Come un'ombra, Capitano

Oggidì

4

«Tutto qui?», urlò Dankar non appena Danha terminò per la terza volta il percorso nel suo piccolo e personale ammasso di corde e ponti tibetani ai limiti del Malagio.

Erano passati diciassette dì dal loro proficuo incontro sulla zattera nel fiume Zaan, Danha non aveva più avuto notizie dal suo nuovo socio - sempre che così si possa definire un incappucciato che propone un vago accordo in piena notte senza condizioni - e aveva passato quel mezzociclo ad attendere che la sua caviglia guarisse e poi ad allenarsi fino allo sfinimento durante il dì e a vagare silenziosa per le strade e i tetti di Diefbourg nel buio della notte.

Dopo l'incontro con Dagger, aveva prestato maggiore attenzione alle ombre che sembravano muoversi al buio e aveva messo da parte il suo scetticismo, comprendendo di non essere più ormai completamente sola. Aveva persino cominciato a rivolgere a quell'ombra la V diefbourghiana, portandosi agli occhi l'indice e il medio destri e allontanandoli poi nella sua direzione: il segno della vista e del saluto celato.

La notte precedente, tuttavia, non c'era stata alcuna traccia del suo amichevole inseguitore. Le ombre avevano taciuto ed erano rimaste completamente immobili, così Danha ne aveva approfittato per fare una camminata fino al porto per ammirare quelle meraviglie galleggianti che vi erano attraccate.

Quella notte prese dalla tasca il dado di perudo regalatole dal vecchio Edmond e se lo rigirò tra le dita sorridendo, come faceva sempre quando era ai piedi di una nave.

Si avvicinò alla Berenice, la nave ammiraglia dell'Imperatore, e ne rimase ancora una volta ammaliata. Era maestosa. Calidius l'aveva chiamata così in onore dell'imperatrice, uccisa cinque orbite prima da un sicario per ordine di un nemico della Corte, di cui ancora oggidì non si conosceva l'identità. Lunga una settantina di passi e alta sessanta, la Berenice era dotata di non meno di cento cannoni e poteva ospitare fino a ottocento spugne, sebbene Danha immaginasse un equipaggio decisamente più sobrio per un vascello imperiale.
Si appollaiò su una delle tante bitte della banchina e cominciò a sognare ad occhi aperti, per l'ennesima volta, un galeone tutto suo. Le sarebbe bastato anche un vascello o una fregata, o anche solo un piccolo brigantino, dove poter sfidare megalomani presuntuosi e dimostrare che una donna non solo poteva salire a bordo di una nave, ma poteva anche diventare un buon capitano.

Stava ancora pensando a quest'utopico futuro mentre, due giri più tardi, si incamminava verso il Malagio. E non aveva smesso di pensarci nemmeno quando, il mattino successivo, si era svegliata tardi ed era corsa al campo, cominciando ad arrampicarsi e a scoccare frecce contro oggetti appesi e tronchi lontani.

Aveva rifatto lo stesso percorso tre volte di fila senza fermarsi e stava ancora pensando alla sua nave e alle combinazioni vincenti del perudo quando sentì l'urlo di Dagger. Lo vide dietro di lei, al limitare della foresta, appoggiato al tronco di una quercia poco lontano dalla scogliera, che giocherellava con una mela, lanciandola in aria per poi riafferrarla. Così si girò, incoccò l'ultima freccia rimasta nella faretra e, in un nanomomento, la mela che poco prima saltava gioiosa dalla mano dell'uomo si ritrovò trafitta e conficcata nel legno qualche pollice sopra la sua testa, gocciolando aspra polpa bianca tra i suoi capelli corvini. Dagger puntò il suo acre sguardo in direzione della ragazza, alzò lentamente il braccio e chiuse la mano intorno alla freccia, sfilandola con forza dal legno. Poi, dopo aver recuperato il cadavere del suo spuntino, lo spezzò in due.

«Non ti azzardare mai più», disse con fare minaccioso a Danha, che nel frattempo gli si era avvicinata.

"Brutto bastardo maledetto, ci metto ore a fabbricare una freccia in galthorn", pensò, ma quello che disse ad alta voce, con anche una certa indifferenza, fu invece: «Sì, è tutto qui».

«Lo devo ammettere, non ho mai visto nessuno tanto abile con quell'arnese. Soprattutto dal momento che non si usa più da quanto? Centurie, millenni?» disse lui, con tono ironico.

«Hai fatto tutta questa strada per venire a farti beffe della mia arma?», chiese Danha.

«Ho fatto tutta questa strada per poterla rifare al contrario, a dire il vero», rispose Dagger, sgranocchiando ciò che rimaneva del suo spuntino.

