe possibilità di tornare indietro. Mai.

Mi allungo, invadendo il suo spazio personale, ma lei rimane nella propria posizione, senza distogliere lo sguardo. Il suo profumo rende difficile ogni pensiero. «Se è questo ciò che desideri...»

Sono a tanto così da baciarla. Se dovesse sfiorarsi le labbra con la lingua, come cinque anni fa, non riuscirei a resistere.

«Gradite altro?» chiede il cameriere, distruggendo quell'attimo di pura elettricità.

Mi allontano sospirando e lei fa lo stesso abbassando lo sguardo. Averla davanti è una sensazione piacevole e fastidiosa allo stesso tempo.

Il ragazzo rimane tra noi attendendo una risposta.

Neghiamo entrambi in silenzio.

Guardandosi attorno, come in lieve imbarazzo, Lenoir sbatte le palpebre e sorride. Dopo qualche minuto di silenzio chiede: «Non parli molto.»

«Mi hai spiazzato, solitamente dopo che ho dato un pugno in faccia a qualcuno non mi offrono da bere, mi sbattono sotto la doccia.»

«Questa volta ho preferito portarti a bere qualcosa. Mi sembrava ripetitivo sbatterti» ride prendendosi gioco di me.

Sono in imbarazzo. «Be', non intendevo questo» dico cercando di arginare mentre sento il caldo aumentare nella sala. Sgancio un altro bottone della camicia ma il leggero tremolio della sua voce mi eccita in modo devastante e non posso fare a meno di immaginare la scena di noi due nudi sotto la doccia. Ripeto: figlia del mister, figlia del mister, figlia del mister. Ma il mio pisello non è mai stato così duro e credo, a breve, soffocherà dentro i pantaloni.

«Sto scherzando dai, sciogliti un po' e fai finta di avere davanti una ragazza qualsiasi e non la figlia del mister. Contrariamente a ciò che pensi, quello che dirai non ti si potrà ritorcere contro, mio padre non è un uomo di molte parole, e quella regola vale soprattutto per la sottoscritta che intervista calciatori, diciamo, poco vestita» ammette l'evidenza dei fatti annuendo con la testa.

Puntandole un dito contro l'ammonisco. «Avevamo pattuito, poco fa, di mettere una pietra sopra, sulle nostre pesanti affermazioni. Dicendo così, mi fai sentire in colpa.»

Beve un sorso di birra ed esce dal locale rientrando poco dopo, si siede di nuovo davanti a me, porgendomi la mano destra. «Ciao, mi chiamo Lenoir Leone. Perché ho questo nome strano? Mia madre ha deciso di chiamarmi come un comune del Tennesse, dove presume avermi concepita. Poteva andarmi meglio? Sì, Charlotte sarebbe stato molto figo, ma tra le cittadine visitate dai miei durante quella vacanza c'era anche Whynot, in North Carolina. In quel caso, sarebbe stata una vera tragedia. Lenoir, si pronuncia come l'ammorbidente ma si scrive con una "i" alla penultima lettera. Alle elementari, mi facevo chiamare Francesca, crescendo, ho imparato ad abituarmi alle battute e alzare le mani su chi oltrepassava il limite. »

Afferro la sua mano e la stretta è fortissima. «Piacere di conoscerti, Lenoir, io sono Rudy Hoffman e mi sono sempre fatto chiamare... Rudy.» Sorrido. Oltre ad essere bella in modo devastante, è anche simpatica.

«Presentazioni fatte» dice appoggiandosi con le braccia incrociate sul tavolo.

Annuisco divertito. «Comunque io non ho timore di tuo padre o di tuo fratello... ho paura di te.» Stringo il pugno della mano destra appena stritolato dalla sua mano. «Sei spaventosa in alcuni momenti e non avrei voluto essere nessuno dei due tipi nel tuo camerino.»

«Volevo ricordarti che sei stato tu a stendere con un colpo Marchetti e ogni uomo che abbia mai tentato di farmi del male.» Indicandomi con il dito. «Tu hai salvato questa giovane ragazza indifesa per ben due volte.» Sbatte le ciglia poggiando il mento sul palmo della mano in un gesto innocente ma erotico.

Cerco di cambiare discorso così da allentare la tensione, la mia evidente tensione. «Hai sfoderato una grinta poco fa che non mi sarei mai aspettato, o meglio, guardandoti in televisione non immaginavo avessi questo temperamento.»

Bevendo l'ultimo sorso di birra, sospira: «Come avrai capito quella non sono io, Rudy, quella è la telecronista bambolina fabbricata da Marchetti, o meglio, non sono la vera me quando faccio le interviste.»

«E perché non porti l'autentica Lenoir sullo schermo?»

Nega guardando il tavolo.

«Sei una con le palle, scusa se sono diretto ma non capisco come tu possa farti mettere i piedi in testa da quel cretino.»

Mi accorgo che le parole appena pronunciate toccano un suo nervo scoperto. Guarda l'orologio infastidita. «Sono le due passate e domani mattina devo alzarmi presto, se non erro anche tu hai gli allenamenti.»

«Non volevo intromettermi, scusa.» Afferro la sua mano cercando di trattenerla ma la ritrae velocemente.

Si alza ed esce dal locale. La seguo.

«Molte donne ucciderebbero per il mio corpo, io non ci ho mai prestato più di tanta attenzione. Troppi uomini, come Marchetti, dicendo "dovresti fare la modella" alludono al fatto che potrei non avere cervello. Sono quella alta, bella, con le gambe lunghe e le tette grosse. Purtroppo, per quanto voglia ricordarmi costantemente che ciò che faccio è solo un mezzo per arrivare al traguardo, queste parole sono sempre nella mia testa Cazzo, mi odio ogni giorno perché ho accettato il compromesso. Sia ben chiaro, nessuno mi ha costretto. Ma ancora devo imparare a convivere con questo peso.» Senza guardarmi chiama un taxi con il cenno della testa e al momento del suo arrivo apre lo sportello. «Rudy, ti ringrazio per quello che hai fatto stasera e per la piacevole serata. Adesso devo andare.»

«Era un complimento il mio, non capisco...»

Presa come da un raptus di follia mi afferra per la giacca e mi tira verso di se schiacciandomi contro il suo petto. Non capisco cosa stia facendo ma vorrei che questo momento durasse all'infinito. Un flash abbagliante alle mie spalle è accompagnato da una sua imprecazione. «Questi cazzo di paparazzi non dormono mai!»

Lascia la presa senza guardarmi, cerca di ricomporre la mia camicia stropicciata pochi attimi prima e si volta verso il taxi lievemente in imbarazzo. «Scusa se ti ho... Be', hai capito. Adesso... Ciao.» Entra all'interno dell'abitacolo e sparisce.

Guardo l'auto allontanarsi, senza sapere bene cosa sia accaduto, e un forte senso di malinconia inizia a logorarmi lo stomaco.

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