Thomas Kartier, al vostro servizio
Interludio
X
Hector Bernabé se ne stava seduto sulla sua soffice poltrona nel mastrocarro, in attesa di visite. Quella sera ci sarebbe stata la prima esibizione della ragazzina, una delle prime in scaletta, aveva già programmato tutto. Danha era allenata, non aveva paura delle altezze e sapeva lanciare frecce come poche altre persone.
Aveva creato per lei un numero su misura, aveva fatto spolverare vecchi tabelloni raffiguranti figure mitologiche e aveva tirato su un percorso ad ostacoli di cui Danha, fino a quel giorno, non sapeva nulla. Jovana l'aveva chiamata poche ore prima del tramonto e le aveva fatto vedere cosa avrebbe dovuto fare. Certo aveva omesso di dirle che, mentre lei saltellava da un tubo all'altro a venti piedi d'altezza, l'arena sarebbe stata riempita di Taipan e che i Taipan erano i serpenti più velenosi del mondo, ma la bambina era una professionista, o così le aveva detto il capo, e di certo un po' di adrenalina male non le avrebbe fatto. Lui intanto aveva approfittato delle prove per mandare un invito informale a Vladimir, il quale aveva lasciato i suoi ragazzi alla basilica e si stava incamminando verso il grande tendone.
Entra pure, mimò Hector, quando lo vide avvicinarsi.
L'uomo entrò, sorridendo. Aveva ormai superato la settantina, la lunga barba bianca si incastrava perfettamente tra una ruga e l'altra, ma gli occhi erano sempre gli stessi, lucidi e attenti, come cinquanta orbite addietro. Aveva sempre avuto un unico e solo difetto: era sordo come una campana. E non per modo di dire, aveva di fatto perso l'udito da giovane, fortunatamente dopo aver imparato a scrivere, ma nonostante ciò rimaneva uno dei migliori caporioni dell'Impero.
Con il passare delle orbite aveva anche imparato il Simbolium, ma era comunque difficile trovare qualcuno che sapesse comunicare in quel modo. Bernabé, tuttavia, era cresciuto con una madre sorda e un padre molto poco compassionevole, perciò imparare a comunicare con lei era stata più una necessità che un onere.
Invitò il collega a sedersi di fronte a lui porgendo la mano destra in avanti e gli offrì un bicchiere di Jerry. Rispolverò le sue conoscenze e si sgranchì le dita. La loro conversazione fu più o meno la seguente:
Hector: "Come stai?"
Vladimir: "Bene."
Hector: "Lavoro?"
Vladimir: "Problemi."
Hector: "Parla."
Vladimir si frugò nelle tasche e tirò fuori un foglio. Lo porse al suo interlocutore, mettendosi comodo e aspettando che lo leggesse.
Bernabé si rabbuiò, lesse la lettera due volte, poi alzò lo sguardo e riprese la conversazione con Vladimir.
Hector: "Perché?"
Vladimir: "Non mi fido della spia."
Hector: "Fate attenzione. Domani a mezzogiorno. Dieci once di papaveri".
Vladimir annuì, riprese il foglio dalle mani di Bernabé e gli strinse la mano prima di scivolare fuori dal carro.
Il direttore rimase a riflettere per qualche minuto, la sua mente era un gomitolo di pensieri e preoccupazioni. Non poteva permetterselo. Un altro ammutinamento da parte di un collaboratore avrebbe voluto dire un'altra indagine interna alla congrega e questo avrebbe significato sospetti e incertezze, continua apprensione, e lui non aveva la minima voglia di guardarsi le spalle anche a casa propria. La sua vita era già complicata di suo, le coltellate alla schiena erano all'ordine del giorno e, comunque, non è che facesse il lavoro più tranquillo del mondo. Anche solo far stare in piedi il Léon era una tortura. Bisognava organizzare gli spettacoli, coreografare nuovi pezzi, nascondere i narcotici e, ultimamente, anche i bambini.
E poi c'era quell'insopportabile ragazzina subordinata, gli servivano occhi ovunque per tenere d'occhio solo lei, figuriamoci l'operato della combriccola di Voldon. Mancava poco, ormai, allo spettacolo e alla prima esibizione della ragazzina.
La radura si stava riempiendo, Nia non si era mossa di un pollice dal botteghino e i musichieri ambulanti giravano ormai da tempo per intrattenere i visitatori. Sembrava che l'ambiente fosse uscito direttamente da uno di quei cinetografi installati nei teatri delle grandi città, la 'Marcia dei circensi' risuonava in ogni tendone, c'erano carretti di Ficocacce e tartufi dolci, palline di zucchero allo zenzero e paste alle mandorle amare.