Danha gli rivolse un rapido sguardo interrogativo, poi iniziò a incamminarsi nuovamente all'interno della foresta alla ricerca delle sue frecce.

Si arrampicò su parecchie querce e castagni, sfilò alcuni dardi da bottiglie, maschere abbandonate e vesti già sgualcite che aveva trovato nei pressi del Lavatoio vicino alla piazza e, solo dopo che ne ebbe raccolti una decina, si rese conto che quelli conficcati nel terreno o a un paio di spanne da esso, che lei aveva lasciato per ultimi perché più facili da prendere senza sputare un polmone, non erano più al loro posto.

«Non ho bisogno del tuo aiuto», disse a voce alta tra le fronde di quelli che ormai reputava i suoi alberi. Sentì un fruscìo avvicinarsi e, pochi istanti dopo, una voce roca parlava vicina al suo orecchio.

«Lo so, ma ho fretta» disse Dankar, porgendole le sei frecce mancanti.

«E a me dovrebbe importare?», chiese Danha, con la sua solita teatrale indifferenza.

«Dovrebbe. Ti porto alla tua nuova casa, la Dovizia. È un bel posto, ti ci abituerai», spiegò l'uomo, preparandosi alla discesa.
Danha seguì i suoi movimenti con lo sguardo, proprio non riusciva a spiegarsi come avesse fatto a salire, e silenziosamente anche, quando la sua discesa era così goffa e articolata.

«Ti serve una mano?», gli chiese Danha, sorridendo tra sé e sé.

Dankar atterrò con un tonfo e si appoggiò al tronco dell'albero riprendendo fiato, chiuse gli occhi e inspirò profondamente cercando di far allontanare le vertigini. Quando li riaprì, si ritrovò quelli di Danha a una spanna da lui.

«Sei in forma smagliante», disse Danha, sorridendo. Un istante e si trovò immobilizzata al posto dell'uomo, con un piccolo cerchio di metallo freddo contro la fronte e il click familiare del cane abbassato di una Fentlock diefbourghiana. Con la poca visuale che le era rimasta, ammirò la canna di liscio galthorn opaco, in forte contrasto con l'impugnatura di freddo avorio ricoperta di finiture dorate, poi disse con tranquillità: «Bel gioiellino.»

Dankar non mosse la canna di mezzo millimetro. «Funziona bene. Con le persone che non sanno tenere a bada la lingua funziona anche meglio. Mi segui?»

«Come un'ombra, Capitano» disse Danha seria, senza tuttavia omettere quel briciolo del suo solito sarcasmo. Non sapeva perché aveva usato quell'appellativo, ma più guardava quel ragazzo negli occhi, più le sembrava di averlo già conosciuto, forse in una vita passata.

Dagger alzò gli occhi al cielo e abbassò la rivoltella, la rimise al suo posto nella cintola di cuoio che portava in vita e si girò in direzione del quartiere delle Dovizie, infilandosi nella prima stradina acciottolata che si allontanava dalla costa. Non si girò a controllare se la sua adepta lo stesse seguendo. Se non l'avesse fatto, avrebbe presto capito ch'egli era capace di farsela portare al Quartier Generale da uno dei suoi, in spalla come un sacco di patate.

In un modo o nell'altro, che le piacesse o meno, Danha Briniel sarebbe entrata nella sua Ghenga e, se tutto fosse andato secondo i piani, non ne sarebbe più uscita.

Le strade che collegavano il Malagio alla Dovizia dei Dagger erano parecchie e si poteva scegliere quale percorrere a seconda del grado di pericolosità, d'indiscrezione e di fatica desiderato. Dato che il sole era alto nel cielo, nonostante la fredda stagione degli Scirocchi alle porte, Dankar pensò che non fossero necessarie indiscrezione o fatica, ma optò comunque per il sentiero che passava per la Lordura, la parte più malfamata della capitale, per dare una piccola lezione alla sua accolita.

La Lordura era conosciuta da tutti come il quartiere nero della città: pullulava di rozzi senzatetto, circoli mondani e case da gioco, per non parlare della merda e del sudiciume nei canali. Era un immondezzaio di dimensioni smodate, non vi era angolo in cui un gentiluomo non potesse sostare senza voler rigurgitare l'ultimo pasto, ma non vi era nulla di illegale, almeno non in superficie. Dagger si stava giusto incamminando verso l'imbocco della strada che dava sul Circolo di Madama Emeralda, quando Danha alle sue spalle si bloccò e disse: «Io di qua non ci passo», con fermezza.

L'uomo si girò, sorridendo. «Non mi dire.»

Danha si guardò intorno, rabbrividì, poi incrociò le braccia al petto. «Se vuoi portarmi alla Dovizia, dovrai percorrere una strada diversa.»

