Capitolo I
Il panno senza problemi sulla canna del fucile e il metallo brillava sotto la luce della lampada. Selah aveva pagato la sua promessa a Idall, ma c'era un altro conto in sospeso.
Sembrava una notte tranquilla, dall'aria carica di umidità: le piogge erano tornate, sferzando il terreno e rimpolpando le acque dello Shellmagne, che erano tornate a occupare lo spazio che avevano un tempo intorno alla Voragine. Era il tempo perfetto che Selah aspettava ormai da troppo e se solo fosse arrivato cinque, sei giorni prima, si sarebbe risparmiata lo scontro di Embers. Ma la consapevolezza che al tramonto successivo la Voragine non avrebbe più rappresentato un problema le : la faceva solo sorridere al buio e le mani già pizzicavano all'idea di veder tornare il sangue scorrere intorno alla Voragine e aggiungersi al fango avvelenato.
Rabbrividì quando una ventata si infilò sotto la giacca.
In lontananza la notte lasciava già il posto ai primi spiragli di luce. Il cielo da un blu cupo virava verso un azzurro tenue. Poteva arrivare un nuovo temporale, ma almeno nelle ore più vicine, non sarebbe piovuto, ma non le importava: il terreno era già stato impregnato di acqua e avvelenato dall'astalt. A vedere quel cambiamento la Voragine forse sospettava il loro arrivo, forse ne avevano già la certezza: avrebbe tolto loro ogni speranza, prima della vita. Ed Embers era stata la scusa perfetta per finire quanto iniziato nella Notte dei Morti. Nessuno avrebbe gridato che era stata una strage non richiesta, nemmeno Katherine avrebbe potuto.
Era una notte perfetta, adatta a scrivere la storia.
L'indomani la Voragine sarebbe rimasta solo un punto segnato sulle mappe e nient'altro. Un problema risolto.
Poi sarebbe toccato a Ethor.
Di Katherine, a quel punto, le importava poco: doveva solo sopportarla il tempo necessario a risolvere i problemi nella regione dell'Exval.
Il cane al suo fianco si mosse, uggiolando appena.
«Non è niente». Selah si piegò e allungò una mano, spostandola nel vuoto finché non sfiorò la testa del cane accovacciato; quello guaì appena, si mise seduto e le appoggiò il muso in grembo. «Non è niente» ripeté accarezzandogli la testa.
Reclinò la testa all'indietro, appoggiandola alla corteccia dell'albero.
L'ultima traccia di magia libera in tutto il regno era nella Voragine e tolta quella fonte, non avrebbero più dovuto preoccuparsi. Le mura e la sabbia dell'arena avrebbero contenuto tutto e non avrebbero più corso il rischio di ribellioni, di un'altra Gabes o un'altra Embers, avrebbero potuto dedicarsi solo alla grandezza che il regno meritava.
Estrasse uno dei proiettili dalla piccola scatola di legno che aveva ai piedi e lo sollevò, tenendolo tra il pollice e l'indice: in controluce, l'astalt brillava con sfumature verdastre.
Sarebbe stato un peccato sprecare proiettili per quella gente, degni solo della morte – non di una rapida. Il sangue doveva tornare a scorrere. Doveva sradicare tutto quanto era rimasto, senza dare possibilità di di nuovo.
Inspirò a fondo, richiuse la scatola e ci appoggiò sopra il fucile in modo che la canna non si sporcasse.
Si alzò, allungando le braccia oltre la schiena. Le portò sui fianchi, piegandosi appena all'indietro: odiava ammettere di essersi abituata più di quel che aveva deciso alle comodità offerte dalla corte.
Gli anni passati lontano dalla capitale, negli accampamenti e in mezzo al sangue sembravano ricordi sbiaditi, vecchie fotografie che per qualche ragione si portava ancora dietro, troppo importanti per essere buttate, ma non abbastanza da essere guardate tutti i giorni.
Estrasse dalla tasca l'orologio, restando a fissare il quadrante per qualche istante: il ticchettio del meccanismo veniva ampliato dalla notte.
Sistemò la tracolla del fucile sulla spalla, raccolse la scatola di proiettili e la lampada, poi rientrò nella tenda: sul tavolo al centro, la mappa era rimasta distesa e alla luce della fiamma le figurine di metallo disposte sopra brillavano appena. Appoggiò il fucile al bordo, accertandosi che rimasse in equilibrio, poi si rigirò la sagoma della falena tra le dita.
