Cadaveri? No, caramelle

Oggidì

7

«D'accordo, ecco il piano: all'8 di Via degli Agghiacciati c'è una taverna, l'Abisso. Ci lavorano tre persone, tra cui un vecchio barbuto con una fascia vermiglio in vita e un grosso cappello di paglia di nome Worn, non puoi sbagliare. Commercia ragazzini alla Celata, è in affari con Zendon. Ci sarà un incontro oggi, due giri dopo il calar del sole, sicuramente nel privé dell'Abisso. Worn abita all'11 della stessa strada, terzo piano. Non ci sarà nessuno lì per almeno un'ora. Devi rubare dei documenti dal suo archivio e portarmeli prima che torni dall'incontro con gli altri trafficanti», spiegò Dankar a Dahna.

Ci avevano messo due dì e due notti intere a stilare condizioni e postille affinché l'accordo potesse soddisfare le esigenze di entrambi. La trattativa era stata eterna e travagliata: Dahna voleva sapere, Dankar celare, ma alla seminotte del mardì successivo, favoriti anche da qualche calice di Jerry, avevano posto la propria firma in calce a ben cinque fogli.

Sostanzialmente, essi dichiaravano che Dahna avrebbe avuto i suoi spazi d'azione e voce in capitolo nell'ideazione dei piani, mentre Dankar, astenutosi da qualsiasi responsabilità nel caso in cui lei avesse fallito in una o più delle abilità richiestele, le avrebbe garantito la protezione della Ghenga e molti, molti soldi. Ovviamente, tra liste di obblighi e doveri, l'accordo di riservatezza fu il primo a vedersi apporre la firma di entrambe le parti.

«Quali documenti?», chiese Dahna, concentrata nell'assimilare ogni dettaglio.

«Atti di proprietà. Worn dovrebbe possedere un edificio tra le Dovizie, ho intenzione di comprarlo.»

«Comprarlo?»

«Sì, Briniel. Non si rubano le case, sono scomode da mettere in tasca o da nascondere, nel caso non l'avessi notato.»

Danha non poté trattenersi dall'alzare gli occhi al cielo, ma non cedette alla tentazione di rispondergli con sarcasmo. «Dimmi di più. Non chiedo una planimetria della zona, ma almeno dammi più informazioni sugli accessi agli edifici.»

«Il Necrosco è un quartiere buio, non pessimo quanto la Lordura, ma resta comunque arduo da percorrere a terra. L'Abisso lo riconosci avvicinandoti da Nord, ti basterà seguire le urla. Dopodiché, i due edifici che lo separano dalla casa di Worn sono il Lapidario e l'Obitorio: del primo non mi preoccuperei più di tanto, fa orari da bottega e a quell'ora avrà sicuramente già chiuso i battenti, ma l'Obitorio non dorme mai e il tetto funge da deposito provvisorio», spiegò Dagger.

«Di cadaveri?», chiese Danha, nauseata.

«No, di caramelle», le rispose lui, sarcastico. «Sì, è un ammasso di morti stecchiti. Non potendoli tenere al chiuso per l'odore ripugnante, hanno messo in piedi un cimitero all'aperto nell'attesa che si liberino posti al Colle Esanime. Inutile dire che il tetto è costantemente controllato, ci sono due guardie ai lati corti, potrebbero essere corrompibili, ma non rischierei, dovrai scendere in strada, in un modo o nell'altro.»

«Fantastico», sussurrò Danha, con finta ironia.

«Avrai bisogno di una Maschera e di un pugnale. Magari due o tre. Quell'arco non farà molto se ti trovi qualcuno alle spalle.»

«Sì, l'ho imparato molto tempo fa», rispose lei, allungandosi sulla sedia e mostrando all'uomo il pugnale a lato dello stivale destro. «Cosa intendi esattamente con Maschera?»

«Dipende dal lavoro. Portiamo Maschere diverse a seconda del livello di camuffamento desiderato. Se la missione si svolge di notte usiamo maschere vere, il colore dipende dal compito, la discrezione non è mai troppa sebbene di notte sia più difficile trovare giubbe verdi in giro. Di giorno invece la maschera è un trucco, nel senso letterale del termine, è quello che facevano gli Eruditi e che studiava Soffie leggendo Kesileo. Usiamo ogni tipo di ausilio per plasmare facce nuove: colla per barba, kajal bruno per le rughe, cerone bianco per i visi pallidi. In buona sostanza, potresti uscire da quella finestra con l'agilità di una ventenne e avere allo stesso tempo l'aspetto di una vecchia decrepita», spiegò Dankar.

