Io sono nata con la barba, non mi faccio troppe domande

Interludio

IV

Erano passati tre dì da quando Danha era partita con il Léon e aveva lasciato la madre in lacrime sulla soglia della porta di casa, al Malagio. Il viaggio da Diefbourg a Buthier era stato il più lungo della sua vita.

Ogni notte, quei carri trainati da neri cavalli avvezzati e depressi gettavano l'ancora in un luogo diverso, solitamente mai lontano da taverne o dalle zone meno raccomandabili delle città. Danha non aveva ancora fatto conoscenze. Forse, il modo in cui aveva affrontato quel viaggio, con l'arco in una mano e un libro nell'altra, ne era il motivo principale.

Buthier fu la prima sosta vera e propria dopo quarantotto lenti giri d'orologio, seduta su un pezzo di legno sobbalzante a quattro ruote, sdraiata in locande dal carattere ambiguo e appostata su tetti scivolosi, alla ricerca di pace.

Non aveva ancora trovato o visto suo fratello. Ovunque fosse, sempre che fosse ancora lì, dovevano avergli riservato un posto speciale. Durante quelle due interminabili notti, quando Bernabé si occupava dei suoi affari nel Mastrocarro e il resto degli artisti si dava alle feste o dormiva placidamente, Danha cercava risposte girando furtiva tra i carri, spostando i tendoni a righe, cercando di non urlare quando dietro a questi trovava un muso grande quattro volte la sua faccia.

Una ricerca continua, estenuante e inutile, fino alla prima notte a Buthier.

Il Léon era arrivato al calar del sole e si era fermato a un centinaio di metri dalla Fonderia della città, in una piana ideale per montare i tendoni e allestire lo spettacolo il dì successivo. Quell'antinotte, Danha aspettò che nel suo carro scendesse il silenzio più assoluto e quando fu certa che ogni artista aveva una donna, un letto, una taverna o un intrattenimento di qualsiasi altro tipo, sbirciò fuori dalla lunga tenda scura.

La piana era deserta e silenziosa, l'unico rumore che arrivava alle sue orecchie era il sibilo di una leggera brezza serale e il garrito affamato di gabbiani lontani in cerca di cibo tra i rifiuti della Fonderia.

Era il momento ideale: balzò a terra silenziosa e iniziò ad incamminarsi verso Nord, dove stava il Mastrocarro di Bernabé, l'unica luce accesa in quel mare di semibuio. Passò furtiva tra un carro e l'altro, esattamente come aveva fatto le notti precedenti, scostando ogni tenda alla disperata ricerca di un viso familiare.

Il primo carro, quello davanti al suo, sembrava uscito da una storia di fantasia: un letto singolo con due cuscini stava in un angolo, vicino a una pila di libri, mentre dall'altro lato vi era un giaciglio improvvisato lungo al massimo un metro. Ipotizzò che fosse il carro dei gemelli siamesi e del nano, ma nessuna traccia di Nath, così rimise a posto la tenda e continuò furtiva verso il carro successivo.

Questa volta al suo interno vide una grande toeletta, piena di pettini e spazzole e trucchi di vario genere, sormontata da un enorme specchio decorato in bronzo. "Dev'essere quello della donna barbuta", suppose, "se non suo, sicuramente di qualcuno dall'immensurabile vanità". Quindi, delusa, richiuse la tenda e procedette. Il terzo carro fu quello degli acrobati e dei giocolieri, dove tra clave, trapezi e palline di corda intrecciata il disordine regnava sovrano. E il carro del domatore, sul cui letto stavano adagiate con cura fruste e drappi colorati.

Mancavano solo due carri prima del Mastro, escludendo quelli che ospitavano gli animali, e Danha iniziò a pensare che forse avrebbe dovuto guardare anche lì, dopo aver scoperto che il quinto carro apparteneva ai Giullari. Quando ebbe finito di sbirciare nella loro piccola cabina e quando fu sicura che nasi rossi e pantaloni a righe non appartenessero a suo fratello, fece scivolare la testa indietro per rimettere il tessuto al suo posto quando si trovò faccia a faccia con il direttore.

