E allora è una cazzata
Interludio
XXVII
Baltizar rimase nelle sue stanze per tre dì e tre notti. Non uscì e non volle parlare con nessuno. Dankar tentò più volte di entrare o di comunicare con lui, al di là della porta, ricevendo bruschi rifiuti e silenzi. Non sapeva che cosa il suo Quartiermastro avesse trovato nell'ufficio di Geerd, ma non l'aveva mai visto così. Mai, in tutta la sua vita.
Rifletté anche lui sulle parole che si erano scambiati un quarto addietro, sulla madre di Dahna e sul certificato di morte trovato tra quelle carte.
Non sapeva cosa farsene, di quell'informazione. Non sapeva se fosse vera. Ormai gli sembrava tutta una menzogna. La Baia Celata, il traffico umano, la Corte. Quante di quelle cose erano vere e quante, invece, erano state architettate? Iniziò a pensare di non farcela. Il suo corpo si stava indebolendo. Più portava avanti il suo grande piano, più la sua mente iniziava a giocargli brutti scherzi.
E poi c'era Dahna, quella figura sconosciuta eppure costantemente presente nella sua vita, un'ombra di una vita non vissuta, di un capitolo perso insieme ai ricordi dei suoi primi anni, una ragazzina bagnata spuntata dal nulla nella sua cabina, una fuggitiva convinta di essere un'orfana, ma che in realtà non lo era mai stata.
Anche se l'idea di Baltizar fosse stata buona, anche se fosse riuscito a farla entrare nella sua famiglia, a fidarsi di lei, cosa le avrebbe detto? Che aveva un fratello di cui non sapeva nulla, un padre diverso, una madre viva? Che la vita che aveva vissuto fino a quel momento non era davvero la sua vita, che c'erano echi del passato nel suo presente, echi che lei non era in grado di vedere o di sentire? Come poteva spiegarle a parole che la donna che era diventata poggiava i piedi su ceneri ancora bollenti di un'esistenza interamente manipolata dagli altri?
«Posso?»
La voce di Tommy, sul ciglio della porta, interruppe i suoi pensieri, facendolo trasalire.
«Entra.»
Tommy si avvicinò alla sua scrivania e fece un cenno con la testa verso la gabbia all'angolo. «Da quant'è che non mangia, Strig?»
«Due giri.»
«Sembra affamato.»
«Sembra sempre affamato, Tom. Se gli dessi un'altra oncia di carne se la sbranerebbe all'istante. Hai bisogno di qualcosa?»
Tommy valutò con quale argomento partire, mettendosi comodo sulla sedia. «Baltizar non ne vuole sapere di uscire.»
Dankar annuì. «Lo so.»
«Cos'è successo? C'è qualcosa che mi state tenendo nascosto e, non fraintendermi, di solito mi piace sguazzare beatamente nell'ignoranza. Ci sono meno problemi in quel dolce lago. Ma questa situazione sta un po' sfuggendo di mano, non credi?»
Dankar si limitò ad annuire di nuovo. Non voleva nascondergli niente, ma per dirgli la verità avrebbe prima dovuto capirci qualcosa lui e, in quel momento, l'ultima cosa di cui avevano bisogno era tirare in ballo una fantomatica sorella giunta dal nulla.
«Gli manca il mare, credo. Domani salirà di nuovo sulla Murena e presto ci darà notizie di Thorn.»
«Thorn? A cosa ci serve il grande capo delle montagne?»
«Informazioni. Ho paura che ci sia qualcuno dei suoi nella mia Ghenga e voglio sapere il perché. Voglio sapere cos'ha in mente.»
«Un infiltrato? Sei sicuro?»
«Se ne fossi sicuro, sarebbe morto. È per questo che Balt deve indagare.»
Tommy prese un profondo respiro e annuì. «Pensi che Morlion abbia alleati oltremare?»
«Li ha senza dubbio. Il problema non è se li ha, né quanti, ma qual è il loro piano. Voglio essere certo di non avere sorprese quando smantelleremo i pilastri centrali della Sotterranea uno dopo l'altro.»
«E se li avesse? Intendo dei complici, qui.»
«Dovremmo sporcarci un po' le mani e il mio piano subirebbe un cambio di rotta abbastanza largo da farmi incazzare, ma non possiamo fermarci adesso. Geerd non ha più un soldo né una proprietà. Se ne accorgerà prima di quanto immagini e, quando il Macellaio se la prenderà con lui, inizierà a farsi domande, a chiedere aiuto.»