«Carnevale di notte e teatro di giorno. Acuto», rispose Danha, con curiosa ammirazione.

«Abbiamo tutti bisogno della massima copertura, persino Diefbourg è solo una facciata come saprai. Questa città è diventata la capitale dell'impero galthorniano per un motivo: tutto ciò che accade qui sopra, tutto ciò che è di pietra o marmo e che poggia sulla terraferma dev'essere legale. Tu hai sempre vissuto nel Malagio, in periferia le cose sono diverse e il quartiere dove sei cresciuta è uno degli accessi principali alla Diefbourg sotterranea.»

«Esiste una Diefbourg sotterranea?» Lo stupore di Danha era evidente nei suoi occhi.

Dankar alzò un sopracciglio, confuso. «Questa è buona, hai passato gran parte della tua vita a precipizio sulla scogliera e non hai mai sentito parlare della Sotterranea?»

«A quanto pare», rispose Danha, alzando gli occhi. «Illuminami.»

«Ti sarai accorta che Diefbourg è una città fiorente, specchio della ricchezza dell'imperatore Calidius, e come tale essa non contempla in nessun modo professioni come la nostra, quella di Zendon o di sua moglie. Come anche la tua, se è per questo. Il Malagio si affaccia su scogliere, non spiagge, e questo perché tra il livello del mare e quello su cui siamo noi ora esiste un'intera città che chiamano Onderbourg, la Sotterranea. Ti sei mai chiesta perché il quartiere del Sacro Culto e la cattedrale, così come le diverse strade che portano al Porto sono leggermente in discesa, mentre l'altra parte della città si affaccia su alte scogliere? Com'è possibile che da una parte il mare sia così in basso e dall'altra così vicino da poterlo toccare? Come ogni cosa, anche questa città ha la sua ombra ed è nascosta nei meandri di quelle scogliere.»

Danha non credeva alle sue orecchie.

«Avevi avuto una giusta intuizione da Zendon. Qui a Diefbourg, il Macellaio è un botteghiere come un altro, vende la carne migliore e i filetti pregiati che vengono serviti nelle portate della Corte e dello stesso Calidius, ma al di sotto della terra che pestiamo ogni giorno è un sadico vicario e io fossi in te non assaggerei la sua carne, a meno che tu non abbia tendenze cannibalistiche. A Diefbourg, Emeralda è una donna d'affari direttrice del Circolo della Rosa, e le sue ragazze si esibiscono in spettacoli di burlesque per la Corte e non solo. Nella Sotterranea, il Circolo è in realtà un bordello, il Lupanare, ma la gente di sopra non deve sapere che al di sotto del palco ci sono delle puttane e i pochi che lo sanno tengono la bocca chiusa per non crepare l'immagine dell'incorruttibile capitale e del suo retto imperatore. Ora come ora, hai davanti un onestissimo uomo d'affari in completo assiano, trafficante di prodotti nordici di lusso, in regola con il pagamento di imposte e tributi e seduto comodamente sulla poltrona del suo studio, ma se invece di salire cinque piani di scale ne avessi scesi due, sarei entrato nel mio vero ufficio, alla Tana. Avrai di sicuro una copertura anche tu, come tutti noi, la stessa che usi quando le giubbe verdi ti chiedono di dichiarare i tuoi guadagni.»

Danha storse il naso, un lampo di dolore e disgusto nei suoi occhi. «Sì, il Pozzo.»

Dankar annuì.

Sapeva perfettamente dove lavorava, il Pozzo era una taverna a pochi passi dal porto, una delle più squallide. Ci era stato più volte per raccogliere informazioni, una di queste nel periodo in cui ancora si dedicava alla pirateria e portava una delle solite Maschere, un trucco che lo faceva sembrare molto più pallido e decisamente meno diefbourghiano. Aveva chiesto un bourbon e Danha gli aveva servito whisky assiano annacquato, in linea con lo squallore di quella topaia.

Non osava immaginare cosa avesse dovuto sopportare Danha dietro quel bancone.

«Portiamo tutti una Maschera, in un modo o nell'altro. Soffie qui è ufficialmente mia nipote, orfana di entrambi i genitori, l'ho adottata e ho cambiato il suo nome all'anagrafe prima che la trovassero gli uomini di Zendon. Si occupa di studiare i trucchi e prepara l'occorrente per le missioni, acquistando i prodotti nelle botteghe dell'Emporio e fingendo di riservarli alla sua futura carriera nel mondo dello spettacolo. Il più delle volte le credono, è giovane e sa fare intenerire la gente.»

