È meglio che ti ci abitui. Questo non è niente

Avvertenze: Sarà un po' sconvolgente e un po' doloroso.
Non odiatemi. Vi voglio bene.

Oggidì
(Parte prima)

18

Grimm si alzò di scatto e si avvicinò alla sua ospite indesiderata lentamente, cercando di tenere a bada l'irritazione e sfoggiando un autocontrollo che non possedeva.

«Che cosa vuoi sapere? Se ti odio? Se ti ho perdonata? Se c'è una minima possibilità che noi due riusciamo ad andare d'accordo? Le risposte sono sì, no e vaffanculo.»

Lo disse con una freddezza impressionante, sorprendendosi di risentire quella voce arrochita, bassa e non del tutto familiare. Il cigarillo pendeva ancora tra le dita della sua mano sinistra.

Dahna rimase sorpresa quanto lui. «Beh, innanzitutto vorrei sapere perché con me riesci a parlare.»

«Non lo so, Briniel. Forse perché mi fai incazzare al punto che le mie corde vocali si rifiutano di stare zitte.»

Dahna lo fissò per qualche istante, tentando di analizzare tutte le emozioni che stavano scaturendo dalle sue labbra. Aveva gli occhi ridotti a due fessure. Al loro interno sfrecciavano furia incontrollata, delusione, rimpianto e odio. Un odio profondo, maledettamente doloroso. Il sentore vanigliato del cigarillo le arrivò alle narici, suscitandole pensieri contrastanti. Era una fragranza rara, ma paradossalmente familiare per lei.

«Cos'è questo odore?», gli chiese.

Grim la guardò sbigottito per il risvolto che aveva preso quella conversazione. «Un regalo di Dankar.»

«Posso?», domandò lei, allungando la mano verso le dita di Grimm. Analizzò il cigarillo da vicino, poi annusò leggermente la voluta di fumo che scaturiva dalla combustione. «Ti ha detto dove l'ha preso?»

«No, ma che cazzo hai nella testa? Vieni qui nonostante ti abbia chiesto di non seguirmi, mi preghi di parlarti e tutto ciò che riesci a chiedermi è di questo fottuto cigarillo? Che cosa vuoi da me?»

Dahna tenne sotto controllo l'indignazione e restò calma, nonostante le scariche di nervoso che si stavano insinuando sotto la sua pelle. Quando parlò, lo fece con la massima serietà. «Questo cigarillo è fatto di papaveri gialli, Grimm. Dankar deve averlo pagato una fortuna. I papaveri gialli crescono solo nel deserto selvaggio, sono più unici che rari. Come ti senti?»

«Vuoi veramente sapere come mi sento?», le rispose lui, un misto indefinito di rabbia e sarcasmo.

«Intendo fisicamente. Ti senti annebbiato?»

Un lungo sospiro fuoriuscì dalle labbra di Grimm, che la guardò attraverso le ciglia nere ravvicinate. «Dove vuoi arrivare?»

«Questa potrebbe essere la soluzione al tuo mutismo. Non so niente di Chimica, ma i papaveri gialli venivano usati come medicinali ad Assia e Bernabé, quando riusciva a entrarne in possesso, li vendeva a prezzi esorbitanti. Non sono certa funzioni con te, a quanto pare sì, ma sbloccano alcuni dei freni mentali.»

Grimm sorvolò sull'allusione al suo problema, e si concentrò su di lei. «Tu come fai a saperlo?»

«Ho vissuto e lavorato ad Assia, per un periodo», gli disse, con la voce ridotta a un sussurro, guardandolo dal basso come se avesse avuto delle remore nel dirglielo.

Un pesante silenzio li avvolse come un cappotto nella Stagione delle Nevi. Ciò che le sue parole sottintesero era che aveva vissuto ad Assia dopo che lui le aveva permesso di scappare da Diefbourg.

Grimm si sentì tutto a un tratto spossato da quell'inutile conversazione. Non la voleva lì «Ho parlato con te molto tempo fa, dubito che questo fumo cambi qualcosa. È comunque più importante la miscela di Dankar, al momento. Ora, per favore, vattene.» Si voltò di nuovo verso la sua scrivania con gli occhi di ghiaccio e le dita di una mano a massaggiarsi le tempie.

