Antiscasso e resistente agli urti come un budino di albicocche
Oggidì
9
«Quindi ho rubato in casa vostra?»
La confusione negli occhi di Danha era lampante.
L'uomo sconosciuto che l'aveva scovata dietro le tende le sorrise. «No, dolcezza. Hai rubato a casa del Macellaio, ci serve davvero il documento che hai preso. Noi dovevamo solo metterti in trappola e vedere se, e come, ne saresti uscita.»
Danha alzò un sopracciglio e voltò lo sguardo verso Dankar. «È stata un'idea tua, immagino.»
«Sei rimasta fedele all'accordo e, a quanto dicono questi due gentiluomini, sei stata anche piuttosto furba.»
«Ci sono due guardie drogate sul tetto dell'Obitorio», disse Danha con fermezza. «Quando si sveglieranno, sempre che non l'abbiano già fatto, si faranno domande, aumenteranno le precauzioni.»
Sei paia di occhi la guardarono, allibiti. Worn, sempre che fosse il suo vero nome, si limitò ad alzare gli angoli della bocca. Sebbene stesse giocolando con tre palline di grezza canapa intrecciata, non le aveva ancora tolto gli occhi di dosso da quando era entrata di soppiatto dalla finestra, mentre l'altro sconosciuto scoppiò in una fragorosa risata. «Hai drogato le guardie?»
«Ti avevo detto che dovevi scendere in strada», le disse Dankar con tono di rimprovero, ma non era ben chiaro se fosse più arrabbiato o piacevolmente sorpreso.
«Non potevo scendere in strada, il tuo amico qui se la spassava di fronte alla porta con il suo per niente appariscente cappello di paglia, cos'avrei dovuto fare? Chiedergli di farmi strada perché dovevo sgraffignare una cosa dalle sue stanze?»
Worn sogghignava, mentre le palline continuavano a volare a pochi centimetri dal suo naso.
«Non ci credo, ha drogato i becchini», mormorò lo sconosciuto.
«Quindi? Risponderete alle mie domande ora?», chiese Danha. Si avvicinò alla cassettiera a lato della scura scrivania di Dagger, poi vi si issò sopra e si mise comoda, incrociando le gambe, in attesa delle sue risposte.
«Cosa vuoi sapere, volpe?»
Danha gli lanciò una di quelle occhiatacce da rimanerci stecchiti, ma lui non se ne curò. Avrebbe continuato a chiamarla così, per il puro gusto di vedere quello sguardo omicida. Danha era curiosa. «Beh innanzitutto chi siete voi due, quali sono i vostri veri nomi.»
«Come darti torto. Io sono Tommy. O Tom, se ti faccio incazzare o se devi chiedermi qualcosa. I genitori di questo bell'imbusto, invece - pace all'anima loro -, l'hanno chiamato Grimm. Avevano un pessimo gusto in fatto di nomi, se vuoi sapere la mia.»
Danha guardò Grimm, che nell'antica lingua di Diefbourg significava rabbia, e si portò la mano sotto la spalla disegnando sul braccio due immaginarie linee parallele, come aveva fatto alla notizia della dipartita del vecchio direttore del Léon. Non si reputava una devota, ma se c'era una cosa per la quale portava il massimo rispetto era la morte: qualsiasi anima decidesse di reclamare a sé la Dama Nera, un segno di lutto per le sue vittime le sembrava il minimo.
Tommy la osservò, sempre con un sorriso sulle labbra. «Thanatos può andare a farsi...»
«Attento a come parli, Tom», lo avvisò Dankar, lo sguardo ammonente. «La Dama ti ascolta. Ecco una prima vera risposta alle tue domande, Briniel: Thomas è senza fede e di conseguenza senza speranza», disse Dankar, che si spostò giusto in tempo prima di ricevere una pallina in faccia dal diretto interessato. «Grimm invece crede fermamente negli Pseudologi e nel Sacro Culto, sebbene leggermente modificato a suo favore, non so se mi spiego.»
Danha comprendeva perfettamente cosa intendesse: il sacro Culto era per le persone oneste, che ogni precedì si recavano alla cattedrale per pregare Cerere, Opi o Tellus e ascoltare attentamente il sermone del loro amato vescovo Morlion, non per chi faceva il ladro di professione.
Le persone come loro pregavano Gaelos e Hoax, dei del commercio, del furto e dell'inganno oppure Geluk, dea della fortuna, perché vegliasse sulle missioni pericolose e mantenessero sulla retta via le loro fraudolente natiche.
«E tu in cosa credi?», gli chiese Danha, sinceramente curiosa.
«Io credo in quello che gli altri vogliono che io creda», rispose lui, senza esitare. «Altrimenti sarei un pessimo uomo d'affari.»
«Ma saresti un uomo d'affari più modesto, probabilmente», gli rispose Danha, alzando le sopracciglia al suo sguardo di feroce avvertimento, il terzo in una sola, lunga giornata.