«Giro turistico?», le chiese, con un certo divertimento nello sguardo.

«No, io stavo solo...», cercò di giustificarsi lei, spaventata da quell'improvvisa comparsa.

«Cercando tuo fratello? Mi stupisce che tu non l'abbia ancora trovato, è esattamente nel posto in cui ti ho detto di cercare», rispose lui, sogghignando.

Danha rifletté sui carri già scandagliati: mancavano alcuni carri alla sua lista, ma all'interno della gabbia del leone aveva già sbirciato due notti prima. Che ci fosse più di un leone? All'inizio si era rifiutata di credere che un bambino fosse stato davvero rinchiuso in una gabbia con il re delle bestie feroci e quando la trovò vuota, e i suoi dubbi risultarono fondati, la speranza che suo fratello fosse vivo e vegeto in un luogo meno ostile ricominciò a crescere in lei.
Era forse stata ingenua a crederlo?

«Questa è la tua prima lezione, piccola lince: il modo migliore per nascondere una cosa è metterla in bella mostra. La maggior parte della gente guarderà dove tu dici di non guardare. Ironico, vero? Ah, l'uomo, che magnifica creatura!», le disse con tono divertito. «L'ultima volta che ci siamo visti, ti ho detto che tuo fratello stava insieme alla nostra affamata stella dalla criniera aurea, perché non andarci subito?», le chiese.

Danha non rispose, continuò a riflettere su quelle due notti precedenti e su ciò che aveva visto in quella gabbia.

«Sei qui, hai visto i camerini di tutti, avuto un incontro ravvicinato con cinque specie diverse di pantere, compresa l'Onca di Varsavius, due equidi e almeno un elefante nano di Tilos, ma non hai trovato tuo fratello perché non hai cercato nell'unico posto in cui ti avevo detto che l'avresti trovato?», le chiese.

"Non c'era nessuno in quella gabbia" pensò, ma non disse nulla.

«Sei giovane Lince, non sai ancora niente e non sei ancora niente, per ora. Non sai come ci si comporta in società, non sai mentire senza distogliere lo sguardo, non sai come riconoscere un buon rum da uno contraffatto, non sai ascoltare ciò che ti viene detto e non sai usare un'arma che non sia un pezzo di legno piegato, utile solo se hai spazio e tempo dalla tua parte. Un giorno potrebbero puntarti una pistola alla fronte e il tuo arco non potrà fare un bel niente, dovrai imparare a usare armi diverse, armi più efficaci e più affilate, come questa», disse indicando con un dito la sua testa.

«Non ho bisogno di un lavaggio del cervello», disse lei, scettica.

Bernabé scoppiò in una fragorosa risata. «Sì, piccola, se vuoi sopravvivere nel mondo là fuori hai bisogno di affilare quella lama. Domani sera ci esibiremo per la prima volta da quando hai messo piede su queste scatole traballanti, tu guarderai lo spettacolo e te lo godrai fino in fondo perché sarà l'ultimo che potrai vedere dalle tribune. Dall'indomani all'alba, ti allenerai con Phil durante il dì e verrai da me al calar del sole: lui ti insegnerà a piegare il tuo fisico, io a piegare la tua mente. Diventerai parte di questa grande famiglia, che ti piaccia o no, e sarai molto più preziosa di quanto pensi», le disse facendo scivolare l'indice sotto il suo mento e alzandole il viso per guardarla negli occhi.

«Tuo fratello è davvero nella gabbia del leone, accanto a quella del Megalocero, e lì resterà per tutto il tempo della tua permanenza con noi. Mi piace guardarti vagabondare alla sua ricerca. Quando lo troverai, se provi a parlargli, se provi ad avvicinarti, se provi a escogitare uno stupido piano di fuga o anche solo a pensare di escogitarlo, lui è morto. Sono stato abbastanza chiaro?»