Era pronto a restare finalmente solo, inconsapevole del fatto che lei stava per innescare una bomba in quel petto già pieno di vetri rotti.

«Dèi, Grimm! Potrebbe essere una cura! Per una volta, riesci a mettere da parte gli altri e a pensare un po' a te stesso?»

Dahna capì subito di aver posto la domanda sbagliata, ma le parole uscirono dalle sue labbra prima che lei potesse fermarle e non poté fare altro che guardarle attraversare la stanza e sbattere contro quel corpo di ghiaccio, fermo e immobile come una statua.

Mentre incamerava quelle parole, una alla volta, Grimm sentì l'autocontrollo andare a puttane e un calore familiare incendiargli le vene. Alcune guerre erano scoppiate per molto meno. Si voltò verso di lei, con i pugni chiusi e i nervi scoperti. «Come hai fatto tu quando sei scappata come una codarda? No, Briniel, non riesco ad essere così egoista. Insegnamelo.»

«Io... Mi dispiace, Grimm. Mi hai lasciato una lettera e un mucchio di soldi, cosa avrei dovuto fare?»

Lui la raggiunse a grandi falcate, puntandole un dito contro e tirando fuori tutta la voce di cui era capace. Non gli importava che fosse merito dell'oppio giallo o di una qualche Dio magnanimo, aveva bisogno di urlarle in faccia tutta la delusione e l'impotenza che aveva provato da quella notte, ancora così vivida nei suoi incubi.

«Salvarle! Portarle via da quello schifo, toglierle dalle mani di Emeralda. Tu non hai idea di cosa subiscano quelle ragazze al Lupanare!»

«Come potevo saperlo? Eri uno sconosciuto che mi aveva solo avvertita di non accettare nuovi incarichi, le ragazze erano costantemente drogate, o sbronze, e io ero una fuggitiva, Grimm! Ballavano ogni sera in cerca di clienti, forse non erano coscienti di ciò che facevano, ma di certo non erano così innocenti come credi. Mi dispiace di non averle salvate e lo rimpiango ogni giorno. Ho preso quei soldi e sono scappata per rifarmi una vita, perché anche io lavoravo lì, anche io ne meritavo una migliore!»

«E loro no? Dimmi, Briniel, loro non meritavano una vita migliore?» Lo sguardo pieno di odio e accusa le fece venire i brividi lungo tutta la schiena.

«Ero sola, Grimm! In fuga da un uomo che mi aveva fatto attraversare posti peggiori della morte! Quei soldi sono stati la mia salvezza, le ragazze erano sotto narcotici e obliveranti! Nessun'altro sarebbe venuto a salvarmi, ho preso la decisione migliore per me, puoi davvero biasimarmi?»

Poteva? Aveva fatto una scelta e aveva deciso di salvare sé stessa. Per quanto egoista, per quanto menefreghista, per quanto orribile, non poteva fargliene una colpa. Ma non riusciva nemmeno a perdonarla, era più forte di lui.

«Sì, Briniel. Posso e lo faccio. Che razza di persona sei? Quanto devi essere egoista per fare una cosa del genere?»

«Tu non hai idea di cosa io abbia passato», gli disse, ripagandolo con la stessa tacita furia.

«No, tu non hai idea di cosa abbiano passato loro! Di cosa stanno tuttora subendo!»

Ad ogni parola, avanzava di un passo verso di lei finché la sua schiena, coperta da una cascata di capelli eburnei, sbatté contro il muro accanto alla porta. L'impatto non fece male, ma Dahna iniziava ad avere paura. Paura di non poter contenere quel furore, paura di aver fatto la cosa sbagliata sebbene fosse stata la più giusta per lei, paura che quell'uomo potesse realmente ucciderla, anche solo con uno sguardo.

«Grimm, calmati...», gli disse, posandogli una mano sul petto, come aveva fatto al ballo in maschera al Circolo, qualche sera prima.

