Capitolo II
Quando Rachel si tirò a sedere, la fitta al fianco le ricordò ancora una volta dove si trovasse.
Ogni notte era la stessa storia: svegliarsi di colpo, con il ticchettare insopportabile dell'orologio, tornare nel torpore sotto le coperte - vere coperte - finché qualche ferita non lanciava fitte di dolore. Continuavano a ricordarle che era ancora viva, che quel sangue versato per il pugnale della regina fosse solo la prima parte del prezzo da pagare; per quanto il sonno fosse così simile alla morte, rimaneva la consapevolezza che il futuro era del tutto incerto, che ogni giorno poteva essere l'ultimo e che era solo un oggetto nelle mani di Selah.
A quel punto morire sarebbe stato un destino migliore di qualsiasi cosa l'aspettasse.
Portò la mano sinistra sul petto, stringendo appena la stoffa della camicia da notte. Dalla festa di Embers una strana sensazione le si era attaccata addosso e la notte l'accentuava e basta: era come se qualcosa le premesse sul petto, togliendole il fiato. Forse era il peso dei sensi di colpa, forse la consapevolezza di non essere stata abbastanza: più ci ripensava, più cambiava idea.
Avrebbe dovuto ascoltare Alexander.
Se fosse rimasta nella Voragine, non sarebbe arrivata a essere in quella situazione. Le era sembrava un'idea perfetta, la soluzione ottimale a tutto quello che aveva desiderato da dopo la Notte dei Morti, ma poi si era rivelata l'errore della vita. Non voleva nemmeno farne una colpa a Miriam: l'aveva suggerita, ma alla fine non c'entrava nulla, era stata lei ad andare a Vexhaben.
Strinse appena le mani sulle coperte fissando l'oscurità che le stava di fronte: senza la magia, senza le voci degli spiriti, era come se fosse tornata ai tempi dell'arena, ma con meno topi. Se almeno fosse stata lì, avrebbe potuto far finta che tutto andasse bene - che fosse normale, quella vita che si era ricostruita dopo la Notte dei Morti.
Era sicura che, se non avesse avuto l'astalt ai polsi, il coro sarebbe cambiato: le avrebbero detto che era una codarda, la vergogna della Voragine.
E avrebbero avuto ragione.
Ancora una volta si era affidata a una visione che non avrebbe dovuto esistere.
Ancora una volta non aveva avuto il coraggio di uccidere Selah.
Voltò la testa verso la finestra: dietro il tendaggio la luce iniziava già a filtrare e seguiva le pieghe della stoffa pesante, creando un decoro ondeggiante sul pavimento.
Aggrottò la fronte, poi si alzò in piedi e si sforzò di raggiungere il tendaggio: a ogni passo il freddo delle mattonelle le solleticava la pianta dei piedi.
Strinse la mano destra sulla fasciatura sull'avambraccio sinistro: quando Selah l'aveva trascinata in quella cripta aveva guadagnato solo altre domande, ma ogni volta che piombava lì a cambiarle le bende non trovava mai il coraggio di farle.
Avrebbe dovuto solo accettare che le cose andavano in quel modo, che non aveva più alcun potere sulla propria vita.
Scostò la tenda e appoggiò la testa al vetro, strizzando gli occhi: era più tardi di quel che pensava, come se per una volta Selah l'avesse lasciata dormire. Per quanto strano, non sapeva se esserle grata perché, anche senza di lei, qualcos'altro continuava ad aleggiarle intorno, a toglierle la tranquillità.
A differenza dei giorni precedenti, il sole era tornato a splendere: il cielo aveva perso il colore grigiastro e solo all'orizzonte si allungavano poche nuvole bianche.
Non ci sarebbe stata la pioggia a battere sul vetro a tenerle compagnia, ad aggiungere altro rumore al ticchettare dell'orologio. A distrarla dai propri pensieri.
