Cosa potrebbe mai andare storto?

Interludio
(Parte prima)

- Cinque orbite prima -

XIII


La stagione degli Alisei era finalmente tornata, portando con sé un po' di quel calore che Dahna aveva sentito lentamente abbandonare la sua anima da quando era stata ricattata ai confini del Malagio, quel dì ormai troppo lontano e confuso nella sua memoria.

Mancavano ancora tre tappe alla fine della tournée e lei era diventata, dopo cinque lunghe orbite e contro ogni sua volontà, un anello essenziale di quella catena arrugginita.

I suoi numeri erano migliorati ad ogni nuovo spettacolo, i ragazzi le avevano insegnato tutto: a muoversi sinuosamente intorno a un palo, a lanciarsi da un trapezio, a contorcersi dentro a una botte colma di muffa e resti di rhum rancido. Più semplicemente, le avevano costruito addosso una corazza che le permetteva di sfoggiare un enorme sorriso nell'arena del Léon e di non collassare ad ogni illegale missione del suo direttore pazzo.

Bernabé era stato di parola: lei aveva lavorato per lui e lui aveva tenuto in vita il fratello. Lei non lo vedeva da un po', ma sapeva che era vivo. Ogni notte, dalla fine della prima tournée, quando i carri erano bui e i loro abitanti profondamente addormentati, Dahna si recava puntualmente al carro della Panthera leonina e si sdraiava al di sotto di esso, sporcandosi di fango, neve o sabbia, a seconda di dove il circo aveva fatto tappa.

All'inizio gli parlava, gli diceva che andava tutto bene e che presto sarebbero scappati. Poi, con il passare dei cicli, le sue missioni notturne erano diventate troppo frequenti: troppi furti, troppi spionaggi, troppi pensieri e allenamenti da inseguire. Così, negli ultimi tempi, andava solo a sentirlo dormire, a sentire il suo respiro profondo, a immaginare tutti i modi per salvarlo e regalargli una vita diversa. Arrivava però sempre più tardi. Gli bussava da sotto il suo giaciglio, tre rapidi colpi seguiti da uno isolato, per augurargli la buonanotte. Le poche volte in cui era ancora sveglio, lui ricambiava. Ma non parlavano più.

Dahna si svegliò, con ancora quelle immagini oniriche davanti agli occhi, a pochi piedi dal suo carro, vestita di un semplice paio di calzoni attillati color sabbia e di una tunica dello stesso colore. Si era sdraiata poco dopo la fine degli allenamenti, esausta, per riposare in vista dello spettacolo di quella sera.

«Ciao, bellezza», il suono della voce di Cinque giunse alle sue orecchie, prima che il ragazzo si accomodasse al suo fianco, il ventre sulla sabbia. Adagiò il viso sulle braccia incrociate e si voltò in direzione della ragazza.

«Cinque», disse lei, laconica.

«Pronta per stasera?»

«Ho un po' paura», ammise.

«È normale, ma andrà tutto bene. Il piano è semplice: lo spettacolo inizia al tramonto, tu sei la seconda in scaletta dopo Bernabé. Hai il numero della botte. Una volta terminato, abbiamo venti giri d'orologio per liberare tuo fratello, prima della nostra esibizione ai trapezi volanti. Due ti aspetterà vicino al carro, la criniera aurea sarà già dietro all'arena per il suo numero. Nascondiamo Nath sotto il tuo carro e al suo posto mettiamo Toby.»

«Gli hai veramente dato un nome?»

«Ovvio! È la mia opera d'arte. Cosa credi, che tutti quei cuscini e quelle stoffe si siano legate da sole a forma di bambolotto gigante? Suvvia, un po' di rispetto per l'arte.»

Dahna sorrise, sinceramente divertita. Tra tutti i colleghi con cui aveva condiviso la vita di scena, Cinque era quello con cui aveva legato di più. C'era un non so che di confortante in quel ragazzo che non si lasciava scalfire da niente e da nessuno.

Un dì, parecchi cicli addietro, si erano trovati in una silenziosa seminotte, seduti in riva al Settimo Mare, a parlare. Lui le aveva raccontato della sua famiglia, della sua città d'origine, Millyard, a poche miglia da Diefbourg e del suo arrivo al circo. Era un ragazzo dolce, con cui era impossibile sentirsi a disagio. Si aprì con lui come se fosse il suo più caro vecchio amico, gli spiegò del suo passato, del rapimento, della sua passione per l'arco e per le navi. Sembrava tutto così naturale, che quando lui, un'antinotte, provò a baciarla, lei non indietreggiò.