«E quando invece non le credono?», chiese Danha.

«Sa anche correre veloce», rispose Dankar, un sorrisetto appena accennato sulle labbra.

«Dimmi della Tana.»

«Beh, la Tana è ciò che siamo davvero, un covo di raffinatissimi ladri. Come te, ma con più discrezione e testosterone. La gente di solito entra nella Tana per tre motivi: un debito da saldare, una vendetta da compiere, qualcosa da vendere. Informazioni, il più delle volte. Non ti so dire esattamente il numero di persone a conoscenza della città sotterranea, ma non sono molte e la maggior parte è poco raccomandabile.»

«Ci lavori anche tu», disse Danha.

Dankar sorrise. «Infatti, io non ho mai detto di essere raccomandabile. Ad ogni modo, la Sotterranea è una città pseudogalleggiante, una buia e stretta rete di palafitte in legno addossate alla roccia e posizionate una sopra l'altra per una quindicina di metri, come le impalcature dei mastri murai o dei mastri restauratori. Sono collegate tra loro da passerelle e ponti sospesi a qualche metro dall'acqua, infiltrata dal Mar Placido insieme ad alcune specie poco amichevoli di barracuda, meduse e squali. Fossi in te, farei attenzione a non cadere dalle passerelle e a non farmi sfuggire informazioni in superficie: chi spiffera qualcosa sulla Sotterranea sembra che poi perda casualmente l'equilibrio sui ponti e faccia amicizia con quei pesciolini amorevoli.»

Danha ci mise un po' ad assimilare tutte quelle informazioni.

Una rete di criminalità organizzata pochi metri sotto i suoi piedi, questo spiegava parecchie cose, tra cui le continue sparizioni di Bernabé quando il Léon si fermò nella capitale, molte orbite prima.

Aveva milioni di domande, ma prima che potesse parlare Dankar la fermò con un gesto della mano. «Parecchia carne al fuoco, mi rendo conto, ma non ho tempo adesso. Siamo in tre a gestire la Tana, portami i documenti di Grimm prima che lui sia di ritorno e ti farò conoscere il resto della banda. Se sarai ancora piena di dubbi, risponderemo alle tue domande.»

Danha fissò per un istante l'uomo dall'altro lato della scrivania, non sapeva cosa pensare, non sapeva se fidarsi. «Esattamente cosa pensi che farà questo Worn quando, dopo essersi accorto che i suoi atti di proprietà sono magicamente scomparsi, ti vedrà rivendicare casa sua?»

Il sorriso di Dankar si allargò. «Tu inizia con il rubare le carte, al resto ci penso io», poi tirando fuori una busta dal cassetto della sua scrivania, la allungò alla donna sedutagli di fronte. «Un incentivo.»

Danha prese la busta, la aprì e dopo aver visto la quantità di cartamonete all'interno, alzò le mani in segno di resa.

Probabilmente nessuno era mai riuscito a stare al passo con le trame intessute dalle cellule grigie di un Dagger, non di questo Dagger almeno, ma fintanto che Danha vedeva denaro, e con esso una via d'uscita e la possibilità di vendicare ciò che le era stato sottratto, era obbligata a fidarsi.

8

Quasi due ore dopo il calar del sole, quando il campanile della cattedrale di Diefbourg batté gli otto giri dell'antinotte, Danha si trovava all'ingresso del Necrosco, nessuna giubba verde in vista. Una maschera aurea, il colore del furto, le copriva la metà inferiore del viso mentre un completo di nero elastico assiano le fasciava il corpo dagli stivali alle spalle, terminando con un ampio cappuccio, corvino come la sua corta e finta chioma.

Il primo edificio alla sua destra aveva pareti di liscio marmo bianco, impossibili da scalare senza ventose o corde, così decise di aggirarlo passando di fronte alla spezieria di Via dei Barbiturici. Le serrande erano chiuse e nelle strade commerciali, anche quelle più infime, regnava un silenzio rotto solo dalle urla e dalle risa lontane provenienti dall'Abisso.

Danha proseguì nella via parallela a quella degli Agghiacciati sfruttando le ombre che la tenue luce dei lampioni proiettava sugli edifici e arrivò alla drogheria di Rubens, un edificio in pietra della Mezza Era che stava in piedi per miracolo e tagliava la strada orizzontalmente, chiudendola.