Dagger osservò con attenzione il viso della donna davanti a sé e dall'espressione dedusse che doveva essere successo qualcosa che l'aveva già portata dentro alla Lordura in passato e, soprattutto, che in quel momento sarebbe stata irremovibile sul riattraversarla. Non erano affari di primaria importanza per lui, perciò si girò nuovamente in direzione della loro meta.
«Come un'ombra, Briniel», ordinò, incamminandosi di nuovo, senza aspettare di essere seguito.

Danha si immobilizzò, chiedendosi come facesse quel delinquente a conoscere il suo cognome, poi dal momento ch'egli stava svoltando dietro un angolo e lei perdendolo di vista, si guardò intorno e decise che alla fine avrebbe fatto a modo suo, come sempre. Si calò il cappuccio sul viso, poi si arrampicò sulle mura del Circolo fino a raggiugere la sporgenza del tetto. Issandosi con facilità, cominciò a correre sulla retta di colmo e a saltare sui tetti successivi per stare dietro a quel delinquente, non senza chiedersi su quale ripugnante ammasso di sterco fatto a forma di casa stesse poggiando i piedi. Quando lo intravide passare di fronte al Simposio di Zendon e fermarvisi davanti, Danha si bloccò e per poco non scivolò giù per il freddo vetro della Casa di Gioco di fronte.

Geraldio Zenon, l'uomo che trafficava bambini e sceglieva accuratamente le donne per Emeralda, l'uomo che Danha odiava più di chiunque altro in quel buco maledetto da tutti e tredici gli Pseudologi, stava scendendo le gradinate della baracca con un sorriso stampato sul viso e le braccia aperte ad accogliere quel farabutto con cui lei stava per mettersi in affari.

«Sei solo, Dagger?», chiese sorridendo Zendon, invitando Dankar a entrare.

Lui si guardò intorno. «Sembrerebbe di sì, Vostra Signoria», suscitando una sincera risata nell'altro.

«Questa sì che è una novità! Fammi la grande cortesia di entrare, ragazzo. Ho dell'ottimo Jerry appena arrivato da Porto Muerto. E ti ho già detto di non chiamarmi Vostra Signoria che non sono così vecchio.»

Dankar non era sicuro che Danha fosse ancora dietro di lui. O sopra, per quel che poteva immaginare. Non era più una questione prioritaria ormai. Sperava non stesse origliando la conversazione e allo stesso tempo si augurava il contrario, voleva che lo facesse e che fosse anche brava nel farlo perché presto le avrebbe chiesto di fare esattamente lo stesso per lui.

Di una cosa, comunque, era assolutamente certo: non avrebbe mai potuto rifiutare un invito dal capo del Simposio, soprattutto quando questi possedeva due delle più pregiate annate di rum esistenti.
Fu suo padre a dirglielo, molte orbite prima: inimicarsi Zendon sarebbe stato un suicidio a livello personale e commerciale. "Meglio perdere qualche minuto a bere rum con lui che interi giri a tessere vendicative trame contro di lui", erano state le sue parole.

Dagger tirò fuori dal taschino del suo panciotto nero un piccolo strumento aureo circolare, fece finta di guardare l'ora, poi lo chiuse e s'incamminò verso il portone del luogo in cui venivano prese le decisioni riguardanti, tra le altre cose, i traffici in arrivo all'attracco della Baia Celata, un'insenatura naturale praticamente invisibile a chiunque non ne conoscesse l'ubicazione esatta. I velieri in arrivo alla Baia non trasportavano carichi del tutto legali e questo era il motivo per cui gli spostamenti avvenivano principalmente di notte, nascosti agli onnipresenti occhi di Calidius.

Erano i traffici illeciti di donne, bambini e animali che mandavano avanti le botteghe della Lordura. Il grande, oscuro segreto della città sotterranea.

I carichi, poiché di questo in fondo di trattava, venivano gentilmente accompagnati a frustate e calci ai piani sotterranei del Simposio, dove venivano smistati a seconda della loro funzionalità: le donne più attraenti erano preparate a diventare ballerine e cortigiane di Emeralda, le altre mandate a qualunque nobiluomo avesse bisogno di una serva. I bambini venivano fatti schiavi nella Lordura, o venduti allo stesso scopo nelle boutique di alta moda diefbourghiane, mentre gli animali ricaricati su carri diretti al macello o venduti al Léon, quando giungeva nella capitale.

Zendon si occupava di tutto questo e una volta ogni ciclo, solitamente alla vigilia del secondo giubidì, riuniva al piano interrato i colleghi di Diefbourg e dintorni: Madama Emeralda, direttrice del Circolo della Rosa e, in segreto, del Lupanare; Hector Bernabé, direttore del Léon - e Gaelos solo sa di cos'altro in giro per l'Impero -; il Macellaio, il cui vero nome era noto a pochi, al contrario della sua irascibilità e rudezza; un vecchio burbero dalla barba violacea chiamato Zakaria Holms, ex lupo di mare che dopo trent'anni di pirateria aveva deciso di darsi al commercio di tabacco e, segretamente, al traffico di stupefacenti e infine Geerd, il Falsario.