Tuttavia, per quanto naturale potesse essere, quell'amore platonico restò tale.

Ogni volta che si sfioravano, ogni volta che erano costretti a toccarsi durante le prove, la sua mente veniva catapultata alla notte della taverna. Sentiva ancora il sudore e la saliva di quell'uomo addosso e si sentiva male. Talvolta il pasto finiva ai suoi piedi, rivoltato dallo stomaco.

Cinque sapeva ciò che era stata costretta a subire a causa, e per volontà, di Bernabè e non tentò mai di andare oltre.
«Se vuoi, io sono qui», le diceva. «Ma non sentirti in obbligo di fare nulla. Quando ti sentirai pronta, se ti sentirai pronta, mi troverai al tuo fianco.»
Lei pensò di non meritarlo.
Il sole avrebbe fatto ancora molti giri intorno all'Impero di Galthorn prima che si rendesse conto che non era affatto così.

«Ok, genio dell'arte. Bald porterà Nath nel mio carro, mentre Bernabé è in scena, poi tocca di nuovo a me con il numero dei serpenti, giusto?»

«Dovrebbe essere l'ultimo, sì.»

«Quindi avvisa tutti di fare in fretta, prima degli inchini finali», lo pregò lei.

«Sì, Capo», rispose lui, con la faccia allungata nel tentativo di fare l'obbediente.

«Sono seria. Se dovesse succedergli qualcosa, non me lo perdonerei mai. Quel bambino è tutta la mia vita ed è rimasto troppo tempo dentro quella botola. È ora di tirarlo fuori da lì e rispedirlo a casa, il più lontano possibile da questo circo marcio e da quello stronzo di Bernabé. Sono stanca delle sue minacce e adesso so molti più segreti scomodi.»

«Abbiamo programmato ogni mossa nei minimi dettagli, Dahna. Ci stiamo lavorando da due orbite. Ogni istante è pianificato come se ne andasse della mia stessa vita. Cosa potrebbe mai andare storto?»

Tutto, pensò lei.

E aveva ragione.

* * *

La musica si diffuse nel deserto assiano di Sandhorn al diciannovesimo giro d'orobussola di quel dì che ormai si trasformava in un'afosa antinotte. Dahna, con il cuore a mille, si preparava dietro l'arena per il suo primo numero dopo il Direttore, il piede adagiato sulla botte per allungare i muscoli e riscaldarli. Buttò un'occhiata al di fuori delle quinte, ma non vide nulla. L'ansia era come una mano che stringeva forte la sua gola e non le permetteva di respirare a pieni polmoni.

Pregando l'intero Pantheon che il piano filasse liscio come l'olio, dopo che gli applausi furono ridotti al silenzio, fece il suo ingresso teatrale camminando in equilibrio sopra la botte che rotolò fino al centro dell'arena. La musica era allegra, il suo sorriso era smagliante. Lei, invece, era a pezzi. Con pochi, misurati movimenti, infilò pezzo dopo pezzo ogni cellula del suo corpo all'interno di quell'involucro di legno marcio e ferro arrugginito, scatenando stupore e meraviglia negli occhi di ciascun osservatore.

Dopo qualche attimo di sorrisi forzati e faticose acrobazie, Dahna uscì di scena lasciando il posto ai gemelli, che erano già in procinto di acchiappare qualche povero malcapitato negli spalti, per portarlo in centro e umiliarlo pubblicamente.

Lei si cambiò d'abito in un battito di ciglia e si diresse dalla parte opposta del retroscena, nella direzione stabilita con gli altri. Trovò Due nell'esatta posizione in cui doveva essere.

«Pronta?», le chiese in un sussurro.

«Sì.»
E così dicendo entrò all'interno di quella gabbia ferrea per aprire la botola.

Ciò che le si palesò davanti le fece salire le lacrime agli occhi.
Nath, suo fratello, la sua piccola dolce metà, stava rannicchiato in un angolo tremante, le fragili braccia ad abbracciarsi le ginocchia ossute e il viso scavato e spento di chi dovrebbe essere pieno di vita, ma non lo è affatto. Una piccola lanterna ad olio accanto ai suoi piccoli piedi illuminava quel buco dimenticato da Gaelos e permise alla sorella di vedere che portava una tunica logora e delle scarpette di cuoio bucate.