Fortunatamente per lei, era una baracca piena di sporgenze alle quali aggrapparsi. Si guardò intorno, poi un piede dopo l'altro, salì fino a raggiungere il piccolo balcone di legno al primo piano, dal quale saltò per aggrapparsi alla gronda del tetto, pregando che reggesse il suo peso.

Quando fu certa che la struttura, sopravvissuta per più di un secolo, non avrebbe ceduto sotto di lei, si issò sul tetto e saltò sopra il numero 6 di Via degli Agghiacciati. Da lì, ben nascosta dietro a un fuligginoso comignolo circolare, sbirciò in direzione della casa di Worn e capì, prima ancora di vedere due uomini di guardia sul tetto, che Dankar aveva ragione: nonostante la maschera, l'odore nauseante di cadaveri in putrefazione arrivava fino a lei. Tirò fuori dalla tasca interna della giubba uno strano strumento metallico a ingranaggi ruthoriani che, secondo le indicazioni di Dagger, le sarebbe stato utile.

Quando gliel'aveva dato, Danha aveva ripensato a quella specie di orologio da taschino che Dankar aveva guardato quando era stato da Zendon e aveva capito che non si trattava di un semplice orologio, ma di un'orobussola, rarissima fuori dal confine dello Zandor. Contava il tempo in giri di lancetta, brevi e lunghi, come ogni orologio, ma serviva più di ogni altra cosa ad orientarsi, non solo in superficie ma anche sottoterra o sott'acqua, dove non c'erano stelle o costellazioni a indicare la strada.

Danha osservò le guardie e tenne in mano l'orobussola. I due uomini controllavano i lati corti del tetto piatto per due minuti esatti, poi si spostavano sul lato lungo per novanta giri rapidi, senza mai pronunciare una parola.

Un lasso di tempo di certo non esteso, ma nemmeno così breve. Doveva trovare il modo di avvicinarsi al 9 senza passare davanti all'Abisso, alla sua destra via dei Barbiturici era terminata con la drogheria di Rubens, solo rocce dopo di essa.

Aspettò che i due uomini si trovassero sul lato lungo, poi si alzò e corse in direzione del tetto dell'Abisso, un chiasso assordante proveniva dalla sala sottostante, i coppi sotto i suoi piedi tremavano.

Sfidò la sorte allungandosi al limitare del tetto e sporgendo la testa oltre, per vedere qualcosa: di fronte alla taverna, intorno alle botti che fungevano da tavoli improvvisati, stavano diverse persone. Un uomo con un grande cappello di paglia guardò due volte l'ora, poi invitò i suoi compagni a entrare.

Doveva pensare: il cimitero provvisorio era a pochi passi da lei, scendere in strada di fronte all'Abisso era fuori discussione, l'avrebbero presa e portata dentro, magari sarebbe stato proprio Worn il primo a farle domande. Cosa gli avrebbe risposto? "Oh, niente di che. Stavo per derubarti, ma ci ho ripensato. Amici?". Non era una buona idea.

Usare l'arco anche era fuori discussione, l'aveva lasciato direttamente alla Dovizia, prima di partire. Non avrebbe ammazzato uomini innocenti e una freccia non mortale li avrebbe solo allarmati. Gli uomini allarmati, si sa, sono uomini poco silenziosi e l'Obitorio non dormiva mai, quindi non poteva rischiare.

Solo una cosa poteva permetterle di passare inosservata, senza creare confusione. Prese da un taschino nascosto nel corpetto nero una piccola ampolla di Narcotio e ne versò qualche goccia sul fazzoletto di tela ricamato regalatole da Bernabé dopo la sua prima esibizione. Il Narcotio era stato una sua invenzione, o almeno così le aveva detto: era un composto di oppio tebaico, mandragola ed erba di matala.

"È una delle armi che ti saranno amiche quando il tuo arco non potrà fare molto", le aveva detto, e da quella sera Danha aveva sempre girato con un'ampolla piena e un fazzoletto ripiegato in tasca.

Si avvicinò di fretta al bordo del tetto sfruttando ogni ombra e si rannicchiò proprio al di sotto della postazione in cui fino a pochi minuti prima stava appostato il primo uomo, il fazzoletto con il narcotizzante nella mano sinistra, guantata.

Rimase immobile, ascoltando i battiti del suo cuore accelerare e i passi della guardia avvicinarsi, poi quando fu certa di averlo a distanza ravvicinata, si alzò e prima che lui potesse dire una parola gli abbassò la maschera filtrante e gli tappò la bocca con una mano, mentre l'altra gli faceva respirare il Narcotio.