Sospirò e abbassò lo sguardo sulla benda sul braccio: era di nuovo macchiata. La ferita incisa dal pugnale continuava a buttare fuori sangue, come se quello che aveva macchiato l'altare non fosse stato abbastanza. Se solo avesse potuto usare il fuoco, avrebbe potuto cauterizzare le ferite e non avrebbero più rappresentato un problema.
Avrebbe dovuto trovare il modo di parlare con qualcuno, chiedere che gliene venissero portate, ma nessuno l'avrebbe ascoltata. E fasciature pulite lì non c'erano: aveva già buttato all'aria ogni cassetto, aveva rivoltato ogni angolo, ma aveva trovato solo polvere.
Era Selah a portasele con sé, a ribattere quanto controllo avesse sulla sua vita.
Ed era in ritardo.
Si morse un labbro, lasciando vagare lo sguardo sulla stanza: oltre al letto non c'era altro che un lavabo di porcellana con motivi floreali e un cassettone con il minimo di vestiti che potessero esserle utili. Quelli del giorno prima, un paio di pantaloni marroni e una camicia bianca, erano appoggiati disordinati sul coperchio, accanto a un piatto d'argento su cui aveva lasciato un pezzo di pane dalla cena della sera prima.
Strinse una mano sullo stomaco: non aveva fame e la sola idea di buttare giù un altro boccone la ripugnava.
Per quanto fosse a palazzo, tutto le ricordava che restava pur sempre una prigioniera.
Si cambiò, ma prima di abbassare la manica sulla fasciatura, spostò il dito sotto il primo giro di bende, sollevandola appena. Finché non si fosse infettata, sarebbe stato abbastanza. Il sangue macchiava la pelle, impedendole di capire se la situazione fosse migliorata o meno.
Si voltò di scatto quando i cardini cigolarono appena.
«Katherine?» mormorò quando chi si chiuse la porta dietro la schiena fu la principessa e non Selah.
L'ultima volta che l'aveva vista era stata nella Voragine, ma non era cambiata. Aveva lasciato i capelli sciolti, le ricadevano sul petto, quasi incorniciando il medaglione d'oro.
«Non ho molto tempo» le rispose avvicinandosi. «E ho già fatto abbastanza danni, lei non deve venirlo a sapere».
«So tenere la bocca chiusa».
«Non è di te che mi preoccupo, ma dei soldati, cortiginani... e chiunque punti a ottenere qualche favore dai sovrani» Si portò una mano sulla fronte, scuotendo appena la testa. «Comunque, come stai?»
Katherine allungò le braccia verso di lei, stringendole una mano nelle sue. Le accarezzò il dorso, continuando a guardarla negli occhi con un piccolo sorriso sul volto che accennava appena le fossette sulle guance.
«Sono viva, ferita... e non so se era meglio essere morta. Che ci fai qui, però?»
Rachel aggrottò la fronte quando in risposta ottenne silenzio: non sospettava che fosse nulla di buono.
La realizzazione fu come ricevere un pugno nello stomaco: se Selah non era a palazzo, poteva esserci solo un altro posto in tutto il regno degno di richiamare la sua attenzione.
Sfilò la mano dalla presa di Katherine, facendo un passo indietro. «Cosa sta succedendo?»
«Mi dispiace, non ho potuto fare nulla».
Rachel si portò entrambe le mani sulla testa, scuotendola appena. «Selah... Selah ha detto che è colpa o merito tuo se sono viva. Che altro c'è?»
«Non sai niente?»
Lasciò cadere le braccia lungo il corpo, fissando la principessa. «Ti pare che starei qui a fare domande?»
«Domanda stupida, me ne rendo conto». Katherine sospirò, stringendo le mani tra loro. «Il tuo attacco a Embers ha portato a un voto sulla tua condanna: sono stati tutti favorevoli, tranne me».
«Quindi sarebbe questa la tua colpa o merito» mormorò Rachel. «Che altro c'è?»
