Capitolo VIII
Rachel si rigirò il messaggio tra le dita: la carta ruvida grattava contro i polpastrelli: la carta scura le ricordava i biglietti che le passavano prima degli scontri nell'arena e la grafia era la stessa, l'unica che le avesse mai scritto.
Era sicura che a Selah non fosse mai interessato, ma a giudicare da quello era sempre stata l'unica.
Anche se sembrava continuare a scordarsi di un particolare: Rachel non aveva idea di cosa ci fosse scritto. Le parole non avevano un senso davanti ai suoi occhi. Erano ammassi di linee che non si intrecciavano.
Nella Voragine non c'era mai stato bisogno di imparare a leggere.
Nell'arena gli ordini erano gridati e le notizie si spargevano a voce.
Ma in quel momento le sembrava di essere privata di un pezzo importante e della tranquillità che sapere cosa ci fosse scritto poteva darle. Poteva solo sperare che non avrebbe dovuto aspettare il pomeriggio per venire a sapere altro.
L'aveva ricevuto la sera prima, insieme alla cena e da allora aveva rimuginato sul suo significato.
Doveva essere qualcosa d'importante.
Guardò l'orologio: le lancette si stavano avvicinando alla nona ora.
Accartocciò il foglio e lo lanciò più volte verso l'alto: la sensazione di pericolo era iniziata a scemare, si era allontanata troppo, tanto da rendere le giornate pesanti da sopportare. La ferita sul braccio era guarita quasi del tutto, rendendole più facili alcuni movimenti.
Aveva esplorato ogni angolo, ogni cassetto, ma non c'era nulla che potesse essere utile ad ammazzare la noia.
Nemmeno restare distesa a immaginare come avere la propria vendetta era utile: finiva troppo spesso a ripensare all'ultima volta che aveva avuto un contatto con Selah, a quel bacio che qualcosa doveva significare. A chiedersi se era davvero così sbagliato desiderare che almeno per una volta quelle visioni diventassero realtà.
Il foglio cadde a terra quando si voltò di scatto allo scattare della serratura.
Non aveva idea di quanti giorni fossero passati dall'ultima volta che aveva visto Selah. Non aveva idea di come avrebbe dovuto comparsi con lei: sarebbe stato un errore tirare fuori la storia del bacio, a meno che non fosse stata lei a parlarne per prima.
Per quanto le sembrasse sbagliato, era un cambiamento nella monotonia delle giornate.
«Noto che hai recepito il messaggio».
«A dir la verità non so leggere» rispose Rachel mentre si chinava a raccogliere il foglio. «Non ho la minima idea di cosa ci fosse scritto. Ma immaginavo fosse importante, quindi... mi sono preparata il prima possibile». Lo riaprì e se lo rigirò tra le mani.
«Ne terrò di conto. Volevo solo che fossi pronta per la nona ora». Selah scoccò un'occhiata all'orologio, poi tornò a guardarla. «E a quanto pare lo sei. Vieni con me».
«Dove?»
«Non ha importanza».
Rachel inspirò a fondo. «Posso almeno sapere per una volta cosa mi aspetta? È qualcosa collegato agli anni passati nell'arena?»
Selah le si avvicinò e la colpì più volte sulla guancia. Non c'era la forza che usava nei momenti in cui si arrabbiava. Le ricordava Aeve, quando voleva far capire a Vivian che non era davvero arrabbiata con lei.
Lo stomaco le si strinse.
Un'altra parte avrebbe voluto chiederle di baciarla di nuovo, con la scusa di vedere se era davvero come le visioni. La volta prima non era stata abbastanza.
Un'altra ancora avrebbe voluto solo essere lasciata in pace, avere la possibilità di allontanarsi il più possibile da Vexhaben e dimenticarsi tutto. Di lei, della Voragine e delle visioni. Era anche disposta a tenersi i bracciali di astalt per non sentire gli spiriti.
«Avevo solo bisogno che l'idea di uccidere non ti turbasse più di tanto. Non necessito di qualcuno che pensi troppo nel momento del bisogno. Anche se forse hai ancora da imparare parecchio: potevi anche essere acclamata da tutti nella Voragine, ma se preferisci essere considerata una traditrice...»
«Non ho tradito».