Aveva passato ore a riguardare tutto, ad accertarsi che il piano non avesse falle e la consapevolezza che la Voragine non avesse mai reagito dalla Notte dei Morti, la rassicurava: non l'avrebbe fatto nemmeno in quel momento.
Strinse la figurina nel pugno.
Lanciò la falena di metallo sul tavolo.
Abbassò lo sguardo quando la stoffa frusciò e seguì con lo sguardo il cane che andò ad accucciarsi vicino alla branda. Sbadigliò, appoggiò il muso sulle zampe e chiuse gli occhi.
Lo invidiava, con la sua capacità di addormentarsi in pochi istanti ovunque si trovasse.
Rimase ferma sulla soglia, con la mano appoggiata alla stoffa, a fissare la parte azzurra di cielo che si faceva sempre più ampia.
C'era solo una variabile che le rendeva quell'alba così diversa dalla Notte dei Morti. Serrò le labbra, stringendo il pugno. Per quanto Rachel avrebbe potuto essere un ostaggio, non voleva prendersi il rischio che fuggisse un'altra volta, che le facesse tornare alla mente di nuovo quella visione.
Una parte di lei l'avrebbe uccisa solo per quello, per impedirle che diventasse realtà. L'altra parte non l'avrebbe mai ascoltata.
Era feccia.
Inutile feccia che mai avrebbe dovuto avere un peso così grande nella propria testa. Abbassò lo sguardo sull'anello al dito. Era sempre stata di parola, aveva fatto una promessa a George e non ne sarebbe venuta meno.
Avanzò nella strada sterrata, illuminata appena dai fuochi ancora accesi sui bracieri.
Il silenzio della notte era già stato rotto dai primi a svegliarsi e iniziare i preparativi. Di tanto in tanto fruscii accompagnavano i movimenti delle ombre dall'altra parte delle tende. Quei pochi rami degli arbusti che non erano stati rimossi si piegavano sotto le suole, scricchiolando appena.
Una coppia di soldati di ronda si fermò a pochi passi da lei, irrigidendosi in un saluto e Selah rivolse loro un cenno con la mano, ma allungò il passo e li oltrepassò, senza avere chiara la meta in testa.
Portò le mani dietro la schiena, stringendo il polso sinistro nell'altra mano, continuando a camminare fino al limite dell'accampamento; oltrepassò le ultime file di tende, avanzando tra le sterpaglie alla tenue luce delle fiaccole. A pochi metri da lì si stagliava la sagoma scura di un albero.
Si sedette con la schiena appoggiata a un albero, a debita distanza dall'ultima fila di tende, spostando subito lo sguardo verso l'alto. Piegò il ginocchio sinistro, sistemò il gomito sopra lo stesso: era passato troppo tempo da quando aveva avuto il tempo di fermarsi a guardare il cielo che abbracciava Vexhaben dall'alto. Sorrise appena, sistemando una ciocca di capelli, sfuggita alla crocchia, dietro l'orecchio: l'idea che quella potesse essere l'ultima volta in cui buona parte degli abitanti della Voragine avrebbero potuto vedere quello spettacolo la metteva di buon umore.
***
Il paesaggio circostante era diverso, non sembrava più lo stesso posto. Sotto il sole ormai alto nel cielo la distesa d'acqua verdastra brillava, creando strani giochi di luce.
L'astalt aveva fatto il suo dovere: più di una persona era stata raccolta dall'acqua, bloccata lì dal dolore e agli altri aveva tolto ogni speranza. Avrebbe coperto l'intero regno con l'astalt, se avesse avuto la certezza che la magia non sarebbe più esistita.
Sorrise, fermandosi all'imbocco della Voragine. Avrebbe fatto tesoro di quelli sguardi, le avrebbero sollevato il morale nelle giornate in cui Katherine le sarebbe andata sui nervi.
Non avrebbe dovuto più rivedere quel posto. Da lassù il fondo non appariva nient'altro che una massa scura. Era certa che nascondesse qualcosa – non solo i corpi di chi aveva scelto la via d'uscita facile.
E i lampi dell'ostril non erano più intensi come ricordava: qualcuno ancora zigzagava tra le rocce, scendendo verso il basso, ma il loro colore non più acceso era il segno più evidente di quanto il terreno fosse stato avvelenato.
Le grida e gli spari della battaglia erano ormai scemati, lasciando il posto a ordini urlati da una parte all'altra.