Per un istante le sembrò di vedere uno spiraglio in quella corazza gelida. Si guardarono, e nei loro occhi scorsero dispiacere, rimpianti, odio e rancore. Ma non era solo la paura, era anche la sua vicinanza a soffocarla, a mandarle segnali equivocabili e brividi mai provati, finché lui non le afferrò il polso e lo spinse lontano da sé.

«No, non mi calmo. Non mi calmo perché mi fai uscire di testa, Dahna! O dovrei chiamarti Rya? Forse tua madre avrebbe voluto che continuassi a tenere il suo, di nome. Quante altre maschere hai nascoste sotto questa pelle perfetta? Illuminami, Briniel, come potrei mai fidarmi di te, se nemmeno tu sai chi sei?»

«Tu non sei molto diverso da me. Nessuno di voi lo è. Usate maschere ogni notte, trucchi alla luce del sole, siete uomini d'affari, commercianti, paladini dell'Impero, ma anche ladri, assassini e bugiardi.» Non sapeva più cosa pensare di loro. Non sapeva più cosa pensare di lui, perciò scelse di dire la verità, per quanto cruda e spietata. «Tu hai iniziato a indossare una maschera molto tempo fa e ti è rimasta cucita addosso. La tua corazza di indifferenza, la rabbia, l'alcol sono tutte cose che mascherano chi sei realmente: un ingenuo, povero orfano alla disperata ricerca di redenzione per una colpa che non è tua!»

Un silenzio pesante calò nello spazio tra i loro volti, denso come la nebbia e affilato come un pugnale.
Era il capolinea. Da lì in avanti, nessuna grazia, nessun limite, solo il baratro.

Dalla gola di Grimm uscì un ringhiò e i suoi occhi, in un istante, divennero neri. Una furia omicida si impossessò del suo corpo, relegandolo a inerte spettatore delle sue azioni. La mano sinistra che teneva ancora il cigarillo tra le dita si alzò, senza che la sua mente potesse controllarla, e adagiò la frazione incandescente sul collo pallido di lei, appena sotto l'orecchio. Dahna non urlò, ma serrò i denti e strinse con forza gli occhi per gestire quella piccola ustione. Non era la prima volta che qualcuno le spegneva un cigarillo sulla pelle, il primo era stato un socio di Bernabé dal quale aveva cercato di scappare dopo uno scambio finito male. Non fu così doloroso come immaginava, solo... Inaspettato.

Spinse con i pugni il torace di Grimm per allontanarlo da sé e si sfiorò la ferita per togliere la cenere incandescente. Rimase a fissarlo per un tempo indefinito, il suo sguardo non era furioso né vendicativo, trasmetteva semplicemente biasimo per quel gesto imperdonabile.

Lui tornò in sé, confuso, restando in silenzio per quella che sembrò un'eternità. Si guardò le mani, come se fossero quelle di un estraneo.
Aveva toccato il fondo, aveva avuto la sua vendetta, allora perché sulla lingua sentiva il sapore della sconfitta?
Le aveva restituito una parte del dolore che provava lui, con quella ferita. Era quello che aveva sempre voluto. Allora, perché sentiva di aver perso?

Nei suoi occhi si leggeva tutto e niente, allo stesso tempo, ma il nero si stava dissipando e se il rimpianto fosse stato un colore sarebbe stato il blu ceruleo delle sue iridi in quell'istante. «Fa male?»

«Sì, stronzo. Sei soddisfatto, adesso?»

Lui sospirò, avvicinandosi cauto, con lo sguardo calmo e la voce flebile. «Una cicatrice per una cicatrice.»

«Pensarlo ti fa sentire meglio?», gli rispose lei, acida, con aria di sfida.

«Meno di quanto immagini.» I suoi occhi erano spenti e la sua rabbia, fino ad allora diretta verso di lei, gli si stava ritorcendo contro. Le alzò il mento con l'indice e le fece voltare leggermente il viso per controllare la ferita. «Siediti, devo medicarti.»

Dahna soppresse il brivido che quel tocco le aveva provocato e lo spintonò via da lei, senza alcuna delicatezza. «Posso farlo da sola.»