L'altra guardia non sentì nulla, il frastuono proveniente dal vicino Abisso aveva coperto i flebili lamenti del compagno, così come il rumore del suo corpo adagiato a terra. L'uomo non ebbe il tempo di girarsi per controllare il suo collega né il lato lungo, che Danha era già dietro di lui, il fazzoletto nuovamente impregnato premuto sul suo viso.

Da quel momento, le cose si fecero più semplici: l'11 non aveva protezioni di alcun tipo, non dall'alto almeno, la finestra del terzo piano era addirittura semi aperta, probabilmente per far entrare un po' di brezza in quella calda notte. Una volta dentro, Danha si trovò davanti una scrivania in mogano e non dovette far altro che curiosare tra i cassetti e poi scorrere le ante vetrate dei mobili che riempivano la stanza, alla ricerca delle cartelle giuste.

Nosocomio, ricevute, bolle di accompagnamento, contratti.
Atti di proprietà.

"Finalmente", pensò.

Aprì l'anta con la mano guantata e tirò fuori la cartella, scorse tutte le carte per cercarne una riferita al quartiere delle Dovizie. Quando la trovò l'arrotolò e se la mise in un piccolo tubo di cuoio appeso alla cintura, doveva solo riattraversare la stanza e rifare il percorso al contrario, ma ebbe giusto il tempo di rimettere a posto i fogli nella cartella e quest'ultima all'interno dell'armadio, quando udì dei passi avvicinarsi e la maniglia che si abbassava.

Erano in due, Worn e un altro uomo, uno di quelli che erano con lui all'Abisso, con lunghi capelli castani e una tunica di grezzo lino bianco sotto un panciotto di cuoio marrone. Danha si nascose dietro al tendone, dall'altra parte della stanza rispetto alla sua unica via d'uscita, il cuore a mille.

Dall'angolo, uno scorcio per spiare i due uomini le permise di scoprire, con suo grande stupore, che veniva utilizzato il Simbolium per comunicare e capì, così, che quello che doveva essere Worn era completamente muto.

Un movimento circolare del braccio destro. La mano sull'occhio. Il pollice al petto. Vari gesti che sembravano, ad occhi inesperti, completamente scollegati tra loro. Dahna li comprese al volo.

"Maledetto Dagger, adesso anche le mie case vuole".

«Lo sai com'è fatto, le Dovizie sono il suo impero personale. Sono venuto a dirtelo non appena ho saputo che aveva intenzione di appropriarsi anche della tua.»

Movimenti rapidi del compagno seguirono a quella scoperta. "Grazie. Devo controllare che l'atto di proprietà sia in regola. Quell'uomo conosce il codice commerciale come le sue tasche, riuscirebbe a toglierti di dosso anche le mutande se gli fossero utili a qualcosa".

"Merda", pensò Danha, sentendo l'uomo prendere in mano una cartella. Non aveva vie di fuga da lì, l'unica cosa che poteva fare era restare assolutamente immobile.

Worn si mise alla scrivania ed esaminò ogni foglio, davanti e dietro, poi sbatté con forza la mano sul legno e mimò: "Scomparso, come temevo. Controlla ovunque, se scopro che l'ha rubato qualcuno dei suoi lo faccio impiccare."

"Merda, merda, merda", pensò Danha.

Worn girò per la stanza, guardò nei mobili e persino nella camera da letto attigua. Quando tornò, fece cenno di no con la testa, facendo infuriare ancora di più il suo compagno che si alzò dalla sua sedia e si avvicinò pericolosamente alla tenda dietro cui si era nascosta Danha.

«Puoi lasciarmi solo per qualche istante?»

Danha chiuse gli occhi e serrò le labbra, invocando qualsiasi santo fosse in ascolto, poi in pochi secondi nascose la maschera e piegò l'atto di proprietà in quattro, infilandolo nel corsetto. Non le importava che fosse stropicciato, l'importante è che arrivasse a destinazione.

Quando lui, annuendo, uscì dalla stanza, estrasse un piccolo coltello dalla cintola e lo puntò verso l'angolo in cui era nascosta Danha, mettendosi a ridere. «Non le hanno insegnato che le tende sono un pessimo nascondiglio? È il primo posto in cui qualcuno guarda.»

Danha prese un respiro profondo, tirò giù il cappuccio, poi uscì dal suo nascondiglio. «Beh, non ci sono molti altri nascondigli qui dentro, Signoria.» Non appena vide il coltello, alzò le mani in segno di resa.