Pensò al tempo e alla fatica che aveva sprecato per mettere insieme quella copertura, quel vecchio bastardo di Edmond non voleva saperne di cedere l'attività e aveva continuato a lottare con le unghie e con i denti fino all'ultimo, povero illuso. Voleva portare avanti lo spettacolo di famiglia, offrire un momento di svago e divertimenti ai bambini e non solo, Bernabé d'altro canto aveva bisogno di un luogo dove potersi nascondere e dietro il quale far crescere il giro di oppiacei. Così, al loro ultimo incontro, offrì all'anziano direttore un bicchiere di buon Kraken mischiato con arancia e quello che affermò essere sciroppo alla mandorla amara. La particolare amarezza della bevanda avrebbe dovuto far risuonare un campanello d'allarme nel vecchio Edmond il quale, tuttavia, non aveva nella sua indole né nel suo docile carattere l'inclinazione a pensare che qualcuno volesse ucciderlo. Bernabé ci trovava gusto a rimestare i vecchi ricordi, a ricordare quelle che lui dipingeva nella sua mente come le sue più grandi soddisfazioni. Come quella che stava guardando il quel momento, piccola e impaurita, quasi pronta per esibirsi.
Dopo un giro d'orologio, uscì dal mastrocarro e si diresse verso il botteghino.
«Come procede, Nia? Quasi pronti?», chiese alla ragazza dai capelli corvini.
«Tutto nella norma, Capo. Mancano due soli biglietti al Tuttopieno.»
«Li prendo io», disse una giovane voce maschile in avvicinamento. Era il ragazzo che Nia aveva incontrato due dì addietro, lungo il molo. Non pensava sarebbe venuto.
«Dankar! Quale sorpresa! Hai deciso di unirti a questa banda di disagiati?», gli chiese.
Bernabé si girò verso di lei e le sferrò uno sguardo a dir poco truce, pur mantenendo un sorriso di facciata per non insospettire i nuovi arrivati. «È così che accogli gli ospiti, Nia?»
«Oh, chiedo scusa, Capo. È un mio amico, diciamo. Benvenuti, lei signore è?», chiese, riferendosi all'attempato accompagnatore del ragazzo.
«Baltizar Barnes, al suo servizio.», disse lui, ridendo e porgendole una sghemba riverenza.
Dankar si sarebbe senza dubbio messo a ridere, se non fosse che era la prima volta che si trovava di fronte all'ormai famoso Hector Bernabé e studiarne ogni mossa era diventato il suo unico obiettivo. Allungò la mano verso Nia per prendere i biglietti e si rivolse al Direttore, facendogli cenno di accompagnarlo all'ingresso del tendone.
«Allora, signor Bernabé, la sua fama la precede, è un piacere», gli disse.
Bernabé lo guardò con fare indifferente, ostentando comunque un sorriso tirato di copertura. Quanto di quelle futili interazioni sociali fosse veramente sentito, nemmeno Mercurio ne era al corrente.
«Così come quella di tuo padre, ragazzo. Come sta il grande Iwan?» gli chiese, per nulla ignaro della sua dipartita.
«Sdraiato, in una cassa in fondo agli abissi che funge da tavolo per i sontuosi banchetti dei barracuda.»
Bernabé strabuzzò gli occhi, quel poco che bastava a renderlo un buon teatrante, ma non abbastanza per sembrare veramente in lutto. «Oh, mi dispiace tanto ragazzo. Era un brav'uomo, che riposi in pace. Hai preso tu le redini della Murena quindi?»
«Come da lui richiesto, ma mi parli di lei. Come girano gli affari? Ho sentito che avete venduto tutti i biglietti, dev'essere molto fiero del suo operato.»
«Lo sono, vi prego entrate e lasciate che vi liberi i posti in prima fila. Questa sera abbiamo una nuova aggiunta, non vorreste perderla!» e così dicendo camminò tra le palizzate interne fino a raggiungere la prima fila, chiese sorridendo a una coppia di nobili verkheidiani di spostarsi, con un tono che non permetteva un no come risposta e si congedò dal giovane pirata e dal suo accompagnatore con un inchino e un sorriso finto come le regole del Perudo di Jackir.
"Merda", pensò. "Ci manca solo il figlio bastardo del pirata".