Lo sentì sospirare, sentì il suo rimpianto sulla pelle, nel petto, lungo la schiena. «Lo so, sono io ad averne bisogno. Per favore, siediti.»

Dahna continuò a guardarlo truce, ma intuì che quello era il suo contorto, malato modo di chiederle perdono, quindi lo seguì su un lettino improvvisato e fece come gli era stato detto. Dopo qualche istante, Grimm tornò con una boccetta di liquido verde, un tubetto di alluminio e delle garze. Trascinò il suo sgabello fino al bordo del lettino e lo regolò per essere all'altezza di lei, sedendosi tra le sue ginocchia.

Poggiò i medicinali vicino al suo fianco, senza emettere un suono. Quel silenzio celava il rimpianto e il dispiacere per il suo gesto, un gesto involontario e inaspettato che gli aveva spezzato qualcosa dentro. Le spostò con delicatezza i capelli, fissandoli dietro l'orecchio e facendoli scendere lungo la schiena. Il disco cotonato imbevuto di disinfettante aspettava solo di pulire quella ferita, ma le sue dita indugiarono prima di posarsi su quel lembo di pelle martoriato. Quella bruciatura avrebbe potuto essere una piccola parte del suo stesso corpo, un granello di sabbia nell'intero deserto di ustioni e cicatrici che gli ricoprivano metà della pelle. Era anche il suo dolore. Capì che la vendetta non era mai stata il suo modo di redimersi, bensì un'ulteriore ferita che si era aggiunta a tutte le altre.

Dahna sussultò quando il liquido ripulì la lesione dal sangue e dalla cenere, ma non disse nulla. Si lasciò trasportare da quel dolore, immaginandolo moltiplicato per mille e guardando, oltre le maniche arrotolate della camicia di Grimm, le braccia ricoperte da quell'inchiostro nero che mascherava, per quanto possibile, le sue cicatrici.

«Questa brucerà un po'», le sussurrò lui, prendendo la pomata.

E bruciò, bruciò peggio del fuoco del cigarillo, ma Dahna non gli diede la soddisfazione di sentirla gridare. Solo un gemito di dolore uscì dalle sue labbra, accompagnato da una lacrima solitaria e involontaria, testimone di quel pungente tormento.

Grimm gliela rubò con delicatezza, sfiorandole la guancia con l'indice, e soffiò leggermente sulla ferita per far asciugare il composto. Quando fu certo che il peggio fosse passato, le fece passare un nastro di garza intorno al collo, stando attento a non premere troppo sulla ferita.

Quando ebbe finito, Dahna riaprì gli occhi e lo sorprese a guardarla, con una calma che su quel viso era come una pugnalata al cuore. La delicatezza che aveva messo in quei gesti strideva con l'impeto di rabbia che aveva avuto qualche istante prima, eppure lei era sicura che in quel tocco leggero si nascondeva il vero Grimm, quello capace di provare compassione, pentimento, dispiacere. Quello di cui parlavano Dankar e Tommy. Quello totalmente perso.

«Non so se pugnalarti o ringraziarti», gli disse con la voce che faticava a uscire dalle sue labbra.

Lui la fissò per qualche istante. Aveva ancora la tuta di pelle nera che aveva indossato nel retrobottega, piena di arnesi da scasso e coltelli nascosti dal lungo mantello incappucciato. In quel momento, seduto tra le sue ginocchia, l'unico pugnale che Grimm riusciva a vedere era quello da lancio fissato alla sua coscia destra con un cinturino di pelle nera. Allungò una mano per sfilarglielo, sfiorandola, ma stando attento a non toccarla, e glielo porse.

«La prima.»

Un respiro profondo rieccheggiò nello spazio tra i loro volti. Dahna era esasperata, non solo per la confusione, ma anche perché l'unica cosa a cui riusciva a pensare in quel momento, mentre la ferita pulsava e bruciava sotto il suo orecchio, era il calore che sentiva vicino a quel dannato cinturino dopo il passaggio della sua mano. Puntò il pugnale sul petto di Grimm, visibile in mezzo ai bottoni slacciati in cima alla camicia, e lo fece scorrere lungo il suo collo finché la punta di nero galthorn gli pizzicò il mento.