Oh, e Dagger ovviamente. Lindo e stimato commerciante di giorno, anonimo Capitano della Banda di notte. Se tutti in quel Simposio avevano una seconda identità velatamente nascosta, solo uno tra loro aveva una rete di spie tanto clandestina quanto capillarmente distribuita da tenere in pugno mezza capitale. A Diefbourg è conosciuto come Dankar Dagger, ma se qualcuno osasse chiedere in giro per l'Impero, probabilmente il suo nome muterebbe in Oliver Krel, Alexei Dasimov o William Kelter.

Ciononostante, alla vigilia del secondo giubidì di ogni ciclo, alla luce del sole e agli occhi dell'Imperatore, Emeralda rappresentava una semplice donna d'affari, Bernabé intratteneva il pubblico di tutto l'Impero con il suo innocuo spettacolo itinerante, il Macellaio permetteva alla gente di mangiare, Holms vendeva semplice tabacco per cigari, cigarilli e pipe, Geerd era un povero precettore e Dagger... Beh, Dagger era l'ex capitano della Murena, ritiratosi ufficialmente dalla pirateria per coordinare il legalissimo commercio diefbourghiano di prodotti pregiati provenienti dallo Zandor e dalle coste dell'Estremo Nord.

Così, mentre il Capitano saliva le scalinate che portavano alla sala del Simposio per bere uno dei migliori rum sul mercato, pensando a quanto fosse ridicola tutta quella messinscena, Danha arrivò silenziosa sul tetto dell'edificio, affinò l'udito e seguì i loro passi.

Quando finalmente trovò la sala dei Sette, si sporse dal bordo del tetto e, calandosi, vi si appese trovando un appoggio per i piedi in un paio di pietre sporgenti. Sbirciò dentro la sala buia attraverso la piccola finestra di fonte a sé, grande al massimo quanto il diametro del collo di una botte di rum, chiedendosi cosa fare.

Da quel punto, avrebbe potuto vedere i due uomini, ma di certo non avrebbe potuto sentire chiaramente ciò che bisbigliavano. Allora si ricordò della tappa del Léon a Bredaahr, sulla costa del Vaticinio, ormai sei orbite prima. Quello spettacolo era stato letteralmente invaso dalle ciurme corsare dell'imperatore Calidius, attraccate per venti dì di sosta.

La grande quantità di corsari e marinai presenti aveva fatto nascere in Bernabé l'idea di un nuovo numero all'aperto per Danha. Archi e Bald, i due gemelli siamesi, si sarebbero recati sulle navi corsare a prendere in prestito le botti vuote di quegli ubriaconi, avrebbero portato sulla spalla comune Danha incitando la folla a seguirli e, dopo aver scaricato le botti sulla banchina, avrebbero lasciato la scena alla migliore contorsionista che il Léon avesse mai potuto ostentare. Danha avrebbe salutato la folla con la mano in alto e un grosso, finto sorriso sulle labbra, poi avrebbe finto di essere spaventata misurando il piccolo spazio dentro il quale doveva entrare e, alla fine, un arto alla volta, si sarebbe piegata e sarebbe scomparsa agli occhi stupefatti del pubblico nelle cinque spanne quadrate di quella puzzolente botte di legno.

Così fece allora e così ripeté adesso. Dopo aver controllato che ci fosse un atterraggio sicuro, spinse silenziosamente il vetro di quell'angusta finestrella verso l'interno e iniziò a farvi scivolare dentro il braccio sinistro, poi la testa, poi quello destro e infine il bacino e le gambe, ritrovandosi semidistesa sopra un alto armadio di legno nascosto da un tendone di cerulea stoffa pesante. Si mise comoda e aspettò l'arrivo dei due uomini: per una volta lo spettacolo non era stata lei, ma doveva ancora cominciare.

«Accomodati, ragazzo», disse Zendon, indicando con il palmo della mano una delle scarlatte poltrone che adornavano il Salone e invitandolo a sedersi.

La stanza era più grande delle altre ai piani inferiori. Il proprietario, che ora stava tirando fuori da una vecchia credenza una bottiglia del più pregiato Jerry in circolazione, aveva deciso di riservare la stanza al piano terra ai propri affari, trasformandola in una sorta di grande gabinetto personale, divenuto poi con il tempo luogo di ritrovo di amici e collaboratori.

