Sei davvero disposta a fare qualsiasi cosa per salvarlo?
Interludio
(Parte prima)
VII
«È semplice, Lince. A due miglia da qui, verso est, c'è una taverna. Dà sul porto, piccola porticina in legno, botti attorno alle quali sedersi, anonima come tutte le altre. Sentirai una musica, allegra perlopiù, boccali che sbattono gli uni contro gli altri, risate e discorsi poco seri, ma tu non devi farci caso. Non devi entrare, devi solo nasconderti e ascoltare la musica. Ad un certo punto sentirai una canzone triste, s'intitola 'Filibustiera', ma non dovrai preoccuparti di ascoltare le parole, perché la riconoscerai subito: è l'unica canzone triste del repertorio. Quando senti che la melodia rallenta, che le risate si indeboliscono e che tra gli ospiti cala il silenzio dovrai muoverti. A destra dell'edificio c'è una via molto stretta. Non ha un inizio né una fine, sarà lunga in tutto una ventina di piedi. Troverai una scala e se non la troverai, beh, dovrai arrangiarti. Raggiungi la finestra al primo piano, ma non entrare. Bussa veloce due volte e poi tre lentamente, un uomo dovrebbe giungere da te e lasciarti un sacchetto di iuta. Non dire niente, non fare domande, prendi solo quel sacchetto e torna da me il prima possibile. Rapido e indolore.»
«Così pare», rispose Danha, pensando che sembrasse fin troppo facile.
Da quello che aveva capito, il lento all'interno della taverna avrebbe tenuto tutti gli occhi e le orecchie occupate per almeno tre minuti e solitamente i lenti vengono cantati a fine serata, per sbollire gli spiriti e cercare di far tornare tutti sulla propria strada.
Ciò significava che i bambini non scorrazzavano per le strade già da qualche ora e gli adulti sarebbero stati o troppo sbronzi o troppo presi per interessarsi di cosa succedesse all'esterno di quelle quattro mura. Tutto dipendeva dalla velocità con la quale quell'uomo le avrebbe passato l'oggetto tanto desiderato da Bernabé, ma a parte questo non metteva in dubbio le proprie capacità e la propria velocità in una missione così misteriosamente semplice da non poter neanche essere chiamata tale.
«Perfetto, perché voglio una cosa pulita e silenziosa. Le giubbe verdi controllano il perimetro ogni dieci minuti, non entrano nelle stradine senza uscita, ma dovrai stare attenta e controllare il tempo. Qualsiasi cosa succeda, qualsiasi imprevisto o sfortunato incontro tu abbia, inizia a correre e non fermarti finché non sarai al sicuro e questo significa lontano da qui.»
Danha pensò di aver sentito male e lo guardò con sguardo confuso. «Hai sentito bene mia cara. Tu sei anonima e questo ai miei occhi ti rende speciale. Può sembrare paradossale, ma l'anonimato in questo lavoro è fondamentale, non posso permettermi di trovarmi le giubbe sulla soglia di casa, intesi? Io ti terrò con me per il tempo necessario a concludere ciò che devo concludere e questo significa darti cibo, vestiti e un letto in cui dormire. In cambio tu dovrai essere i miei infinitamente grati occhi e le mie molto riconoscenti mani. Domande?»
Danha scosse la testa.
Era tutto chiaro: se avessero dovuto prenderla, lei non avrebbe saputo dire chi fosse quel cosiddetto Bernabé. Subito sperò anche che la prendessero: fanculo Bernabé e il suo circo marcio, essere presa avrebbe voluto dire avere la possibilità di scappare, ma dove mai sarebbe potuta andare senza suo fratello? Così continuò ad annuire, arrendevole.
«Cosa c'è dentro al sacchetto?», chiese al direttore.
«Vorrei dirti che la regola numero uno del nostro segretissimo club è quella di non fare domande, ma avrai tu l'onore di ritirare la merce e non sono così idiota da pensare che aprirlo non sarà la tua prima mossa, perciò foglie di belladonna. Contate fino all'ultima, nel caso ti vengano strane idee.»
«Tipo avvelenarti per riprendermi mio fratello?»
L'angolo destro della bocca di Bernabé si alzò di qualche millimetro, forse fu impercettibile o forse a Danha piaceva l'idea di essere un passo avanti a lui, di poterlo battere se non al suo stesso gioco, quanto meno con le parole.
«Vacci piano ragazzina, a me piace torturare le persone e più sono piccole più mi diverto. Scegli con cura le parole quando ti rivolgi a me.»