Con questi pensieri e con altre mille bestemmie sulla punta della lingua, si diresse verso il retroquinta del tendone e, da lì, alla sua cabina privata, dove lo aspettavano un lungo completo viola, nuovo di zecca per l'occasione, un cappello a cilindro e il suo amato bastone. Si cambiò in fretta e quando Nia bussò alla porta della cabina per avvisarlo che mancava un giro veloce d'orologio all'inizio, lui era pronto come sempre.
«Si va in scena», disse alla figura riflessa nello specchio.
E mentre il Direttore del Léon faceva un ingresso teatrale nell'arena e la piccola Danha tremava nel retroquinta, un acrobaliere di nome Uno e un nano di nome Vinicio uscivano di soppiatto, per volere del loro capo, in direzione del centro città.
XI
A fine spettacolo, Dankar si congedò ringraziando Bernabé e riempiendolo di superficiali e decisamente poco sentiti complimenti, prima di ritirarsi sulla Murena insieme al suo Quartiermastro. La notte era tiepida e il rumore dolce dell'acqua nel porto dava conforto alle orecchie del giovane pirata, tartassate dall'orrenda e inascoltabile musica del circo.
«Dimmi tutto», disse Dankar, rivolgendosi a Baltizar.
«Ha funzionato?», chiese lui, scettico.
«Bernabé non ha notato che vicino a me c'era Milon truccato peggio di una cortigiana al posto tuo, se è quello che mi stai chiedendo», rispose il giovane capitano.
«Te lo devo dire, resta un'offesa bella e buona. Me la sono legata al tricorno», disse il Quartiermastro di rimando.
Dankar alzò gli occhi al cielo, ma non riuscì a trattenere un sorriso. «Sono in una botte di ferro, allora. La prossima sarà la dodicesima volta che lo perdi, quel cazzo di cappello. Va' avanti.»
«Non c'è molto da dire, i due saltimbanchi sono arrivati alla Basilica, un teppistello ha controllato chi fossero e ha aperto loro la porta di servizio. Sono usciti un giro d'orologio più tardi e i loro mantelli sembravano più gonfi. Ad ogni modo, sono rientrati dal retroquinta del Léon e hanno consegnato il bottino alla donna barbuta che ha a sua volta portato tutto nel mastrocarro di Bernabé. Non sono riuscito a vedere cosa ci fosse dentro ai sacchi, ma dall'odore direi Belladonna.»
«Perché che odore ha la Belladonna?»
Balt fece una smorfia di disgusto. «Oddio, vediamo, come posso dirlo. Metti insieme una Cefalaspida morta, del succo di pompelmo andato a male e il piscio di cinquanta bucanieri sbronzi e voilà!»
«Hai praticamente descritto la Murena.»
«Già, ho tutto il diritto di andare in pensione, non credi?»
Dankar annuì, ma senza convinzione. Non poteva permettersi di lasciar andare Baltizar. «Cos'altro?»
«Ho visto una persona, sul tetto della Basilica, non più vecchia di te, ma leggermente più alta. È rimasta appostata lassù, l'ho persa di vista per cinque minuti e poi è scappata sui tetti verso Sud.»
«Pensi che sia riuscita a carpire qualcosa?»
«Intendi informazioni o veleno?», chiese Baltizar con un sopracciglio rialzato.
«Entrambe», disse Dankar, alzando le spalle.
«Non saprei, era buio e non era nient'altro che un'ombra che scalava muri e finestre.»
Dankar si guardò intorno, pensieroso.
«Come quella che si sta arrampicando adesso sulla murata della mia nave?», chiese indicando il fianco della Murena.
Baltizar si girò nella direzione indicata dal ragazzo: un'ombra stava risalendo le travi in legno fino al parapetto, agile come solo chi si nasconde o sta scappando da qualcosa sa essere.
Una volta sulla nave, dopo una corsa che pareva più un saltellare ansimante, il Capitano diede l'ordine di illuminarla a giorno. Che usassero il fuoco, l'alchimia o la fede negli Pseudologi, non gli interessava. Mentre Baltizar metteva al corrente la ciurma sulla caccia allo sconosciuto, Dankar fece un giro di perlustrazione sottocoperta, prima di entrare in cabina.
Non passò molto tempo prima che qualcuno bussò alla porta.
«Avanti!»