Proprio come si addice ad un uomo del genere, il colore più vivace in quella sala era quello del velluto con cui erano foderate le poltrone. Il resto dell'arredamento oscillava tra le tonalità di nero e grigio cupo, con quel tocco legnoso del più scuro Wengé mai venduto da un mastrolegnaio. Persino il prezioso liquido ambrato dentro le bottiglie pareva più scuro in quell'ambiente tetro, ma dato che il lavoro di Zendon non era quello di vendere fiori al mercato, o giocattoli ai bambini, quell'arredamento non poteva essere più azzeccato.

Il capo del Simposio versò il suo elisir di lunga vita in due tulipani di vetro venetico e ne porse uno a Dagger. Poi, dopo essersi seduto di fronte al suo giovane socio, alzò il proprio bicchiere a toccarsi prima il petto e poi la fronte per brindare alla diefbourghiana.

Secondo la tradizione, il tocco del vetro freddo contro il cuore e la fronte avrebbe permesso all'alcol ingerito di non annebbiare l'animo e i pensieri del proprio interlocutore, facilitando al contrario la chiarezza mentale e con essa l'eventuale stipula di accordi commerciali o contratti ufficiali. Inutile dire che a) questa tradizione era stata inventata in mare da una ciurma di spugne ubriache la cui presunta chiarezza mentale, dopo tre botti di rum, aveva fatto perdere loro non solo il carico e la nave, ma anche le brache e b) dopo una decina di tulipani ambrati, neanche la benedizione dell'imperatore in persona avrebbe evitato a chiunque di vomitare acido muriatico nei canali della capitale, figuriamoci a sottoscrivere accordi o siglare alleanze.

«Allora, come vanno gli affari?», chiese Zendon, dopo aver buttato giù il primo, lungo sorso di rum.

«Al solito, le terre a sud di Assia hanno visto periodi migliori, ma ce la caviamo. Questo mondo pullula di uomini insaziabili e fortunatamente per me cacao, seta e gioielli sono il modo migliore per accalappiare donne, o almeno così sembra», rispose Dankar.

Zendon scoppiò a ridere. «Sì, l'ho sentito anch'io. Mia moglie ci lavora con le vostre vestaglie. Dice che la seta assiana è di una sofficità indescrivibile, "la migliore sul mercato", per citare lei. E se ne intende più di chiunque altro, direi. A dire il vero non la vedo molto, è sempre occupata al Circolo e nei pochi momenti in cui la vedo solitamente la vestaglia non ce l'ha, non so se mi spiego», disse con un sorriso furbo sulle labbra.

Dankar sorrise forzatamente di rimando. «Nitidamente. I vostri affari?»

«Girano, ragazzo. Ultimamente Emeralda organizza spesso serate e spettacoli nuovi per la Corte, sono i suoi migliori clienti. Dopo il malinteso di sei cicli fa, ha deciso di tenere un quadermastro con i consensi firmati delle ragazze, sai, per precauzione. In realtà non era successo niente di così importante, una stronzetta aveva deciso di scappare in piena notte. Quando l'hanno trovata le giubbe verdi si è inventata una storia assurda di maltrattamenti e abusi. Voglio dire, stiamo parlando del Circolo di mia moglie, teatro di innocenti spettacoli, quella bambina doveva avere una fantasia che toccava gli abissi dell'Arcano per parlare di violenze! Fortunatamente, le hanno creduto in pochi. D'altronde, era solo una bambina, ma Emeralda ha dovuto prendere precauzioni e cambiare qualcosina. Ora, dovresti vedere con quale entusiasmo e quanta bravura hanno cominciato a lavorare le ragazze arrivate alla Baia il ciclo scorso, c'è il pienone ogni giubidì!», disse l'uomo, con soddisfazione.

"Lo immagino", pensò Dankar, conscio non solo di quanto accaduto al Lupanare sotterraneo, ma anche del fatto che Soffie, quella bambina ribelle, lo stava aspettando alla Dovizia.

«Qui al Simposio le cose procedono senza intoppi, devo dire: i carichi sono sempre puntuali e soddisfacenti, i coltelli sbattono sul tagliere del Macellaio più veloci che mai per la gioia sua e di tutti i cittadini di Diefbourg. I bambini arrivano sempre un po' troppo magri alla Celata, ma recuperano le forze dopo appena qualche giorno qui dentro. Le amorevoli famiglie che vogliono adottare i bambini sono sempre di più e con il crescente successo degli spettacoli di Emeralda, anche le ragazze trovano un posto dove stare.»
Poi, con il più finto degli sguardi rattristiti e una specie di patetico sconforto dipinto in viso, aggiunse: «Li salviamo da morte certa in mare o dalla violenza di quei bastardi che dicono di prendersi cura di loro, sai non è un lavoro facile. Mi rattrista pensare che non rivedranno più i loro genitori o i loro tutori, ma del resto se li fanno morire di fame o non si preoccupano di buttarli su una nave qualsiasi non appena si presenta l'occasione, non pensi sia meglio così? Ci prendiamo cura noi di loro, adesso.»