Danha era preoccupata per la salute di Nath, ma non era per niente intimorita dall'uomo che aveva davanti. D'altronde era giovane, molto giovane, a quell'età non si sa cosa sia la paura e forse per ciò che l'aspettava era meglio così. Avrebbe imparato ad averne in futuro e dopodiché avrebbe addirittura imparato ad affrontarla e a conviverci, ma non era quello il momento.
In quel momento si alzò, si trascinò fuori dal tendone e si incamminò verso est, verso una strana via senz'uscita, una scala nascosta, un uomo sconosciuto probabilmente drogato e una strana eccitazione nel cuore. Quella serata urlava pericolo e lei non vedeva l'ora di saltargli addosso.
Dopo due ore di attesa, venti canzoni allegre, otto ballate e tre serenate oscene, Danha era ancora appollaiata sul tetto della bottega di fianco quando iniziò a sentire le risate calare e una lenta melodia iniziare:
Inizia la storia di una filibustiera
Viveva di carpe sopra una nave
Triste e ormai colma di lacrime era
Al caldo tra i seni portava una chiave...
Le giubbe verdi erano già passate due minuti prima, avevano dato un'occhiata all'interno, incoraggiato le persone a tornare alle proprie dimore al più presto e avevano ripreso la ronda proseguendo verso nord.
Era il momento perfetto.
Danha scese dalla grondaia della bottega e si incamminò guardandosi intorno verso la stradina buia. Via libera. Vide la scala, era effettivamente ben nascosta e, avendo solo più otto minuti a disposizione, iniziò a salirci, ma a metà strada trovò una specie di intoppo: una donna, tanto nuda quanto arrabbiata, si stava letteralmente catapultando fuori dalla finestra gridando parole non proprio romantiche a quello che Danha immaginò essere il suo amante.
L'uomo aveva tutta l'aria di qualcuno che non aveva la più pallida idea di cosa stesse succedendo e dal leggero velo sui suoi occhi e dal balbettio che emetteva capì che doveva fare qualcosa per non farsi vedere e prendere al più presto la belladonna.
La madama adultera, iniziò a scendere alla cieca i tanti pioli della scala, continuando a imprecare e bestemmiare contro gli Pseudologi, mentre l'uomo sparì all'interno della stanza. Danha iniziò a indietreggiare nel buio fino alla fine di quella piccola strada che una fine sembrava non averla e pregò Mercurio di non ascoltare quella donna e di dare retta a lei, che ne aveva più bisogno. Arrivata in fondo, la donna se ne andò, non senza aver lanciato ancora urli e minacce all'uomo, senza ricevere risposta.
Controllò l'ora: aveva 3 giri rapidi. Si avvicinò alla scala, restando nel buio, finché non toccò con il piede il primo piolo e quando pensava di avercela fatta, alcuni avventori della locanda uscirono, curiosi di vedere da dove provenivano le urla.
«Avete sentito anche voi?»
«Mi è sembrata una voce familiare.»
«Sarà stata tua moglie che m'implorava di concederle un secondo round dopo ieri sera.»
La strada si riempì prima di risate e poi di cazzotti. La cosa non toccava più di molto Danha, che nel frattempo, approfittando delle ombre dei lampioni ad olio era arrivata all'altezza della finestra, ancora aperta.
L'uomo era sulla quarantina, tarchiato, e indossava solo un paio di calzoni di lino, lisi sulle ginocchia. Il sudore sul suo petto luccicava al bagliore della lampada e stava semidisteso sul letto, la testa a penzoloni, piuttosto pallida rispetto al resto del corpo. Entrò facendo attenzione, camminando tanto silenziosamente da sembrare a un pollice da terra, si avvicinò all'uomo quel tanto che bastava per controllare che il suo torace si muovesse ancora, seppur debolmente e poi alzò lo sguardo per guardarsi incontro.
Quella stanza era piuttosto spoglia: oltre al letto e alla scrivania, ospitava una sola credenza con ante in vetro Assiano e una sacca, probabilmente contenente i pochi averi del povero disgraziato.
Vi frugò all'interno senza trovare altro che un paio di braghe e una casacca di ricambio, un libro e un pezzo di pane mezzo ammuffito. Rovistò nella credenza e sulla scrivania, sotto il letto e nel comodino. Niente.
Rimaneva solo più da guardare nelle tasche di quell'uomo che, per quanto ne sapeva, poteva anche stare facendo finta di dormire o essere già morto. Con la maggiore delicatezza di cui era capace, allungò il braccio verso la tasca destra dei suoi calzoni. Niente. Si spostò verso la tasca sinistra, allungandosi ulteriormente sopra quel corpo sudato e febbricitante. «Cerchi qualcosa?»