«A Morlion.»
Dankar annuì. Morlion era il vescovo di quell'Impero, protettore di Diefbourg e dei suoi cittadini. Indipendentemente da quanto fosse immischiato nella Celata, non avrebbe mai potuto rifiutare una richiesta di aiuto. Molti credevano in lui e lui usava la cosa a suo vantaggio. Più persone alla ricerca di una mano da parte degli Dèi volevano dire più informazioni e più informazioni significavano più potere.
Ad ogni Simposio, Dankar si accertava di giocare bene la parte dell'ingenuo. Restava fuori dalle riunioni più importanti, fingeva di ignorare molte sfumature perverse delle loro conversazioni. Nuotava, in più casi di quanti gliene piacesse ammettere, nello stesso dolce lago di Tommy. L'ignoranza poteva essere un'amica potente, in determinate situazioni.
«Sono certo che Morlion abbia più potere di quello che mostra. Non solo sull'Imperatore, ma anche in giro per Galthorn. La città Sotterranea è rimasta segreta per centurie per un motivo. La gente non è idiota, ma vede ciò che vuole vedere. Ciò che lui permette di vedere. Qualcuno potrebbe vivere a due passi da un accesso e non venirne mai a conoscenza.»
«E come intendi distruggerlo?»
A Dankar sfuggì una risata genuina. «Ingordo. Non è nient'altro che una danza, Tom. Lui fa un passo in avanti e noi ne facciamo uno all'indietro. Noi avanziamo e lui indietreggia.»
Sul viso di Tommy si palesò un'espressione un po' confuso, ma comprensiva. «E quanto durerà questa danza?»
«Finché lui non mi pesterà un piede.»
«Intendi, finché noi non...»
«No, Tom. Intendo quello che ho detto. Ho aspettato un suo passo falso per diverso tempo, ormai. Mi serve un innesco che faccia deflagrare questa bomba. Ha lui l'acciarino in mano, aspetto solo che lo usi.»
La madre di Dahna.
Bernabé.
Zendon.
Aveva così tante armi in mano che sottrargliele iniziava a sembrare un'impresa impossibile.
«E l'Imperatore?» chiese Tommy, cercando di arrivare al nocciolo della questione.
Dankar ripensò alla volta in cui Baltizar gli aveva raccontato di Calidius ai tempi in cui suo padre divenne corsaro, ma tenne i suoi pensieri per sé. Non aveva ancora abbastanza prove per essere certo delle sue ipotesi. «Cadrà con lui.»
«E chi governerà l'Impero?»
Un angolo delle labbra di Dankar si alzò, schernendolo. «Vuoi diventare Imperatore?»
Tommy rise, ma ci pensò seriamente. «Perché no? Tutti quegli abiti, alcol gratis a vita, montagne di soldi. E poi verrei benissimo nei ritratti. C'è altro che dovrebbe fare un Imperatore?»
«Governare un paese. Giudicare i cittadini. Far rispettare le leggi. Non sperperare le casse di Corte alla Casa da Gioco, per dirne qualcuna.»
Tommy gli fece una smorfia, provocandogli una risata.
«Beh, la Casa da Gioco è mia adesso, quindi non sperpererei proprio i soldi. Li metterei su un banco di velluto e magicamente tornerebbero nelle mie casse.»
Dankar sospirò. «Sei un caso perso. E la Casa da Gioco non è tua. Lo sarà quando avremo finito. Ad ogni modo, ti proibisco ufficialmente di diventare Imperatore.»
Dalle scale dietro di loro arrivarono gli echi delle risate di Soffie.
Tommy sorrise, alzando gli occhi al cielo. «Guastafeste. Fammi sapere qual è la prossima mossa. E cerca di far uscire Balt da quella stanza. Si sta decomponendo, là dentro.»
Dankar annuì e tornò sulle sue carte, ascoltando il rumore dei passi di Tommy farsi sempre più lontano. Se ci fosse stata anche solo la minima possibilità di porre fine all'orrore della Celata, lui l'avrebbe colta al volo. Solo che più programmava, più gli sembrava di disegnare un sentiero dritto e ripido verso il peggior girone della morte.
E in fondo a quel sentiero c'era un volto ad attenderlo, ma non era quello della Dama Nera.
Era quello di sua sorella.