Lo sapeva che Alexander la pensava in modo diverso, che tutti gli altri facevano lo stesso. Gliel'aveva detto in faccia.
Forse Julia era l'unica a vederla sempre nello stesso modo - sempre che il padre non avesse corrotto anche il suo pensiero. Avrebbe dovuto spiegarsi, dire la verità. Ma sarebbe stato peggio: l'unica che poteva difenderla era Selah e non c'era verso che dessero ascolto a lei. Era bloccata.
Avere un segno, di qualsiasi tipo, su quel che avrebbe dovuto fare sarebbe stato utile. Poteva solo sperare che Selah fosse lì per cambiare le cose, dare una svolta alle giornate. Sarebbe stata disposta a tutto se avrebbe significato poter uscire a lì.
«No?» Selah le strinse un braccio e la strattonò appena verso di sé. «E allora perché non mi hai ucciso? Non è stato un tradimento venire meno a quello che si aspettavano da te?»
Avrebbe voluto dirle che non era stato un tradimento, che era solo colpa delle visioni.
«Quasi ci speravo che arrivassi a uccidermi. Avrebbe significato che avevi imparato qualcosa. Ma non ha troppa importanza, ti posso insegnare io adesso».
Si voltò verso la porta e, senza aggiungere altro, la strattonò ancora. Rachel quasi perse l'equilibrio.
L'idea di uccidere era diventata familiare fin dall'inizio, ma era facile quando erano perfetti sconosciuti. Aveva provato a fare domande solo una volta, per poi essere zittita in malo modo. Tutti lo capivano presto: non era il posto in cui si doveva chiedere, l'unica cosa da fare era obbedire agli ordini, farsi amare dal pubblico e guadagnare la cena.
E voleva quasi chiederle se erano inclusi i biscotti alle mandorle. L'idea di uccidere senza un premio – senza i biscotti che Selah le aveva sempre portato – sembrava sbagliata.
Non sapeva nemmeno come risponderle: l'idea non le piaceva, ma se era un modo per cambiare le giornate, tanto valeva accettarlo.
«Perché?»
Selah le strinse il mento con la mano.
«Perché ormai devo tenerti in vita e tanto vale fare di te qualcosa di utile. E mi pare che tu abbia già promesso qualcosa... o devo ricordarti che il destino di tua cugina è ancora nelle mie mani?»
«No» mormorò Rachel. «Vengo».
L'idea che potesse fare qualcosa a Julia era la peggiore: forse ci stava già pensando suo padre a proteggerla, forse la sua promessa a Selah era inutile e non sarebbe servita a molto, forse l'avrebbe rivista solo come spirito.
Ed era stata lei a prometterlo a Selah, non avrebbe potuto tirarsi indietro.
«Bene».
Selah le indicò la porta con un cenno della mano e Rachel si avviò in quella direzione.
L'aria fuori dalla porta sembrava più fresca, nonostante le fiaccole alle pareti. Se non ci fosse stato l'astalt di mezzo avrebbe potuto avere un vantaggio.
«Non ci pensare nemmeno».
Il rimprovero di Selah le fece abbassare lo sguardo sul pavimento di pietra. Le fiaccole allargavano un alone di luce al cui interno appariva di un grigio chiaro; nelle zone d'ombra era nera. Aveva sempre pensato che anche le parti più nascoste del palazzo avessero in mostra la stessa ricchezza delle sale da ballo, che non ci fosse una parte in cui la vita non profumasse di potere.
Ma la sua stessa vita e il posto in cui l'avevano buttata le dimostravano il contrario.
Doveva trovare il modo di cambiare, essere meno prevedibile. Soprattutto davanti a lei.
«L'astalt blocca solo la magia e la noia porta anche a pensare a ipotetici attentati. A meno che non sia illegale».
«Organizzare attentati, sì. Ma fallo pure, a quel punto Katherine non potrà più difenderti e io potrò finalmente ucciderti».
«Stavo scherzando» mormorò Rachel. «La verità è che mi annoio così tanto che l'unico sollievo sarebbe morire».
«Potevi chiedere qualcosa da fare».
«A chi?» Rachel alzò le spalle. «Le guardie? Se non mi ascoltano nemmeno quando chiedo acqua. Ringrazio solo che il caldo è passato».