Scosse la testa, avviandosi lungo il sentiero e più uno scendeva, più la sensazione di doversi tenere lontano aumentava. Era la stessa che l'aveva stretta quando erano scesi per Paul. Avrebbe fatto a meno di riviverla, ma qualcosa la spingeva a scendere, anche se non avrebbe certo trovato le risposte che cercava.
Strinse le mani sul fucile, serrando le labbra: quella vergogna era già stata soppiantata da dagli sguardi carichi d'odio e dagli insulti che quasi tutti i prigionieri le avevano rivolto. Niente che non avesse già sentito.
Si fermò alle prime case: non era mai arrivata così in basso, nemmeno nella Notte dei Morti, ma non aveva alcuna intenzione di scendere più a fondo.
Strinse le mani sul fucile: scendere fino a quel punto era stato un errore. Per quanto fosse da sola, i ricordi erano lì con lei: aveva sì lasciato Rachel a palazzo, ma era ovvio che avesse percorso più volte quel sentiero ed era come se fosse lì.
Si morse un labbro, inspirando a fondo.
Avrebbe dovuto rimanere in cima e attendere che i soldati le portassero la notizia che non c'era più nessuno, che potevano tornare a Vexhaben con la vittoria in tasca.
E finché sarebbe stata lì, non sarebbe riuscita a togliersi di torno il ricordo della visione, nemmeno fissando il cerchio azzurro sopra la testa.
Serrò le labbra, spostando lo sguardo verso il centro della Voragine: dall'altra parte del sentiero, il fondo si era fatto più vicino, ma non aveva acquistato una forma e se qualcuno si fosse nascosto laggiù, trovarlo sarebbe stato impossibile e per quanto l'idea che qualche strascico di magia poteva rimanere lì, non avrebbe messo in pericolo la vita dei soldati.
«Maestà».
Selah si voltò verso destra: non aveva né visto né sentito arrivare il soldato che le stava davanti.
«C'è qualche problema?»
«Abbiamo trovato una cosa mentre controllavamo le case». Infilò una mano in tasca, poi allungò il braccio verso di lei. «Penso possa interessare».
Selah annuì con un cenno della testa: le aveva passato un medaglione, ma dubitava che qualcuno nella Voragine potesse averne uno. Lo strinse nella mano, serrando le labbra. Controllare che simbolo ci fosse inciso era inutile, già sospettava a chi appartenesse.
«Grazie».
Il soldato annuì con un cenno della testa, si inchinò appena e poi le voltò le spalle.
Selah si avvicinò alla parete. Sistemò il fucile di fianco a sé, rigirandosi il medaglione tra le mani. Passò il dito sulle quattro ruote dentate intagliate, scuotendo appena la testa. Per quanto strani, i Dankworth non si erano mai spinti così a fondo. Dubitava, però, che fosse una cosa di famiglia: la disperazione dei genitori le era parsa reale, Miriam doveva aver deciso in un attimo di recarsi lì, di fare l'ennesima scelta sbagliata.
Sospirò, scuotendo la testa: forse non si era nemmeno resa conto della gravità del suo gesto. All'inizio aveva potuto chiudere un occhio, Miriam non era la persona che avrebbe indicato come capace di tradire il regno, ma quel medaglione era una prova inconfutabile della sua colpa e del fatto che, da quando era tornata, non le avesse raccontato tutta la verità.
Le aveva detto che era stata alla Voragine, che era andata lì per trovare risposte per lei, ma non che aveva lasciato il medaglione. E iniziava a spiegarsi quanto successo a Embers: doveva essere stata lei a lanciare l'idea, a sperare che qualcuno raccogliesse quell'inutile speranza di cambiare le cose. E non le serviva molto a credere che l'unica a darle ascolto fosse stata proprio Rachel.
Strinse il medaglione nel pugno. Qualcuno disposto a parlare tra i prigionieri ci sarebbe stato, avrebbe trovato le risposte che ancora le mancavano. Non poteva permettersi che Katherine mettesse ancora bocca nella faccenda: aveva già messo un veto, se avesse saputo del gesto di Miriam l'avrebbe protetta in ogni modo. E non poteva lasciarglielo fare. Riprese il fucile, staccandosi di scatto dalla parete e afferrò il braccio del primo soldato che le passò vicino.
«Generale?»
«Richiamagli altri. Se qui non c'è nulla, non perdiamo altro tempo. Torniamo a Vexhaben».
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