Dahna si infilò all'interno di quel buco stretto e freddo e si avvicinò a suo fratello, con la stessa cautela con cui attraversava le strade e scalava i palazzi nel cuore della seminotte. Aveva paura di muoversi, come se ogni suo movimento, anche solo da lontano, potesse rompere quel corpicino pallido e scavato.

«No. Non farmi del male», sussurrò lui, con voce tremolante.

Le lacrime che fino ad allora le erano rimaste ai margini degli occhi sgorgarono come un fiume in piena. Per quanto si sforzasse di essere silenziosa, non riusciva a fermare i singhiozzi. Bernabé era riuscito a spezzare anche la sua mente, oltre al corpo.

«Nath. Sono io, Bri. Sono tua sorella», gli sussurrò, avvicinandosi con prudenza. Allungò una mano verso di lui, cauta, ma uno sguardo d'odio da parte del fratellino gliela fece ritrarre subito.

«Stammi lontana», le rispose lui, spaventosamente serio. In quei piccoli occhi dorati c'era terrore, odio e confusione che si mescolavano tra di loro fino a creare una miscela letale. Una miscela letale per lei.

«Nath, non sono qui per farti del male, voglio salvarti. Voglio riportarti a casa», gli sussurrò.

Le lacrime non volevano saperne di arrestarsi. Le colarono lungo le guance, poi lungo il collo, fino a bagnare la parte superiore del costume di scena. Non poteva crederci. Non voleva crederci. Il cuore le batteva all'impazzata e intanto il dolore cresceva.
Lui continuava a farsi sempre più piccolo, come se sperasse di scomparire in quell'angolo. Come se quell'angolo fosse il suo unico amico, in grado di fagocitarlo da un momento all'altro.

«Nath, non avere paura, sono io... Ti prego. Vieni con me, ti riporto da mamma», lo implorò.

Silenzio.
Un silenzio eterno, fatto di sguardi sconvolti e terrorizzati. Sì squadrarono a vicenda, uno intimorito, l'altra sull'orlo del precipizio verso la disperazione più totale.

E adesso?
Avevano programmato tutto, il piano era perfetto, ma il piano prevedeva il salvataggio di un bambino pieno di vita e di speranza. Un bambino che le avrebbe gettato le braccia al collo, non appena l'avesse vista. Un bambino che le avrebbe detto: 'Sei qui, mi sei venuta a salvare. Ti voglio bene, Bri'.
E invece un inquietante, lungo silenzio, che non fu nient'altro che la quiete prima della tempesta. Una tempesta apocalittica di poche semplici parole, che sembravano più pugnalate nel petto.

«Io non ti conosco», disse il bambino, risoluto.

Quattro parole.

Quattro atroci parole, seguite dal rumore di qualcosa che si infrangeva in mille pezzi. Un rumore che aveva sentito solo lei, ma che aveva rimbombato ed echeggiato nella sua cassa toracica. Mille crepe caddero sul fondo della sua anima e quel dolore sordo, e cieco, che aveva provato fino ad allora si diramò in ogni cellula del suo corpo. Bastarono quattro parole affinché Dahna provasse, per la prima volta, nonostante tutti gli orrori che aveva visto e quelli che aveva subito, un'angoscia e una disperazione tale da non riuscire a respirare.

Suo fratello la guardava con gli occhi svuotati dai ricordi, svuotati dalla vita.
La guardava come si guarda qualcosa di strano e pericoloso, come si guarda qualcosa di cui si ha il terrore.
La guardava come si guarda una completa estranea.

«Non so chi sei. Vattene, o mi metto a urlare», ribadì quella vocina spenta.

«Ti prego, fa che non sia reale...», disse più a sé stessa che a lui, cercando di guardarlo tra le gocce di rugiada salata che le intralciavano la vista.
È solo un incubo, ora mi sveglio e ricominciamo da capo. Io vengo a prenderti e scappiamo insieme, ti riporto a casa, ti riporto dalla mamma, pensò.
Ma quei piccoli occhi d'ambra non ne volevano sapere di scappare e se anche avessero potuto scegliere di scappare da qualcosa, sarebbero scappati via da lei. Da quella completa estranea che si era intrufolata nel suo giaciglio e aveva provato a prenderlo, come avevano fatto quegli uomini molto tempo prima, mentre stava giocando sulla scogliera a Scagliapietre.

Dahna provò a respirare una, due, tre volte, profondamente, ma era come se l'aria non avesse la minima intenzione di entrarle nei polmoni.