Quella mancanza di risposte iniziava a essere insopportabile. Avrebbe voluto spingere Katherine a dargliele, a togliere il dubbio che qualsiasi novità non sarebbe stata buona per lei. Era ovvio che Selah fosse alla Voragine, ma una parte di lei ancora non voleva crederci. Per quanto flebile, c'era ancora una speranza che fosse rivolta ad altri.
«Non ho potuto fare nulla per la Voragine, Selah ha ricevuto l'approvazione per attaccare. Mi dispiace».
«Perché?» Rachel fece qualche passo indietro, inciampò nell'orlo della coperta, finendo a sedere sul materasso con un peso sul petto. «Perché non fare nulla?»
«L'avrei fatto, se per legge non avessi un veto a incontro». Katherine si spostò verso la finestra, scuotendo appena la testa. «Pensavo... pensavo non ci sarebbero stati altri argomenti di cui discutere oltre la tua condanna. Ma a quanto pare aveva un'altra carta da giocare. Dubito riuscirò mai a essere un passo avanti a lei». Appoggiò la mano al vetro della finestra, abbassando lo sguardo.
«Non ho bisogno della tua pietà».
«Non... non è pietà la mia. Voglio aiutarti, se posso fare qualcosa...»
Rachel scosse la testa. «È inutile combattere».
Aveva attaccato la Voragine, avrebbe finito quel che era iniziato nella Notte dei Morti. Se i bracciali di astalt si fossero allentati era certa che si sarebbero aggiunte altre voci - voci che avrebbe sentito solo perché Katherine si era intromessa.
Serrò le palpebre, trattenendo a stento le lacrime.
«Rachel. So che è inutile, ma ciò non mi impedisce di portare avanti questa battaglia. Tutto ha iniziato a crollare a Gabes, se vogliono illudersi di poterlo fermare... lasciali fare. Non sarà così per sempre».
«Cosa vuoi fare?»
Katherine alzò le spalle. «Per oggi, niente. Voglio solo sapere se sei disposta a stare dalla mia parte».
Si morse un labbro, tornando a guadare il pavimento. La proposta di Katherine aveva contorni più vaghi di quella di Miriam, ma dopo tutto quello che era successo, l'opzione più sicura rimaneva Selah, ma il pensiero che alla Voragine tutto potesse andare male le impediva di ragionare su altro.
«Non devi darmi una risposta ora. Troverò il modo di farmela arrivare».
Rachel annuì con un cenno della testa, mentre i decori geometrici sulle mattonelle iniziavano a perdere i loro contorni, sfumandosi dietro alle lacrime.
***
A ogni battito dell'orologio il peso sul petto sembrava farsi più grande e lo spazio che aveva a disposizione non era più abbastanza.
Non le era rimasto più un angolo in cui aspettare notizie.
Notizie che nessuno le avrebbe dato. Non era nessuno lì, si era solo ficcata nei guai.
Si appoggiò alla parete accanto alla finestra, il freddo del muro si espanse attraverso la stoffa della camicia, facendola rabbrividire.
Spostò lo sguardo sull'orologio alla parete: avrebbe voluto staccarlo da lì, buttarlo da parte e non sentire più il ticchettio delle lancette.
Troppo tempo stava iniziando a passare.
E lei non avrebbe potuto fare nulla per la Voragine. Morire o finire prigioniera di Selah combattendo davvero le avrebbe lasciato un sapore diverso in bocca: l'avrebbe fatta sentire meno inutile.
Anche con l'astalt ai polsi le sembrava che le voci degli spiriti le rimbombassero in testa.
Scivolò a terra, portandosi la mano sulle labbra: trattenere i conati di vomito diventava sempre più difficile.
Dalla sera prima non aveva mangiato niente, il pezzo di pane era sempre lì, a qualche metro da lei. E per quanto il corpo rifiutasse l'idea di buttare giù qualcosa, la spossatezza iniziava a farsi sentire.