Dankar non sapeva se ridere o spaccargli la testa. Sapeva che tutto ciò che usciva dalla bocca di quell'uomo era una mastodontica montagna di sterco, ma non poteva far altro che annuire con ammirazione. Sapeva che quei bambini venivano strappati ai loro genitori e caricati di peso su una nave fantasma, dove venivano maltrattati, legati con catene di ferro arrugginito gli uni agli altri e sfruttati per i lavori più infimi. Sapeva anche che una volta arrivati in città non riprendevano le forze sotto il tetto del Simposio, alcuni le forze non le recuperavano mai e, di certo, non erano entusiasti della vita che si prospettava loro davanti.

Ma poteva biasimarli per aver perso la speranza?

Soffie era riuscita a scappare dopo due orbite di tormenti e abusi perché era una ragazzina forte e cocciuta, determinata a non marcire in un bordello per il resto della sua vita, ma i ragazzi più deboli? Quelli obbedienti, quelli che non vedevano vie d'uscita. Chi avrebbe salvato quelli che non riuscivano a salvarsi da soli?

La maschera di Dankar, tuttavia, fu mostruosamente camaleontica: «Ammiro ciò che fate con quelle povere anime, Signoria. Si direbbe che siate un vero eroe, dopotutto.»

«Oh, voi mi lusingate mio caro ragazzo. E ditemi, il capitano Jones come sta?», chiese con scarso interesse. Il Capitano Jones era morto qualche orbita prima e questo la diceva lunga sul suo interesse in merito.

«Bene, vi ringrazio. Si occupa principalmente della casa e della contabilità ora e io mi occupo di lui, controllo che prenda le sue erbe e gli infusi per le gambe, ma oltre a questo sembra avere la mia età», rispose Dankar, assecondandolo.

«Ah, ragazzo mio, avercene di giovani nipoti premurosi come te!»

Dopo che ebbero finito il secondo tulipano di rum, parlando ancora di quanto fossero umanamente appaganti e soprattutto totalmente legali i loro traffici, Dankar decise che aveva sentito abbastanza per quel dì e decise di andarsene.

Fece nuovamente finta di guardare il suo orologio da taschino, poi si alzò, lo rimise nella tasca del panciotto nero e si rivolse a Zendon con profondo, finto dispiacere.

«Vogliate scusarmi, Signoria, ma mi sono già trattenuto più del dovuto, ho un appuntamento urgente che non posso proprio rimandare. Vi ringrazio infinitamente per il Jerry, non vi faccio i miei complimenti perché immagino sappiate già che il vostro rum è il migliore tra quelli in circolazione.»

«Sciocchezze ragazzo, perché non hai ancora degustato il Kraken!», rispose l'uomo, alzandosi per allungare il braccio verso il ragazzo, in segno di saluto. «Spero di rivederti presto, altrimenti ti aspetto due ore dopo il crepuscolo a venti dì da ora per le solite chiacchierate di lavoro.»

«Assolutamente», rispose Dankar, porgendo il braccio a sua volta. «Non vedo l'ora. Oh, non scomodatevi. Conosco la strada.»

Detto questo, si incamminò verso l'alta porta in legno intagliato e discese le scale fino all'ingresso dell'edificio e, una volta fuori, continuò a camminare in direzione della Dovizia.

Una volta fuori dalla Lordura, quando l'aria si fece più respirabile e le strade più pulite, Dankar si fermò, si appoggiò al muro di una casa comune e inspirò profondamente. Dopo aver pensato quattro volte che non era stata una buona idea, due volte che quel posto faceva schifo e una volta a dove poteva essere Danha, si scrollò di dosso la polvere e l'odore nauseante del Simposio e riprese a camminare verso casa sua.

Una volta arrivato di fronte al portone della Dovizia, si guardò intorno per vedere se dalla strada arrivasse qualcuno, qualcuno che somigliasse a una giovane donna dai capelli avorio, per esempio. Quando fu certo che non ci fosse anima viva, entrò e salì con calma ogni gradino fino all'ultimo piano.

Due orbite prima che suo padre morisse, suo nonno aveva investito una buona parte del suo patrimonio per assumere i migliori ingegneri dell'Impero affinché inventassero e realizzassero un montacarichi di dimensioni umane, in grado di trasportare Iwan nelle sue camere, dal momento che entrambi i suoi arti inferiori avevano deciso di non collaborare più. Il progetto e la realizzazione erano costati più di quanto suo nonno volesse ammettere, ma quell'aggeggio infernale era ancora lì, a fare concorrenza a quello del Gran Palazzo imperiale e a fissare Dankar a ogni passo, pronto a raccogliere le sue ossa quando sarebbe arrivato il momento di seguire le orme del padre.