«Mi confondi e io odio essere confusa. Un attimo fa mi hai bruciato il collo e adesso ti sei preso cura di me, cercando un perdono che mi riesce impossibile darti e mettendomi letteralmente in mano la tua vita. Quale dei due è il vero Grimm?»

A lui sarebbe piaciuto saperlo. In fondo, se ripensava ai momenti passati con i suoi, alla sua infanzia, ai primi tempi in compagnia di Tommy, sapeva qual era la risposta. Lo sentiva dal modo il cui la sua pelle si scaldava quando le era vicino, dal modo in cui ogni piccolo muscolo si irrigidiva al suo tocco. La risposta era semplice, ma trovarla in mezzo a tutto quell'odio e quel risentimento cresciuti con il tempo nei confronti del mondo era diventata un'impresa impossibile, così scelse di evitare la domanda.

«Quale, delle mille, è la vera Dahna?», le chiese, accusatorio.

«Tutte. Io sono sempre io. Posso avere i capelli neri, gli occhi viola e un nome diverso, ma sono sempre io, una ragazza cresciuta a pane e veleno in un circo degli orrori che combatte ogni giorno per migliorare sé stessa e trovare un po' di pace.»

Grimm annuì. Dahna era quella e anche tutte le altre maschere che aveva indossato. L'aveva vista sulla foto della gazzetta vicino a un tendone in fiamme, l'aveva vista nella lucidità dei suoi passi sul palco, nel coltello che gli aveva lacerato il polso, nel retrobottega di Kruler e ora lì, a un soffio da lui, con la sua vita nel palmo di una mano. Non le aveva mai collegate, ma lei era in tutte loro. Era tenacia, coraggio, determinazione e bellezza, tutte rinchiuse in quell'ordigno silenzioso.

«Mi dispiace», le disse. E, forse per la prima volta da quando l'aveva incontrata, fu sincero. Con lei e con sé stesso. Quello era il vero Grimm e in qualche strano, paradossale modo la donna per cui provava più odio al mondo era la stessa che riusciva a fargli provare compassione, dispiacere, rimpianto e desiderio. «Ma come faccio a fidarmi di te?», le chiese, avvicinandosi alle sue labbra come fossero un richiamo a cui lui non aveva più la forza di resistere.

«Non ti ho ancora tagliato la gola», gli rispose lei, con un mezzo sorriso.

Un angolo delle labbra di Grimm si alzò, imitando le sue. Dahna sentì il suo respiro sulle labbra, la testa iniziò a girare e dovette fare uno sforzo immenso per recuperare il controllo e la conversazione. Con il respiro corto, si inumidì le labbra e incamerò l'ossigeno di cui aveva un disperato bisogno. «Perché quelle ragazze sono tanto importanti per te?», chiese, cercando di capire il motivo per cui la sua fuga era stata così devastante per lui.

Lui scosse la testa, sfiorandole la punta del naso. Quel gesto, seppur insignificante, voleva dire che non poteva, e non voleva, parlarne. Non con lei. Non in quel momento.

«Non è così che si costruisce la fiducia, Grimm. Io ci sto provando con tutta me stessa a capirti e non so nemmeno il perché. Come posso essere certa che alla prossima occasione non mi spegnerai un altro cigarillo addosso?»

«Non puoi. È per questo che non mi piace la fiducia. Tu non puoi sapere se questa sarà l'ultima cicatrice per mano mia e io non posso sapere se mi lascerai mezzo morto in un angolo della strada, quando se ne presenterà l'opportunità.»

«Non lo farei mai.» Dahna lo guardò, contrariata. Quanta diffidenza doveva scorrere nelle sue vene per fargli pensare a una cosa simile?

«Hai abbandonato quelle ragazze.»

«E le ho salvate, poco fa, insieme a te, quindi perché ti ostini a guardarmi come una traditrice e non mi vedi per quella che sono?»