Danha alzò lo sguardò e si ritrovò a qualche centimetro da due occhi svegli e perfettamente vigili che la fissavano immobili.
«Io, ehm...»
"Ricorda, qualsiasi cosa accada tu inizia a correre e non fermarti."
Lei cercò di correre via, ma l'uomo le bloccò il polso con una mano, mentre con l'altra le serrò la bocca per non farla urlare. «Dove pensi di andare?»
Danha non voleva urlare e nemmeno scappare, se è per questo, voleva quelle foglie, voleva provare a Bernabé che poteva fidarsi di lei, voleva farselo amico, ma la situazione in quel momento non era delle migliori: piegata tra un corpo caldo e sudaticcio e il legno freddo del comodino, fece l'unica cosa che quanto meno avrebbe potuto farla uscire da quella scomoda posizione.
Con la mano libera bussò due volte veloce e tre lentamente sul comodino. La presa dell'uomo sul suo polso e sul suo viso si allentò.
«Bernarbé...», sussurrò l'uomo. «Cosa sei venuta a fare?»
Danha si massaggiò il polso. «La Belladonna.»
«Non sei un po' troppo giovane per occuparti di affari, bellezza?»
«Non sei un po' troppo vecchio per occuparti di quella donna? Oh, ora capisco perché ti serve la droga», gli rispose lei, sarcastica.
L'uomo era furioso. «Se non ti avesse mandato Bernabé saresti morta a quest'ora. Ora spogliati.»
Dahna sbatté le palpebre una, due, tre volte, immobile. Gli occhi sbarrati. Non l'ha detto veramente, pensò.
«Questo faceva parte dell'accordo, Bernabé non te l'ha detto?»
Sul volto di Danha sfilarono con prepotenza prima la confusione e poi, per la prima volta davvero, la paura. Il terrore più puro, quello che fa venire la pelle d'oca su ogni singolo centimetro di pelle. Iniziò a tremare senza accorgersene.
Bernabé l'aveva venduta per un sacchetto di droga?
L'uomo si era tranquillizzato, ma aveva iniziato a guardarla come un leone guarda la sua preda prima di mangiarsela. Lo sguardo pieno di eccitazione e nessun rimorso.
Si avvicinò e iniziò a toccarle il collo, poi il seno, mentre Danha cercava di divincolarsi, tirando pugni in ogni direzione, ma era bloccata, la forza di quell'uomo era semplicemente troppa.
«Lasciami! Non mi toccare!», cercava di urlare. La paura che cresceva, il cuore in gola, il panico negli occhi.
«Ssshh. Ho capito chi sei, Hector mi aveva parlato di un ragazzino preso in ostaggio per minacciare una promettente giovane sorella maggiore disposta a fare qualsiasi cosa per salvarlo. Immagino tu sia quella sorella, sbaglio?»
Dahna per la prima volta non sapeva cosa fare.
Era stata venduta, l'istinto le urlava di mordere il braccio di quel lurido e filarsela il più velocemente possibile. La testa, però... Quella sapeva che le sue azioni avrebbero avuto delle conseguenze. Non avrebbero mai ucciso suo fratello, un ostaggio serviva vivo per poter essere chiamato tale, ma cosa gli avrebbero fatto? Se Bernabé si era spinto fino a questo punto con lei, quali torture avrebbe potuto infliggere a Nath?
L'uomo si schiarì la voce e le prese il viso tra le mani, puntando lo sguardo nel suo. «Quindi, dimmi piccola... Sei davvero disposta a fare qualsiasi cosa per salvarlo?»
E in quel momento Danha seppe che era quella la prova, che era sempre stato quello il piano di Bernabé.
Voleva vedere fino a che punto si sarebbe spinta per salvare suo fratello, fino a che punto poteva fidarsi di lei.
E lei voleva urlare, voleva prendere a pugni quel viscido verme sudato, voleva essere coraggiosa e prendere in mano la sua vita, essere egoista per una volta e combattere per sé stessa, voleva spaccare la faccia a quello stronzo che aveva rapito lei e Nath.
Invece si arrese e pianse e, mentre l'uomo iniziava a spogliarla, pensò a suo fratello, incatenato sotto a un carro a sole due miglia da lì, impaurito e spaventato. Se doveva sopportare questo per salvargli la vita, lo avrebbe fatto. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per lui.
Così spense il cervello e venti giri più tardi fu di ritorno ai carri, con un centinaio di foglie di belladonna sotto il braccio, la testa colma di bruciante rabbia e un dolore pulsante tra le gambe, e al cuore, che l'avrebbe accompagnata per il resto dei suoi giorni.
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