Grazie agli Dèi, il momento non era ancora giunto e Dankar arrivò all'ultimo gradino stremato, ma tutto intero. Tirò fuori dalla tasca della sua redingote la chiave della sua stanza e la infilò nella serratura, diede tre giri veloci e, una volta dentro, se la richiuse rapidamente alle spalle.

Quando si girò, fu sollevato, ma non poi così sorpreso, di vedere uno paio di stivali neri penzolare dalla sua scrivania.

«Traffici illegali in una misteriosa baia, bambini schiavizzati, macellai sadici e un bordello straripante di prostitute per la Corte? E io che pensavo non ci saremmo divertiti», disse Danha, nascondendo dietro una facciata elettrizzata il trambusto di emozioni che le stavano causando l'emicrania.

Dankar la guardò sorridendo. «E io che pensavo mi avessi abbandonato.»

«Lei chi è, Dank?», una vocina semiaddormentata arrivò fioca alle orecchie di Danha. Una bambina sbucò fuori dall'armadio di legno vicino alla porta, facendone scricchiolare le ante. Si sfregò gli occhi stanchi e iniziò a fissare senza alcun pudore la nuova ospite.

Dankar le lanciò uno sguardo di rimprovero. «Ricordi cosa abbiamo imparato l'altro dì?»

«Non si fissa la gente, se non per minacciarla, intimorirla o scoprire se mente», pappagallò lei, alzando gli occhi al cielo.

«Esatto. Soffie, lei è Danha Briniel. Briniel, lei è la piccola ribelle che ha spinto Madama Emeralda a tenere un quadermastro al Lupanare», disse Dankar, facendo le convenute presentazioni.
Le due si guardarono con eccessivo stupore e poi simultaneamente dissero: «Quella bambina?»,
«Quella Briniel?»

Mentre Dankar, sogghignando, si staccò dalla porta per avvicinarsi all'armadio, Danha balzò giù dalla scrivania con le braccia incrociate al petto e gli rivolse uno sguardo interrogativo, che lui fece finta di non vedere. "Quella Briniel? Che significa?", pensò.

«Hai di nuovo dormito qui dentro?», chiese Dankar alla piccola che intanto cercava un modo di guardare la nuova arrivata senza fissarla apertamente. Il trucco di mettersi le mani davanti agli occhi e sbirciare tra le dita aveva funzionato solo all'inizio, ora purtroppo era cresciuta e doveva farsene una ragione.

«No, cosa te lo fa pensare?»

Dankar aprì le ante di chiaro noce e indicò un giaciglio improvvisato di coperte, cuscini e vestiti appallottolati, che caddero per metà sul pavimento.
Soffie spostò lo sguardo da Danha al suo nascondiglio preferito e disse: «Oh, intendi quello. Non stavo dormendo, stavo facendo ricerche.»

«Su Morfio?»

«Divertente», rispose lei, seria.
Dankar sorrise, poi frugò tra gli oggetti caduti e tirò fuori una vecchia copia logora della Medusa di Kesileo, un dramma satiresco in cinque atti attribuito con non troppa certezza a uno degli Antichi Eruditi. Dankar era sicuro l'avesse scritto un ubriacone dopo aver perso tutto a perudo ed essere stato tradito dalla moglie.

«Beh, c'ero quasi. Ti dai alla satira adesso?», le chiese sorridendo.

«La prossima volta che avrai bisogno di maschere, trucco e parrucco per le tue uscite, chiama un genio del calcolo o dei commerci», rispose Soffie, offesa.

«Touché, piccola. Ti sei guadagnata la libroteca», rispose lui.

C'era questo strano giochetto tra loro, era cominciato un ciclo dopo l'arrivo della piccola alla Dovizia. Dankar aveva scorto in lei un potenziale enorme e una tale mancanza di pudore o di timore da vederla già nella Ghenga, nonostante la giovane età. Non potendo darle un'arma che potesse ferire fisicamente, le insegnò ad usare armi diverse, peggiori in alcuni casi, come la lingua e il cervello. Cinque cicli più tardi, il risultato era una bambina testarda, ma cosciente, stracolma di furbizia e intelligenza, conditi con un bel mestolo colmo di sarcasmo. Così, Dankar creò per lei un piccolo gioco: ogni volta che faceva una domanda alla piccola, questa doveva avere una risposta pronta, possibilmente più astuta e pensata della precedente, finché uno dei due non avesse lasciato l'altro impossibilitato a controbattere e si fosse così conquistato un premio.