Il cuore di Danha era ormai fuori controllo e calde lacrime argentee si raccolsero alla base dei suoi occhi. «Sì», rispose.

«Sì, Direttore», la corresse lui.

«Sì, Direttore», ripeté Danha.

Bernabé sorrise. «Molto bene, ora da brava torna alla tua cuccetta e mettiti a dormire che domani ci aspetta una lunga giornata: dobbiamo montare i tendoni, allestirli, provare i numeri, vedrai, sarà divertente», le disse afferrandole entrambe le spalle, facendola girare e dandole una piccola spinta nella direzione dalla quale era venuta.

Danha tornò verso il suo piccolo carro, portando con sé vergogna e sconforto, e non osò guardare in direzione degli animali, non osò neanche pensarci, ancora spaventata dalle parole di quell'uomo. Entrò scostando la sua tenda e si adagiò sul giaciglio di paglia improvvisato all'angolo, provò con tutte le sue forze a dormire, ma riuscì a malapena a chiudere gli occhi.

All'alba, quando gli artisti cominciarono ad alzarsi e a spezzare il pacifico silenzio notturno, Danha stava ancora cercando di prendere sonno e di non pensare al suo fratellino, chiuso in una gabbia con un animale venti volte più grande e feroce di lui, indifeso e probabilmente anche disperato, convinto che sua sorella non sarebbe mai andata a salvarlo.

Ma lei l'avrebbe fatto, lo giurò su sé stessa e sugli Pseudologi, lo giurò su sua madre e su suo padre, lo giurò sul suo arco, che era il suo bene più prezioso: l'avrebbe tirato fuori di lì. E se questo significava obbedire a un Direttore pazzo e sottomettersi alla sua volontà, sarebbe diventata la migliore artista che il Léon avesse mai fatto esibire e sarebbe stata la sua migliore adepta, avrebbe conquistato la sua fiducia ed eseguito i suoi ordini con una precisione maniacale. Sarebbe stata perfetta.

E un giorno, giurò, lo sarebbe stata anche la sua vendetta.

Quel pomeriggio passò più velocemente di quanto Danha si aspettasse. Dopo un misero pranzo nella taverna più vicina, una specie di brodo insipido nel quale galleggiavano pezzi di cibo non del tutto riconoscibili, venne chiamata a montare il tendone principale in mezzo alla radura.

Non che il suo contributo facesse una grande differenza in termini di forza-lavoro, le sue braccia avevano il diametro di un pennino, ma cercò comunque di rendersi utile nella speranza di conoscere qualche artista e, soprattutto, compiacere al Direttore.

«Tu, vieni qui. Prendi questa», le disse la Barbuta, passandole la cima di una corda spessa quanto la sua gamba. Non era sicura che quella corda servisse davvero a qualcosa, ma fece come le era stata detto.

«Arrotolala e portala nel magazzino», le ordinò.
Danha non aveva idea di dove fosse il magazzino, né di che aspetto dovesse avere, ipotizzò che fosse dentro un carro, sì, ma quale? Ce n'erano a decine.

«Scusate, io non so dove si trova il magazzino», disse alla Barbuta, con uno sguardo intimidito.

La donna si mise a ridere. «Oh Enus, del voi mi dà! Là, vicino al mastrocarro, quello di legno più scuro, lo vedi?»

«Sì, Signoria. Vi ringrazio», le rispose Danha.

La Barbuta non riuscì più a trattenersi e scoppiò in una grassa risata. «Piccola, te lo dico io prima che ti trovi davanti qualcuno di molto meno garbato. Noi siamo artisti di strada, siamo paragonati e messi allo stesso livello delle bestie con cui lavoriamo. Non siamo nessuno e di certo non siamo Signorie. È quasi un'offesa per qualcuno di noi essere paragonato a quegli stronzi pieni di soldi, Bernabé incluso, ma facciamo i bravi e stiamo al nostro posto. Da domani sarai parte della banda e noi saremo gli unici amici che avrai, quindi niente Signoria e niente voi, d'accordo?»