Entrarono Jackir e Baltizar, quest'ultimo con un sacco di iuta in una mano e un ragazzino concitato bloccato sotto l'altro braccio. Se era davvero lo sconosciuto della Basilica, il Quartiermastro aveva ragione: non poteva essere più vecchio di lui, ma era magro, malnutrito a ben guardare, con la testa quasi del tutto rasata e due grandi occhi verdi che tenevano stretto tra loro un naso dritto come l'albero maestro della Murena. Portava calzoni e camicia neri, una maschera pervinca che gli copriva metà del viso e un paio di stivali che avrebbero potuto benissimo camminare da soli, per quanto logori.
«E lasciami, per gli Dèi!», ripeteva, dimenandosi e cercando di sgusciare fuori dalla presa di Baltizar.
«Lascialo», ordinò Dankar al compagno. Il Quartiermastro obbedì e lo sconosciuto si massaggiò il polso martoriato, prima di rivolgere l'attenzione al Capitano.
«Capitano Dagger, immagino. Thomas Kartier, al vostro servizio», disse, togliendosi la maschera e facendo un mezzo inchino.
«Thomas. È un piacere. Ti lascio iniziare con le spiegazioni da dove preferisci.»
Thomas lo guardò, poi si schiarì la voce. «Vediamo. Potete chiamarmi Tommy, sono un tipo simpatico, nato a Diefbourg e ho bisogno di soldi. Sapevo che vostro padre aveva dei trascorsi con Hector Bernabé, sono un ladro discreto e, con tutto il rispetto, una migliore spia rispetto a questo bell'imbusto dalla barba ormai grigetta. Se volete ammazzare qualcuno, e con qualcuno intendo fino a un centinaio di persone, in quella sacca ci sono a stima tre once di Belladonna e a me basterebbero, diciamo, duecento aurei. Prezzo amico.»
Dankar spostò gli occhi dal ladro al suo Quartiermastro che aveva un'espressione a metà tra lo scocciato e il divertito, poi tornò a guardare Thomas. «Come sei arrivato a Voldon?»
«Ho chiesto un passaggio a un amico.»
«Quale amico?»
«Non saprei, dici che siamo diventati amici adesso?», chiese Thomas al Capitano.
Dankar lo fissò per un attimo, poi sorrise. «Non ancora. A chi pensavi di vendere quella roba?»
«A voi?»
«E chi ti ha fatto credere che noi ne avessimo bisogno?»
«Il vostro farvi ben volere dal Direttore pazzo?»
Dankar lo guardò di sbieco, inarcando un sopracciglio, e invitò Jackir a uscire, lasciandoli soli. Poi si rivolse nuovamente a Tommy. «Vediamo se ho capito bene. Tu volevi fare affari con mio padre, mio padre è morto, ci hai spiati per capire quali erano le nostre intenzioni, sei andato a rubare un veleno che ammazzerebbe un esercito, l'hai portato sulla mia nave con assoluta nonchalance e adesso ti aspetti non solo che io non ti butti in mare, ma addirittura che ti paghi?»
«Ehm, sì?», chiese Tommy, con un sopracciglio alzato e un fiero sorriso sulle labbra.
Dankar si voltò verso Baltizar, che stava cercando con tutte le sue forze di trattenere una risata, poi tornò con lo sguardo sul ragazzo. «Riesci a non rispondere alle mie domande con altre domande?»
«Non ne sono sicuro. Mi piace tenere alta l'attenzione del pubblico» e così dicendo prese una delle poltrone collocate lungo il tavolo al centro della cabina e si sedette.
«Sei un teatrante?», gli chiese Dankar.
«Ho studiato teatro, ma non mi limiterei a definirmi tale. Può un teatrante fingersi un'altra persona, muoversi silenziosamente come un'ombra e saper usare la propria intelligenza e le proprie armi per ingannare gli altri?»
«È esattamente quello che fa un teatrante», gli rispose Dankar, dopo aver guardato per un attimo Baltizar.
«Ah». Tommy si avvicinò il pollice e l'indice della mano destra al mento, fingendo di pensare attentamente alla risposta dei suoi interlocutori, quindi si alzò per fare un profondo inchino. «Bene, signori. Allora vi presento il miglior teatrante che voi possiate mai incontrare.»
Il Quartiermastro della Murena sorrise al suo Capitano e gli fece un cenno di assenso con la testa. Lui si girò nuovamente verso quello strano ragazzo di nome Thomas e gli si avvicinò di qualche spanna.
«Sei insopportabile e so che me ne pentirò, ma ti propongo un accordo...»
Due rapidi giri d'orologio più tardi, erano soci.
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