Era un passatempo puerile, Dankar ne era cosciente, ma era anche convinto che un giorno sarebbe stato utile alla piccola per non farsi mettere i piedi in testa. La materia grigia era l'arma migliore che potesse avere e in più Soffie si divertiva: le sue ricompense preferite, oltre a una porzione di dolce in più dopo cena, erano ore extra in libroteca e ballare sulle note del grammofono bronzeo di Dankar.

«Vai pure a impolverarti il naso in mezzo ai libri, ma quando cala il sole...»

«Vado da Agnes, prima di sentirla sbraitare che la cena si raffredda, lo so. Ci vediamo», concluse lei facendo un cenno con la mano, annoiata. Poi si girò verso la ragazza che li guardava con curiosità e le disse: «Piacere tuo», girò i tacchi e uscì.

Danha, che ancora stava in piedi davanti alla scrivania con le braccia incrociate, alzò un sopracciglio e sogghignò. «Simpatica.»

Dankar, che nel frattempo si era spogliato di cappello e redingote, annuì. «Quanto un secchio d'acido in faccia. Del Jerry?».

Danha lo guardò incuriosita, ma non del tutto sorpresa. «Non era Zendon l'unico a possedere Jerry?»

«Zendon possiede molte cose, l'astuzia non è tra queste», rispose lui, scegliendo tra le bottiglie di vetro accanto alla scrivania e versandosi il terzo bicchiere di Jerry della giornata. Porse l'altro a Danha e brindò avvicinando il vetro freddo prima al petto poi alla fronte. La ragazza fece lo stesso e degustò il liquore, poi iniziò a passeggiare per la stanza guardandosi intorno.

«Quindi questo sarebbe il Quartier Generale?»

La stanza era relativamente grande, ma il mobilio antico la faceva apparire più angusta e non favoriva, probabilmente di proposito, un'estrema illuminazione.

Le mura erano del colore delle profondità dell'oceano, uno smeraldo molto scuro, ed erano tappezzate di mappe di ogni tipo: dalla carta dei venti a quella di Diefbourg, dalla mappa dell'Impero all'atlante degli Otto Mari. Solo due quadri adornavano quel buio e desolante antro: il primo, a sud, raffigurava un gruppo di giocatori d'azzardo intorno a un tavolo da gioco sul quale, tra carte e gettoni, risaltava una bottiglia di Jerry degli Anni Bui, forse il miglior rum mai esistito. Il secondo, sopra la scrivania di Dankar, mostrava un enorme galeone attraccato a Porto Muerto, illuminato da lanterne ad olio collocate su alberi e ponte. 'La Murena', segnalavano i caratteri bronzei sul fianco della nave, le vele ammainate, una bandiera cremisi mossa da un soffio di vento.

Dankar sospirò. «Perspicace. Quello ufficiale, almeno. Dato che al benvenuto ci ha già pensato Soffie, direi di passare alle cose serie. Quella su cui eri seduta fino a un momento fa è la bozza del nostro accordo.»

«Sì, ci ho messo qualche minuto a scegliere dove sedermi, alla fine quello mi è sembrato il posto più adatto», rispose lei.

Dankar si voltò per guardarla e, alzando un sopracciglio, le chiese: «Da quanto eri qui?»

«Il tempo che ci hai messo a salire le scale, quindi diciamo una centuria, più o meno», rispose lei, sarcastica.

Lo sguardò di Dankar divenne decisamente meno amichevole. «Ti devo ricordare quant'è fredda la canna di una Fentlock, Briniel? Sarebbe la seconda volta in un giorno, ma ora ho mezzo litro di rum nel sangue e molto meno autocontrollo», la minacciò.

«Chiedo umilmente venia, Capitano», disse lei, quasi seria. Il sarcasmo era da sempre il suo scudo contro il mondo, la lucente rivoltella del mezzo capo di una ghenga clandestina non l'avrebbe di certo fatto svanire così su due piedi.

Dankar corrugò la fronte e le porse il foglio con un pennino metallico. «Firma, poi parliamo di cosa succederà il prossimo giunedì.»

Danha poggiò il bicchiere di rum sulla scrivania e prese quel pezzo di carta, poi camminando con teatralità per la stanza cominciò a leggerlo, modificando qualche riga e cancellando alcune clausole.

Dankar la guardò, con non poca disapprovazione nello sguardo. «Forse non ci siamo capiti, Briniel. Quell'accordo non è negoziabile.»

Lei fece finta di non sentirlo e lesse fino all'ultima riga. Annuì con convinzione, firmò con un'elegantissima grafia degna dei migliori poeti verkheidiani, poi alzò il foglio a pochi centimetri dal viso di lui e lo strappò a metà.

«Forse tu non hai capito. Io non sono negoziabile.»

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