* * *
Grimm vide arrivare Tommy dall'ultimo piano e gli chiese, piegando leggermente il capo senza parlare, cosa ci facesse con Dankar.
«Oh, niente di che. Stavo cercando di capire quale fosse la prossima mossa. A quanto pare, ci tocca aspettare che esploda una bomba.»
Letteralmente?
Tommy aggrottò le sopracciglia, pensieroso. «Non credo, ma non ne sono del tutto certo.»
Soffie attirò l'attenzione di entrambi da dentro quell'ammasso ordinato di libri e libri e... libri che era la sua stanza.
«Nessun programma per oggidì?»
«No, piccola. Vuoi fare qualcosa?»
«Voglio andare a leggere, in Libroteca.»
«Potresti anche, chessò, giocare con noi, invece di stare tutto il tempo con il naso tra le pagine. Ho scoperto che l'inchiostro che inspiri ti fa diventare stupido, dopo un po'.»
«Tu non leggi.»
«Beh, non è che proprio...»
«E allora è una cazzata. Andiamo.»
Mentre la guardavano prepararsi lo zaino e riempirlo con tre volumi diversi, Grimm tirò una gomitata nelle costole all'amico.
Lasciala leggere.
«Dovrebbe farsi degli amici e giocare, come le bambine normali.»
Ma lei non è una bambina normale.
«Nemmeno tu sei molto normale, Gri. Te ne stai tutto il giorno in Laboratorio o in camera a suonare. Oh, e poi scompari per interi giri una volta al ciclo, dove vai?»
Da Lyonel.
«Lo sai vero che prima o poi la pelle finirà? Sei alto e ben piazzato, ma non puoi continuare a farti tatuare a vita.»
Grimm sorrise e i suoi occhi si ridussero a due fessure appena accennate. Mi hai appena fatto un complimento?
Tommy fece una smorfia e alzò gli occhi al cielo. «Idiota.»
Guardò il suo amico appoggiato allo stipite della porta con le braccia incrociate, i muscoli che si estendevano da sotto la camicia nera, mentre aspettava che Soffie fosse pronta. Aveva ricominciato ad allenarsi. Lo sentiva, a volte, dall'altro lato del piano, mentre ansimava a ritmo costante cercando di sfogare la rabbia e di iniettarsi in vena un po' di endorfine.
Certe antinotti, avevano persino corso insieme, lungo lo Zaan fino alle taverne del porto, saltando panche e ostacoli di ogni tipo per non perdere l'agilità necessaria durante i colpi. Quelle corse non erano state tanto frequenti, ma erano finite tutte al Pozzo, la magica taverna dove Tommy aveva incontrato la cameriera dalle lunghe trecce nere e il vestito da giullare. Solo che lei non c'era più. "Se n'è andata", era quello che aveva detto loro l'Oste. Non dove, né quando. Era semplicemente svanita nel nulla.
Guardandolo sorridere, appoggiato a quello stipite mentre prendeva per mano Soffie, Tommy pensò che forse non tutto fosse perduto. Che sebbene il colpo al Lupanare non fosse andato secondo i piani, il suo amico stava recuperando una parte di sé che raramente mostrava agli altri. Forse aveva smesso di pensare a quella ballerina del Circolo, forse tutte quelle notti in cui rientrava con una donna diversa a casa gliel'avevano fatta dimenticare. O forse era solo una maschera che si metteva appena prima di superare la soglia della sua camera e avere a che fare con il mondo esterno. Il Grimm calmo, docile, sereno.
Forse finché quella bomba non fosse esplosa, avrebbero tutti potuto godere di un po' di pace, prima della guerra. O forse no. Forse sarebbe durato solo qualche giro e quella notte sarebbe tornato tra le braccia di Lamnia e del Jerry, a rubare soldi dalle casse di Emeralda e scintille di emozioni da una donna qualsiasi.
Gli venne in mente un'idea. Gli venne in mente un posto, nascosto e abbastanza isolato, un rifugio futuro per lei e le altre. Un modo per spendere in fretta la vincita della Roulette senza destare sospetti. Una casa, al confine con Keltam. Una semplice casa o, forse, qualcosa di più.
Una luce in quel mare di buio in cui si stavano per immergere.
Grimm lo guardò storto. Qualche giro più tardi avrebbe accettato la sua proposta con un sorriso accennato sulle labbra e preparato con lui i progetti per la costruzione del Lux, ma in quel momento non fece domande. Si limitò a usare il Simbolium per comunicare con loro.