«L'ha mandata Dagger?»

Clausola n. 5: non fare nomi. Se ti interrogano, lavori da sola. Non conosci nessun Dankar Dagger, non personalmente almeno, e non hai mai sentito parlare della Ghenga.

«Mai sentito, prima di stasera», rispose lei.

«Quindi se le chiedessi di farmi vedere cosa porta con sé, lei non avrebbe addosso un atto di proprietà», disse lui, evidentemente pronto a metterle le mani addosso.

«Controllate pure», e così dicendo si spogliò da sola del tubo in cuoio e del contenuto delle tasche, tenendo per sé il narcotizzante e i pugnali. Sapeva che quell'uomo non aveva il diritto di perquisirla. Dagger non era l'unico a conoscere i Codici.
«Non sapevo dove andare, ho chiesto a un conoscente di indicarmi un posto dove pernottare questa notte, mi ha indicato questa pensione. Mi ha accolto un'anziana signora. È molto gentile.»

«La porta era chiusa a chiave e si è nascosta. È un comportamento sospetto, non crede?», replicò lui, esaminando ogni centimetro visibile.

«Mi avete spaventata, cos'altro potevo fare? Siete voi a tenere un coltello a pochi centimetri dalla mia faccia. Potreste essere un assassino, per quanto ne so», disse Danha, fingendo di essere intimorita. Sperò con tutta sé stessa che la messinscena reggesse.

«La porta era chiusa a chiave», ripeté lui, abbassando il coltello con sguardo inquisitorio.

«Certo che era chiusa, Signore. Ero convinta che fosse la mia stanza, fino a qualche istante fa, è normale che una giovane donna si chiuda a chiave dentro la propria camera, con quello che succede là fuori. Potrei denunciarvi, dovrei farlo, ma non ho tempo per questo, non chiudo occhio da giorni e non ho le forze di risolvere i problemi di sicurezza di una vecchia baracca come questa. Ecco la chiave, me l'ha data la signora all'ingresso un momento fa. A questo punto le direi di verificare. Se questa apre tutte le porte di questo edificio, in casa sua potrebbe essere entrato qualcuno di ben più pericoloso di una donna stanca e indifesa», disse Danha offesa, porgendogli la chiave che aveva preso dal primo cassetto della scrivania, non appena messo piede dentro quella topaia.

Lui la prese e la infilò nella toppa, per controllare che non bluffasse. La chiave vi entrò liscia come l'olio.

Il giovane uomo non riuscì a contenere la rabbia. «Oh, chiederò senza dubbio spiegazioni, ora se ne vada, se non l'avesse capito questa non è la sua stanza e io devo trovare dei documenti. Questo spiacevole incontro non è mai avvenuto e lei non ha sentito niente, sono stato chiaro?», disse, aprendole la porta e chiedendo al suo collega di entrare al suo posto.

Quando se la richiusero alle spalle, Danha ringraziò tutti e dodici gli Pseudologi e si incamminò alla velocità della luce giù per le scale.

Una volta fuori, non passò davanti all'Abisso, ma aggirò gli edifici vicini fino a trovare una salita sicura.

Ci mise più tempo del previsto, ma una volta tornata sui tetti, ripercorse il tragitto al contrario fino alle Dovizie, gustandosi il tepore della notte e la mancata morte, che era sicura di aver scampato per poco. Quando arrivò al Quartier Generale, salì ancora per arrivare al quinto piano e da lì si spostò verso la finestra dell'ufficio di Dagger, aperta in attesa del suo ritorno. Guardò l'orobussola un'ultima volta, poi entrò senza far rumore, togliendosi la maschera.

Quando si girò verso la scrivania, pronta per raccontare l'accaduto, due uomini erano seduti di fronte alla scrivania di Dagger e tre paia di occhi famigliari erano puntati su di lei.

Dankar se la rideva sotto i baffi.

Worn, senza barba e con qualche decennio in meno, la fissava serio.

L'uomo con il coltello che l'aveva minacciata da dietro la tenda non aveva più lunghi capelli castani e portava adesso un raffinato abito verde smeraldo con delle sfumature color malva che riprendevano il colore della sua chioma lucente.
Si alzò per appoggiarsi allo schienale della poltrona e sfoggiò il sorriso più divertito e smagliante che Danha avesse mai visto.

«Prova superata, volpe. Benvenuta nella banda dei più raffinati bastardi di Diefbourg.»

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