E poi scattò qualcosa.

Non avrebbe saputo dire cosa successe in quella frazione di attimo, ma il dolore si trasformò in rabbia e la rabbia in furia incontrollata. Uscì da quel carro con gli occhi accesi di veleno e i pugni così serrati da fare male. Un calore incontrollato partì dalla sua testa e lei lo sentì fluire in ogni singola terminazione nervosa. Due la chiamò più volte, poi cercò di fermarla, ma si ritrovò steso a terra senza nemmeno comprendere cosa fosse accaduto, con il respiro corto e il naso probabilmente rotto.

La giovane donna fece qualche passo, cercando di far tornare il respiro e il cuore a un ritmo regolare, ma non ci fu verso. Si fermò a metà strada tra carro e il tendone e dalla sua gola fuoriuscì un urlo disumano. Il suo viso, rivolto verso il cielo ormai stellato, era contorto in una smorfia di dolore e disperazione. Diede voce a quelle emozioni finché le sue corde vocali non chiesero pietà, finché nei suoi occhi non ci furono più lacrime, finché non le cedettero le gambe e si ritrovò in ginocchio per terra, curva su sé stessa, con le mani in grembo che raccoglievano, come una piccola cisterna, le ultime gocce salate che cadevano dalla punta del suo piccolo naso.

Aprì gli occhi di scatto. Erano puro ghiaccio.
Sei un uomo morto, pensò.
Nient'altro aveva più importanza. Non le importava dei possibili rimpianti, non pensò neanche per un istante che quel gesto non le avrebbe dato la gratificazione che cercava. In quel momento, mentre Due si rimetteva in piedi e tirava fuori con la massima delicatezza quel bambino terrorizzato dal buco in cui era stato costretto a vivere nelle ultime cinque orbite, Dahna non pensò a nient'altro che a vedere quell'uomo morto.

E continuò a pensarci quando, nascondendosi nel retroscena per controllare che nessuno la vedesse, prese una delle torce che Archi si ficcava in bocca per il numero degli Sputafuoco e la accostò all'unica lampada ad olio all'esterno dei camerini. Continuò a pensarci quando, una volta accesa, scostò la tenda e contemplò quelle enormi strisce blu e bianche che erano state la sua casa per l'ultimo lunghissimo lustro.

Attese che gli Acrobalieri terminassero il loro pezzo e non si presentò per il suo numero finale. Quando fu certa che tutti i ragazzi erano fuori dal tendone, mentre Bernabé protraeva la sua esibizione, cercando di salvare la chiusura dello spettacolo, abbassò quel leggero pezzo di legno infuocato alla base della lunga stoffa.
L'aria secca del deserto le venne incontro come una vecchia amica e le fiamme lambirono in pochi rapidi giri d'orobussola l'intera struttura. Le iridi di Dahna riflettevano quell'ardente spettacolo.

Stava mettendo in pericolo centinaia di persone, ma non le importava.

Qualcuno, dai carri, la vide, ma non le importava.

I suoi occhi e la sua pelle si stavano quasi sciogliendo, ma non le importava.

Quel bastardo le aveva tolto tutto, aveva venduto il suo corpo, l'aveva minacciata, l'aveva piegata a lui. Poteva sopportarlo, e l'aveva sopportato, per salvare Nath.

Ma ora quello stesso bambino innocente era ridotto a un fantasma spezzato, quasi morto di fame e probabilmente drogato, come se qualcuno avesse succhiato orbita dopo orbita tutta la sua linfa vitale.

Era ora che quel qualcuno pagasse.

E quella era l'unica cosa che importava davvero.

«Brucia, figlio di puttana», ringhiò.


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Spazio autrice:
Beh, che dire amici 😂
Alcuni di voi staranno esultando e alcuni avranno il cuoricino un po' spezzato per Nath.
Non si finisce mai di disperarsi in sto libro 😅
Fatemi sapere cosa ne pensate. Come sempre i vostri consigli e commenti sono i benvenuti!
Volevo ringraziare personalmente NoovaMoon (non ti taggo solo per non farti spoiler) per le splendide parole e i preziosi consigli di oggi. Averti trovato è stata una gioia ✨
E, ovviamente, Userfromthedeepspace, che non vedeva l'ora di dargliele di santa ragione a Bernabé 😂
Grazie di cuore come sempre a chi trova il tempo per leggermi, siete i migliori ❤️

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