Io vado un attimo al Colle. Soffie, vuoi venire?
Tommy non si era reso conto che fossero arrivati ai piedi del Colle Esanime. Poco più in là, i Giardini erano gremiti di famiglie e di bambini che facevano pupazzi di neve o si scagliavano addosso palline, ridendo e cadendo su quella soffice distesa bianca.
«No», rispose Soffie. Aveva la voce risoluta e Grimm avrebbe giurato di veder passare un brivido lungo la sua schiena.
C'è qualcosa che non va?
«No. È solo che non mi piacciono le colline piene di morti, se permetti.»
Grimm si piantò un coltello immaginario nel cuore e fece una smorfia di dolore. Questa ha fatto male.
Lei guardò in basso, dispiaciuta. «Scusami, non intendevo...»
Grimm si abbassò alla sua altezza e le tirò su il mento, dandole un buffetto sul naso.
Va tutto bene, tranquilla. Vai in Libroteca con Tommy. Anzi, leggigli qualcosa che magari gli entra un po' di cultura in quella scatola vuota che ha al posto del cervello.
«Ehi!» Tommy gli tirò un pugno sulla spalla.
Soffie sorrise, ma i suoi occhi gli chiesero ancora scusa. E lui accettò quel dispiacere senza remore, sapendo che non avrebbe mai voluto ferirlo. Fece cenno a Tommy di stare con lei e salì il sentiero che portava alle lapidi.
Rivedere i nomi dei suoi genitori dopo tanto tempo faceva un effetto strano, ma al contempo rincuorante. Sentì le sue corde vocali scaldarsi, mentre si inginocchiava nella neve gelida. Nessun cimelio, nessun dono, solo fiori secchi e ricoperti di bianco come quelle due pietre. Tolse un po' di neve da ognuna di esse e poi lasciò cadere le spalle e, con esse, tutta la tensione che si portava appresso. Aveva dimenticato quella sensazione familiare, quel calore che provava quando si inginocchiava davanti a loro.
Non aveva ancora trovato una cura, ma aveva parlato.
Aveva parlato a Rya, in quel camerino.
Aveva provato qualcosa, in quella minuscola stanza, e poi non aveva più sentito nulla, se non rabbia e sete di vendetta. In quel momento sentiva il bisogno di parlare con loro, per esternare ciò che non riusciva a dire a nessuno, nemmeno a gesti.
La sua voce fu solo un soffio, un sussurro che creò nuvolette di fumo bianco davanti ai suoi occhi.
«Vi avevo promesso che sarei tornato con una cura. Vi avevo promesso che sarei stato meglio, che l'avrei accettato, che non avreste più infestato i miei incubi. Era una bugia. Infestate ancora i miei incubi. Vi sento urlare ogni notte per un po' di ossigeno, sento il vostro cuore fermo e le labbra vuote, senza respiro. E poi vedo lei, la ragazzina che ti ha portato la droga. La guardo scappare via. A volte si gira verso di me e ride, altre volte piange al pensiero di cos'ha appena fatto. Non riesco mai a ricordarne il volto, ma fa male. Fa male ogni notte. Quindi bevo. Forse non è la cosa che vorreste sentirvi dire, ma non potete comunque fare molto, ovunque voi siate, perciò sì. Bevo. Non è il modo migliore per affrontare la cosa, ma quando lo faccio quella bambina non ride più, non viene più a bussare alla nostra porta, non si porta appresso la morte e non te la posa sul palmo della mano. Voi urlate sempre, ma lei non c'è. La mia mente già annebbiata dall'alcol non vede il fumo, non ne sente l'odore. Vi guardo dormire tranquillamente, sperando che al mio risveglio siate in cucina, con il caffè caldo in una mano e l'altro braccio libero per stringermi e dirmi che andrà tutto bene. Che era solo un incubo.»
Inspirò profondamente l'aria gelida del Colle e chiuse gli occhi per un istante, che divennero due e poi mille. Non avrebbe saputo dire quanto tempo fosse passato, solo che quando li riaprì tutto era immobile come prima.