«Feccia».
Quando alzò lo sguardo, Selah era a pochi passi da lei, con indosso la giacca aperta dell'uniforme.
Che le portasse le notizie che non voleva sentire o che l'uccidesse sul momento, poco le importava. L'effetto sarebbe stato lo stesso.
Quando non reagì, Selah sospirò, le si avvicinò e le afferrò un braccio, tirandola in piedi.
Spinse la manica della camicia verso l'alto, scoprendo la fasciatura. La macchia di sangue si era allargata, non c'era più un giro di bende che avesse il colore originario. Selah si voltò di scatto verso la porta.
«Barton! Chi aveva gli ordini di controllare le bende?»
Qualche passo concitato echeggiò da dietro la porta e poco dopo una testa dai capelli neri si affacciò allo stipite.
«Ammetto di non saperlo, Maestà. Mi informerò».
«Incompetenti» mormorò Selah, scuotendo appena la testa. Rachel abbassò lo sguardo, senza ribattere quando iniziò a disfare la fasciatura.
«Non ho ucciso nessuno».
Le parole di Selah furono un pugno nello stomaco.
«Uh?» Rachel alzò lo sguardo, incrociando gli occhi azzurri di Selah.
Il battito del cuore che accelerò per un istante. Da quando aveva parlato con Katherine, la speranza le era stata strappata dal corpo.
«Per ora» aggiunse, senza nascondere un piccolo sorriso.
«Pensavo...»
Selah le lasciò andare il braccio, accarezzandole una guancia.
«Sì, mia cara, avrei voluto finire quel che non ho fatto nella Notte dei Morti... ma odierei dare a Katherine altri motivi per dare battaglia».
Rachel aprì la bocca, ma subito la richiuse, senza sapere che dirle: non era sicura di voler essere trascinata nello scontro tra loro due, anche se qualcosa le faceva intendere che ci fosse già nel mezzo, che doveva solo scegliere da che parte stare.
Tutte le volte si aggiungevano altre domande che non aveva il coraggio di rivolgerle, ma una, più delle altre, premeva per essere buttata fuori.
Avrebbe voluto sapere solo di Julia: lei era l'unica che non avrebbe dovuto pagare.
«C'è qualcosa che ti turba?»
«Tra i prigionieri... tra i prigionieri c'è una bambina? Quattro anni circa, capelli rossi... insomma, è l'unica bambina nella Voragine. Lei non ha fatto nulla, non c'entra con questa storia».
«Taglia corto e dammi il braccio». Selah infilò la mano in tasca ed estrasse un fazzoletto. «Vorresti salvarla?»
Rachel annuì con un cenno della testa.
«In cambio di cosa?»
«Io non ho niente da offrire se non la vita».
«Potrebbe essere interessante... la tua vita per la sua. E sarà certo più facile insegnare a una bambina che a te come vanno le cose».
Rachel trattenne una smorfia di dolore quando ripulì la ferita con un fazzoletto.
«Perché ci tieni tanto a lei? È tua sorella?»
«Cugina». E quanto di più vicino a Vivian le rimaneva. Lo stomaco si strinse di nuovo: a ripensarci, quella richiesta suonava sbagliata e non riusciva a crederci di averla appena rivolta alla stessa persona che aveva causato la morte di Vivian.
Distolse lo sguardo dalla ferita quando iniziò ad avvolgere la nuova benda. Sotto il sole freddo del pomeriggio inoltrato, alle ombre degli alberi si aggiungevano quelle dei nobili intenti a passeggiare.
«Voglio accontentarti, per una volta. Farò in modo che nessuno faccia del male alla bambina». Le strinse il volto con una mano. «Ma tu. Tu da oggi lavori solo per me. Fa' un passo falso e vedrai che nessuna supplica salverà entrambe».
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