«Cielo, che disgraziati. Se questo è il livello di incompetenza...» mormorò Selah. Si strinse la radice del naso tra le dita e scosse la testa. «Se non sono in grado di seguire gli ordini si meritano una punizione. Dubito sarà un problema che si ripeterà d'ora in poi, avrai modo di riempire le tue giornate».
Selah le appoggiò una mano sulla schiena e spinse appena in avanti; un muto ordine a camminare.
Tra la destra e la sinistra non aveva notato differenze: il corridoio andava sempre a girare verso un angolo da cui arrivava solo il riflesso delle torce. Non sembrava esserci nessuno in giro, ma poche volte aveva sentito passi intorno alla stanza. Non avrebbe saputo dove andare e i ricordi della prima andata erano confusi dal dolore della ferita. Da sola non avrebbe fatto più di dieci passi.
«Perché aspettare tutto questo tempo da Embers?» chiese Rachel dopo qualche attimo di silenzio.
«Oh, si è solo trattato di aspettare che le acque si calmassero e che alcuni questioni venissero sistemate. Ma è bene prepararsi per tempo, se le cose dovessero peggiorare».
Il corridoio non cambiava, era del tutto diverso alle sale sfarzose di Gabes. Selah la faceva procedere spedita, senza darle il tempo di assimilare tutto.
«Sai perché non ho mai voluto farti da garante per gli scontri?» riprese Selah.
Rachel scosse la testa con forza.
«Volevo evitare che qualcun altro ti guardasse con un occhio diverso, che ti aiutasse solo per compiacermi. Cosa ora inevitabile, grazie a Katherine». Selah si fermò nel mezzo del corridoio e lasciò andare la presa e le accarezzò una guancia. «Tu hai sempre fatto parte del mio piano, è anche ora di riportarti sulla giusta strada».
Abbassò lo sguardo sui bracciali di astalt: tanto valeva che ci aggiungesse una catena. Aveva sempre immaginato che ci fosse stato qualcosa di nascosto, che avesse un motivo. Che era tutto calcolato da parte di Selah.
«È inutile che ci pensi su, non c'è la possibilità di dirmi di no».
«Perché non dire niente?»
Selah si guardò intorno, come a volersi accertare che non ci fosse nessun altro.
«Perché non era importante che si sapesse in giro. Dopotutto, nemmeno George ne era al corrente. Rischiare che la voce si spargesse e arrivasse a Ethor, dare loro un motivo per dichiarare guerra... no, non potevo permetterlo».
Rachel si morse un labbro: avrebbe preferito che Selah la facesse tornare all'arena. Avrebbe sempre ucciso, ma almeno avrebbe avuto le sue certezze.
Il fatto che sarebbe finito lì, il peso sarebbe stato diviso con gli altri, alleggerito dalla consapevolezza di aver fatto solo il proprio lavoro.
Entrare in una guerra di cui non aveva mai fatto parte la preoccupava: non era il posto per lei.
«C'è qualcosa che ti preoccupa?»
Il falso interesse di Selah la faceva rabbrividire. «Non so... non sono se sono la persona adatta. Perché me, poi?»
La accarezzò una guancia e Rachel alzò lo sguardo. «Perché so che tu mi darai ascolto».
Avrebbe voluto approfondire il discorso, ma Selah le fece cenno di proseguire.
Trovò il coraggio di parlare pochi passi dopo. «Su cosa?»
«Ora te lo spiego, ma non fare una parola su questo. Con nessuno».
Rachel annuì con un cenno della testa: se ne avesse parlato nella stanza, al massimo l'avrebbero ascoltata i muri.
Selah si fermò solo in prossimità di una svolta.
Dall'altro corridoio provenivano voci, echi di tacchi e singhiozzi. Rachel aggrottò la fronte: una delle due era sicura fosse Katherine.
«Aspetta qui. E non scappare».
Lanciò solo un'occhiata alle proprie spalle: non sarebbe riuscita a uscire dal castello e non aveva un posto in cui andare. Sarebbe stato inutile e rischioso.
Appoggiò una mano sul muro e si sporse appena.
Katherine sembrava agitata: camminava avanti e indietro, le braccia che non smettevano di muoversi.