«D'accordo, grazie...», disse Danha in attesa di sapere il nome della donna.

«Jovana, ma puoi chiamarmi Jova se vuoi. I gemelli siamesi si chiamano Archie e Bald, volevano chiamarli Archibald, ma loro si sono opposti sostenendo giustamente di essere in due là dentro. Nessuno ha ancora capito come sia possibile, ma d'altronde io sono nata con la barba, quindi non mi faccio troppe domande. I due Giullari sono Ciccio e Sbrodo, inutile che ti spieghi il motivo.»

A Dahna sfuggì una risatina.

«Il nano si chiama Virnie, il diminutivo di Virnicio mi pare o di un nome simile, ma tutti lo chiamano Bassotto e noi lo chiamiamo Bas.»

«Non è un po' offensivo?»

«Sarebbe stato peggio chiamarlo pertica, non credi?»

Dahna rise e annuì. Jova iniziava a piacerle.

«Rasko è il Domatore, si occupa principalmente di pantere e di elefanti, mentre del leone e del megalocero se ne occupa Bernabé, ma questo direi che era piuttosto ovvio. Il direttore non lascia mai quelle due bestie nelle mani di nessun'altro. Infine, quei cinque pazzi fatti con lo stampino sono gli Acrobalieri, hanno dei nomi troppo complicati, tipo Karzij, Tronlij e non so più che altro, quindi li chiamiamo con i numeri. È stato un'idea loro, prima che pensi a qualche sorta di discriminazione da parte nostra. Il ragazzo che tiene il palo centrale del tendone è Uno, quello che controlla i trapezi è Due, la ragazza che aiuta i gemelli a issare il tendone è Tre. La bionda che si sta allenando è Quattro, mentre Cinque è quello laggiù, sdraiato sul prato a non fare nulla, la sua specialità. Oh, e poi c'è Phil. Lui era il nostro contorsionista, era il migliore davvero. Poteva contorcersi tanto da stare in un cubo di vetro alto quaranta centimetri, ma c'è stato un incidente qualche ciclo fa e... beh, lo vedrai tu stessa. Benvenuta al Léon», le disse infine, sorridendo.

«Ora porta quella corda al magazzino che c'è fin troppo lavoro da fare.»

Danha fece come le era stato ordinato, portò la corda nell'unico carro che non era riuscita a vedere la sera prima e poi tornò al tendone dagli altri.

Dopo qualche giro, quando tutto era stato montato e posizionato al posto giusto, gli artisti cominciarono a provare i loro numeri e ad allenarsi. Danha li guardò stare in equilibrio su corde spesse quanto un filo di cotone, lanciare in aria pesanti clave colorate e saltare a destra e manca, in vista del grande inizio. Si sedette a terra, mentre un suonatore di liuto accordava il suo strumento e provava le melodie insieme al cembalista, un carillon di musica allegra e allo stesso tempo inquietante e sinistra.

La colonna sonora di uno spettacolo gioioso solo all'apparenza, che continuò imperterrita a diffondersi tra i tendoni fino all'apertura, un'ora dopo il calar del sole.

Poco dopo la fine delle prove, Danha era stata chiamata da Bernabé a recarsi nel punto in cui stavano montando una sorta di cancello d'entrata, assolutamente fittizio, davanti ad un modesto leggio di legno dipinto di nero.

In cima al cancello, in grandi lettere bronzee, vi era la scritta: Il Léon vi aspetta.

"Inquietante", pensò.

Quando lei era più piccola l'insegna diceva solamente Léon: spettacolo itinerante. Questa nuova insegna sembrava voler dire: "Il Léon vi aspetta, sembrate un pasto appetitoso".

«Lei è Nia, si occupa dei biglietti e di monitorare gli ingressi. Finché lo spettacolo al tendone principale non sarà iniziato tu sarai la sua ombra e farai esattamente ciò che ti dice, intesi?», le disse il Direttore, prima di girarsi e scomparire.