«Qualcosa dentro di me si è rotto, quella notte. Non penso che ci sarà mai una cura per quello, né per i miei incubi. Non penso neanche che il rum risolva le cose, onestamente, ma le rende più facili. So che non è esattamente quello che volevate sentire dopo questo lungo silenzio, ma d'altronde se aveste avuto un figlio perfetto non sareste sottoterra, in questo momento. Quindi sono costretto a chiedervi di accettarmi per quello che sono: un giocattolo rotto, un vaso frantumato in mille pezzi tenuti insieme da solo gli Dèi sanno cosa. Non so se troverò mai la colla adatta e, anche se la trovassi, non sarei comunque più un vaso. Sarei un insieme di pezzi appuntiti e frastagliati, dentro al quale probabilmente non riuscireste nemmeno a versare acqua perché non riuscirei a trattenerla. Si infilerebbe in ogni mia crepa e uscirebbe con una lentezza estenuante, fino a lasciarmi vuoto.
Non sono certo che capiate cosa vi sto dicendo e non so nemmeno perché ve lo sto dicendo. Ma ne avevo bisogno. Avevo bisogno di dirvi che non è colpa vostra se non riuscirò a provare emozioni, non è colpa vostra se tutto ciò con cui cercherà di riempirmi la gente si infiltrerà tra le mie crepe e mi lascerà vuoto. Non è colpa vostra se, dopo di voi, non riesco più a sentire niente. L'unica cosa che riesco a trattenere è la terra, solida e compatta, nella quale siete sepolti. Quella non riesce a uscire dalle mie crepe, le sigilla. O almeno ci prova. E forse un giorno riuscirò a bagnarla, forse un giorno ci pianterò dei semi, ma fino a quel momento voglio che sappiate che siete tutto ciò che è rimasto dentro a questo vaso a pezzi.
Vi trattengo a fatica, ma siete con me.
Sempre.»
Toccò entrambe le lapidi con una mano. Erano fredde, ma lui lo era di più.
Si alzò a fatica e li salutò con il pensiero, mentre si allontanava da loro. Di nuovo. Forse l'aveva trovata la colla, in quella parrucca mora e in quegli occhi violacei, ma invece di rimettere insieme due dei suoi pezzi, ne aveva preso uno e l'aveva spezzato a metà. Ancora più rotto, ancora più cocci sparsi a terra. Si guardò la cicatrice sul polso. Quel piccolo taglio si era rimarginato e il suo corpo aveva incollato i pezzi da solo. Si chiese come fosse possibile che esistessero cicatrici per il corpo, ma non per l'anima e continuò a chiederselo finché non si trovò davanti il portone della Libroteca.
Era ampio, di legno scuro proveniente da Est, e dava accesso a quella che per molto tempo era stata la sua seconda casa. Scaffalature infinite di libri, alte quanto l'intero edificio si rincorrevano tra piccole scalinate e ampi banchi da studio, illuminati dalle lampade a kerosene e dalla tenue luce del sole che stava ormai tramontando. Tre piani di storie da sognare, di posti in cui perdersi, di modi per evadere la realtà.
Tommy e Soffie lo videro arrivare e gli sorrisero con compassione. Doveva avere un'aria distrutta, ma non gli importava. Si diresse verso la sezione di Medica al primo piano e frugò tra i vari scaffali di legno finché non trovò ciò che gli serviva.
Quando sfilò il tomo dal ripiano, separandolo dai suoi compagni polverosi, in quello spazio ristretto rimasto vuoto intravide un banco appoggiato a una delle ampie finestre orientali. China sopra quel tavolo, c'era una ragazza dai capelli rossi con un ampio maglione cremisi e la testa appoggiata su una mano, come se pesasse troppo, come se fosse stanca di tenerla dritta.
Grimm intravide il suo volto quando si spostò i capelli dalla fronte e sentì il suo battito accelerare. La guardò per qualche istante, pensando di essere impazzito del tutto. Non poteva essere lei. Non poteva. Allora perché non riusciva a staccarle gli occhi di dosso?
La osservò leggere in silenzio e prendersi alcune pause per guardare fuori dalla vetrata. Vide il suo riflesso sul vetro e si diede del pazzo un'altra volta.
Scosse la testa e scrollò le spalle per togliersi quell'immagine dalla testa.
Non poteva essere lei.
Quegli occhi.
I suoi occhi erano viola e i suoi capelli neri.
Era una parrucca e tu lo sai.
Quelle voci lo stavano uccidendo. Era esausto. Era così distrutto che avere le allucinazioni non gli sembrò neanche più così assurdo.