Non era da sola: c'era una persona appoggiata al muro, le braccia incrociate, la fronte aggrottata e lo sguardo perso nel vuoto. Le fiaccole sul muro facevano brillare i bottoni e le spille della divisa, ma anche a strizzare gli occhi non riusciva a capire se aveva già visto il suo volto o era solo un'impressione.
«Katherine? Che sta succedendo?»
Rachel si morse un labbro: era quasi sicura che la questione non la riguardasse, ma che l'avrebbe coinvolta anche se non l'avrebbe voluto.
La principessa si fermò, poi si voltò lentamente verso Selah.
«Cosa sta succedendo? Qualcuno aveva intenzione di dirmi che la delegazione di Ethor è partita stanotte o no? Hanno lasciato un unico messaggio dicendo che è inutile continuare le trattative».
«Perché? Che è cambiato da ieri?»
«Da due notti fa» la corresse Katherine. Allargò un braccio e l'altro le strinse la mano. «A quanto pare l'obiettivo finale di Crohull era finalizzare un matrimonio tra me e uno dei loro eredi. Cosa che è... saltata».
Selah si strinse la radice del naso tra le dita.
«Ho bisogno che quell'incontro a Jelas avvenga». Katherine infilò la mano nella tasca dei pantaloni e tirò fuori una lettera. «Devo parlare con i Dankworth il prima possibile... la lettera è già firmata da me e mio fratello, non voglio andare a disturbare mio padre, ma voglio priorità assoluta. Ho bisogno di te, per questa volta».
Selah gliela strappò di mano, la appoggiò al muro e sfilò di tasca una penna.
«Ora calmati, Katherine. Non c'è nessuna dichiarazione di guerra ufficiale, significa solo che le trattative per l'Exval sono arrivate a limite».
«Sì, ma...»
«Il che significa solo che c'è da fare un cambio di programma» la interruppe Selah.
Katherine si passò una mano sulla faccia. «Ho rovinato tutto. Ci speravo davvero a portare a termine le trattative».
Selah le appoggiò le mani sulle spalle. «L'unico modo in cui Ethor capisce è la guerra. Trova un'altra ferrovia su cui passare le giornate e non sconfortarti. D'ora in poi sarà mia responsabilità gestire l'Exval. Ora invia la lettera, convoca una riunione urgente del governo con tuo fratello. Tirate via i ministri dalle loro riunioni, non mi interessa dove sono, devono esserci tutti. Questo ha priorità assoluta su ogni cosa. E di' ai Dankworth di venire oggi pomeriggio, voglio essere presente anche io».
«Se può interessare, Miriam è qui».
Rachel tornò con la schiena appoggiata al muro. Più il discorso andava avanti, meno era tranquilla.
Selah aveva detto che aveva bisogno che imparasse a uccidere.
Che tanto valeva fare di lei qualcosa di utile.
Una guerra sembrava imminente dai toni usati.
Le cose dovevano essere collegate.
Se davvero era ciò per cui la sua vita si era fermata per due settimane, Vivian aveva fatto la scelta giusta. Nella Notte dei Morti saltare le aveva fatto troppa paura, ma in quel momento le sembrava che sarebbe stata la scelta migliore. Avrebbe guardato da lontano e pianto con gli altri mentre aspettavano che la giusta vendetta cadesse su Vexhaben.
«Lo so che è qui, Datchery. L'ho convocata io, se proprio devi aprire bocca, trova qualcosa che sia utile».
La voce di Selah la fece rabbrividire anche se il richiamo non era diretto a lei. Si portò una mano sulla bocca: la nausea si era fatta d'un tratto più forte, le gambe non sembravano più in grado di reggerla.
Non voleva essere parte della guerra. Non con Vexhaben. Aveva aspettato quattro anni per niente?
Uno scossone sul braccio la fece riscuotere. Rachel perse l'equilibrio e cadde a terra, sbattendo un ginocchio sulla pietra.
«Vedi di non farmi arrabbiare ancora di più, inutile feccia». Selah non sembrava più la stessa persona di qualche attimo prima.
Quel bacio non significava nulla.
Avrebbe dovuto smettere di rimuginarci sopra.
Le afferrò un braccio e la strattonò di nuovo in piedi.
Katherine era sparita, c'era rimasto solo l'altro.
«Datchery».
«Sì, Maestà?»
«Portala giù. E di' a Weller e ai suoi di muoversi. Prima finiscono, meglio è».
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