Nia era una giovane donna dai corti capelli corvini e un fisico a dir poco esile. Portava una sorta di corsetto a righe che le fasciava in modo agghiacciante il busto e terminava con una corta gonna a pieghe bianche e blu.

«Non guardarmi così, è la divisa per le donne che lavorano al Léon, gli uomini non hanno bisogno di far vedere le gambe. Ad ogni modo, la prima sera è sempre la migliore in termini d'affari e la peggiore in termini di rottura di coglioni, non so se mi spiego. Arriveranno in massa a chiedere i biglietti qualche secondo prima che lo spettacolo inizi, perché la gente a quanto pare non sa leggere i giri. Due consigli: il primo, stai sempre all'erta. Molti tentano di intrufolarsi senza biglietto o di fare le volpi in altri modi. Il secondo», Nia si avvicinò all'orecchio di Danha per non farsi sentire da nessuno: «diffida di chiunque dentro i cancelli del Léon, anche fuori, ma soprattutto dentro. La gente qui non è sempre chi dice di essere.»

«Quindi anche tu?», le chiese Danha, dubbiosa.

Nia rise. «Sì, anche io. Sii giovane, ma non ingenua. Ora torniamo al lavoro. Dovresti mettere in ordine i biglietti numerandoli e poi controllare la cassa. Se provi a rubare qualcosa me ne accorgerò a fine serata, perché malauguratamente per me tengo anche i conti di questa topaia ambulante, quindi frega chi vuoi o chi trovi il coraggio di fregare, ma non me. Intendi?», disse senza sembrare tuttavia troppo minacciosa.

«Intendo», rispose Danha.

«Ottimo. Sbrigati con i biglietti che tra poco si apre», le disse Nia, con un gran sorriso.

In sottofondo, la musica sinistra dei suonatori di liuto e dei cembalisti iniziò a risuonare tra i tendoni, fino all'ingresso e oltre, attirando i primi passanti curiosi.

Un giro più tardi, la radura era piena zeppa di visitatori che giravano tra carri e tendoni alla ricerca di spettacolo e intrattenimento. Danha si guardò intorno per cercare un cilindro o un paio di familiari guanti bianchi. Non vedendo nulla si alzò in piedi e, senza farsi notare, posò lo sguardo accanto al primo tendone, nel posto esatto in cui due Acrobalieri stavano spostando la gabbia del leone, preparandola all'ingresso dell'animale in scena.

Si incamminò con fermezza da quella parte e, nascondendosi tra le grosse pieghe di tessuto blu e bianco, quando fu abbastanza vicina da vedere l'interno della gabbia, notò una piccola botola ai piedi dell'enorme bestia e dentro una piccola sagoma raggomitolata sotto una coperta. Si mise una mano davanti alle labbra, gli occhi sbarrati. Bernabé aveva ragione, Nath era lì, nascosto ma in bella vista, esattamente dove le aveva detto di cercare. Lei aveva solo guardato la parte sbagliata della gabbia. Pregò tutti e dodici gli Pseudologi che fosse ancora vivo, poi si girò in direzione dell'ingresso del tendone e lo raggiunse con tranquillità, facendo finta di nulla.

Quando entrò, cercò un posto a sedere vicino alle quinte, proprio nel punto in cui dietro agli spalti c'era uno squarcio di tessuto a separarla dalla gabbia in cui era prigioniero suo fratello. Avrebbe aspettato il momento giusto. Era pronta per vedere la grande esibizione di cui tutti parlavano, poi sarebbe sgattaiolata fuori e avrebbe liberato suo fratello da quell'infima prigione.

Il piano era perfetto e avrebbe anche funzionato se non fosse che, nell'esatto momento in cui Danha, superate le sbarre della gabbia, tirò verso di sé l'anello di ferro che teneva chiusa una botola vuota, un bambino che le somigliava parecchio venne calato dal punto più alto del tendone alle sue spalle, appeso dai piedi e legato da strette corde nere, pronto per diventare l'appetitoso premio della feroce stella dello spettacolo.

E fu subito un boato di applausi.

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