Non lo sapeva neanche lui. Orbite di rancore e sete di vendetta ridotti a un'unica, semplice domanda scomoda.

«Non posso», rispose lui, con un sospiro esasperato.

«Perché? Perché mi odi?»

Lui scosse la testa. Erano due disperati alla ricerca di uno scoglio a cui aggrapparsi, di una risposta per quella strana attrazione che cercavano di celare, di una tregua in quell'eterna guerra nata orbite prima.

«Perché mi rendi vulnerabile, Briniel. E io odio essere vulnerabile», le rispose, usando le sue stesse parole.

«Tu sei vulnerabile, Grimm. Tutti noi lo siamo. Io ti faccio solo sentire cose che hai sotterrato nei meandri di te stesso e che non sai come trovare. La cosa ti spaventa e spaventa anche me, onestamente. Ho perso molte persone finora, alcune anche importanti, e ha fatto male. Ma non rimpiango di aver dato loro fiducia perché mi hanno permesso di vivere una vita piena. Piena di speranza, di gioie, di risate e sì, anche piena di dolore, ma non ho rimpianti. Essere vulnerabile non ti rende debole, ti rende vivo.»

Grimm non aveva smesso neanche per un istante di guardarla. Le sue parole avevano toccato corde che erano rimaste ferme e impolverate a lungo, corde che non aveva il coraggio di suonare. La guardò, sperando che lei non riuscisse a leggere i suoi occhi, a comprendere le sue emozioni. La guardò, come un naufrago guarderebbe una scialuppa di salvataggio, come un pirata guarderebbe un tesoro appena scoperto, come un alcolizzato guarderebbe una bottiglia di Jerry invecchiato.

«Parlami, Grimm. A cosa stai pensando?»

Che non volevo farti del male.

Che mi dispiace.

Che hai ragione, mi spaventi.

Che ti lascerei tagliarmi la gola con quel pugnale.

Ma non disse nulla di tutto ciò. Si allontanò lentamente da lei, facendo la sola cosa di cui era capace e che gli riusciva meglio: tenersi tutto dentro.

«A niente», le disse, indicando la ferita. «Come ti senti?»

«Sto bene, passerà.»

«Mi dispiace», ripeté lui, la voce bassa e flebile.

«Anche a me. Abbiamo entrambi cose per cui dispiacerci e cose per cui odiarci, potremmo quasi iniziare ad andare d'accordo», gli disse, sopprimendo la sensazione di vuoto che l'aveva colta alla sprovvista quando lui si era allontanato.

«Ne dubito.»

«Perché mi odi ancora?»

«Perché diventerei un pazzo, Briniel», gli disse lui, con gli occhi socchiusi e quel calore lungo la spina dorsale che non riusciva a scacciare via.

«Lo sei già ed è meglio che ti ci abitui. Questo non è niente», gli rispose lei. Era seria. Nonostante il dolore al collo e la rabbia che avrebbe dovuto provare nei suoi confronti, voleva solo porre fine a quella guerra iniziata molto tempo prima.

Lo sguardo di Grimm vagò tra i suoi occhi, il suo collo e le sue labbra per un tempo indefinito, finché l'autocontrollo non venne a bussare alle porte della sua mente, di nuovo. Non poteva. Non con lei. Non dopo quello che le aveva appena fatto. Si alzò, prese la sacca dei medicinali e nascose il resto dei cigarilli nella tasca interna della sua redingote, invitando Dahna a seguirlo per raggiungere gli altri.

Il loro problema non era la guerra e neanche il perdono.

La domanda era chi dei due sarebbe sopravvissuto all'altro.

E la risposta era nessuno.

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Spazio autrice:

Mi dispiace.
Ognuno di noi ha dovuto toccare il fondo, prima o dopo. Questo è il baratro di Grimm, un'altra cosa per cui redimersi, un altro gesto impulsivo e sbagliato che non si perdonerà mai.
Ma crescono tutti in questa storia e vi prometto che cresceremo con loro.
Il prossimo capitolo arriva prestissimo.
Restate in vita,
S.
❤️

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