Perché non riusciva a cancellarla dalla sua mente? Perché continuava a tormentarlo? Perché non lo lasciava vivere in pace?
Si portò il palmo di una mano sulla fronte e si tirò indietro il ciuffo disordinato, inspirando profondamente. Si chiese quando sarebbe finito quell'incubo, non sapendo che in realtà fosse appena cominciato.
Quando tornò dagli altri, vide Soffie così vicina alle pagine del suo libro da avere gli occhi strabici.
Le abbassò il tomo quel tanto che bastava a non farla diventare cieca, ma lei continuò a leggere come se nulla fosse accaduto.
Vado a casa, la riaccompagni tu?
«Sì, tranquillo. Ci vediamo là.»
Lo disse con gentilezza, come se capisse cose che lui non gli aveva detto. Come se lo comprendesse senza nemmeno sentirlo parlare.
Quando arrivò alla Dovizia, dopo aver preso in prestito il libro e averlo protetto dalla neve che aveva iniziato a cadere dolcemente sulle strade, Larry capì subito che non sarebbe stata una buona serata. Grimm non era tempestoso, solo pieno di nuvole grigie, quelle che portavano pioggia.
«Hai bisogno di qualcosa?» gli chiese.
No.
«D'accordo, allora io mi spengo?»
Glielo chiese come per assicurarsi che fosse sicuro di voler restare solo, come se capisse, pur non provando emozioni, che c'era qualcosa che non andava e che forse restare solo era l'ultima cosa di cui avesse bisogno in quel momento.
Grimm annuì e lo prese in braccio, poggiandolo sulla piccola branda in salotto.
«Sai, quando urli e spacchi tutto è più facile... sapere cosa fare. Basta starti lontano. Invece, quando stai così, non so... come fare a farti stare meglio.»
Grimm accennò un sorriso che non arrivò agli occhi. A volte non c'è niente che tu possa fare, Larry. A volte ho solo bisogno di sentire.
Larry allungò un orecchio, poi fece una faccia confusa. «Io non sento niente.»
Grimm gli sorrise appena. Lo so. Ed è meglio così. Fa male.
E, senza aspettare una risposta, gli diede la buonanotte e lo spense.
Poggiò i gomiti sulle ginocchia e incassò la testa tra le mani, le dita che stringevano e tiravano i ciuffi di capelli disordinati che gli erano scivolati sulla fronte, e rimase in quella posizione per un po'. Non voleva bere, quella notte. Voleva solo coprire il dolore sfiorando con delicatezza le dita sui tasti del pianoforte. Una melodia triste riempì la Dovizia, lenta nei momenti in cui la sua mente ripensava ai suoi, più decisa quando ripensava a Rya. Sentiva il piede sul pedale farsi pesante, vedeva le nocche sbiancare e percepiva di nuovo un po' di calore sotto la pelle.
Quando Tommy entrò, la melodia si arrestò di colpo e lui si scrollò le spalle.
«Stai bene?»
C'era compassione nella sua voce. Dolore e compassione.
Grimm annuì, più a sé stesso che all'amico. Ancora non sapeva che la bambina che infestava i suoi incubi era la stessa che gli aveva procurato la cicatrice. Ancora non sapeva che quella ragazzina era la stessa che Tommy aveva baciato al Pozzo, la stessa che avrebbe condiviso la Dovizia con loro. La stessa che avrebbe portato al Lux, orbite più tardi, e che lo avrebbe mandato fuori di testa, ancora, ancora e ancora.
Soprattutto, non sapeva la cosa più importante.
Dankar entrò come un uragano nella loro stanza. Non aveva il fiatone, non era agitato, era solo deciso. Fermo sulla soglia della loro porta, dette loro un ordine che avrebbe cambiato per sempre quella famiglia.
«Dobbiamo trovare una persona.»
Tommy lo guardò confuso. «Chi?»
Ci mise un attimo a rispondere. Inspirò ed espirò a pieni polmoni prima di pronunciare quelle due parole. Dovevano saperlo. Dovevano trovarla. Non era pronto, ma ne aveva bisogno. Alla fine, si sarebbe comunque scoperto.
«Mia sorella.»
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Spazio autrice
Ci stiamo avvicinando al finale.
Non sono pronta.
Cioè sì, sono pronta... A iniziare il secondo libro.
Mesi di revisione e ampliamento a ore 12. Pregate per me.
Vi voglio bene ❤️
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