Tommy guardò prima il suo capo, poi la nuova arrivata, cercando di capire se quest'ultima avrebbe vissuto ancora a lungo, mentre Grimm, dopo aver recuperato la pallina lanciata a Dankar, continuava con indifferenza a fare il giocoliere con un sorriso stampato sul viso.
«Le vostre famiglie?», chiese Danha a tutti i presenti.
«Morti e scomparsi», rispose Tommy, indicando prima Grimm e poi sé stesso.
Danha si girò verso Dankar, in attesa. Non sperava in una risposta, la fama della famiglia Dagger precedeva ognuno dei suoi membri di almeno qualche oceano, ma dopo qualche istante il giovane uomo disse: «Entrambe le cose.»
Le era sembrato di vedere un'ombra passare impercettibilmente rapida negli occhi dell'ex pirata: se la morte si riferiva a suo padre, cosa di cui Danha era certa, la scomparsa doveva necessariamente avere a che fare con la madre, o almeno così immaginò, un argomento evidentemente troppo delicato per quella conversazione. In quel momento in lei si insinuò un dubbio, il ricordo di una nave che issava bandiera blu zaffiro, un pensiero lontano nel tempo che decise di scacciare subito. Quel ricordo portava con sé una sensazione di vuoto e dolore che lei aveva seppellito da anni sotto un cumulo di autocontrollo e sarcastico coraggio.
«D'accordo. Ditemi della Tana», chiese a Tommy e Grimm. Entrambi guardarono il loro capo dall'altro lato della scrivania che aveva appena tirato fuori dal taschino l'orobussola. Quando fece un cenno affermativo con la testa, fu Tommy a rispondere a Danha. «Oh, faremo di meglio, dolcezza. Te la mostreremo.»
* * *
Due veloci giri d'orobussola più tardi, quattro paia di stivali scendevano silenziosamente i cinque piani di scale che riportavano al livello zero del quartiere delle Dovizie.
Danha non poteva vederlo, ma dietro di lei uno di quei tre pazzi sconosciuti non riusciva a toglierle gli occhi di dosso, seguiva ogni suo movimento alla ricerca di qualcosa che potesse dargli un motivo, uno solo, per sbatterla fuori dalla banda o quantomeno per capire se ne era degna. Ci erano volute orbite prima che trovassero un equilibrio in quella sottospecie di famiglia, orbite di errori e complicazioni, di cose che non andavano bene neanche a pregare l'intero Pantheon. Avevano letteralmente sputato sangue per tenere in piedi quello che erano diventati, fidarsi di una nuova arrivata non era facile.
La prima cosa che Danha notò, ancora prima di aver toccato l'ultimo gradino di quella scala infinita, fu il freddo: un'aria gelida proveniva dalla città nascosta là sotto, un soffio di puro ghiaccio che le fece accapponare la pelle e che spinse le sue braccia a chiudersi attorno a lei.
La seconda cosa, forse la peggiore, fu l'odore: un lezzo indescrivibile arrivò alle sue narici, una puzza di pesce rancido, ruggine e piscio, al cui confronto il tetto dell'obitorio le sembrò un campo fiorito. Quando fece per soffocare un conato, una mano comparve davanti ai suoi occhi porgendole un fazzoletto nero, bordato d'oro.
«Prendi, un giorno ti ci abituerai», disse Dankar.
"Ne dubito", pensò lei, ma lo tenne per sé. «Grazie. Come inizio non promette un granché.»
«Può solo peggiorare», rispose lui, il volto inespressivo.
Passarono davanti a diversi locali, non si fermarono davanti a nessuno, ma l'odore non faceva che inasprirsi: la gente là sotto non era molta, ma era messa male.
Su ogni passerella e sulla soglia di ogni porta cadevano molli come gelatina uomini e donne ubriachi o drogati, guardavano passare quei gentiluomini e quella donna sconosciuta, ma senza vederli davvero, con un velo bianco sulle pupille. Sorridevano, ma non sapevano il perché. Cercavano di memorizzare, ma non appena scostavano lo sguardo dimenticavano tutto.
Tommy le si avvicinò quel tanto che bastava per poter parlare sottovoce e dalle sue labbra uscì una sola parola. «Papaveri.»
Danha si girò a guardarlo, per un attimo scorse qualcosa nel suo sguardo ma non seppe definirlo, poi annuì, ripensando a Bernabé. Deglutì, sperando che nessuno scorgesse in lei tanta consapevolezza e rimorso.
Il giro panoramico durò poco in realtà, Danha cercò con tutta sé stessa di trovare un senso a ciò che vedeva, una giustificazione, una conferma. Ancora stentava a credere che là sotto, nascosta agli occhi dei più, si nascondesse un'intera città galleggiante, un turbinio di passerelle affacciate su quella pericolosa macchia nera e salata che in superficie sembrava così cristallina e innocua, così desiderabile. Lei, che un giorno sognava di solcare gli Otto mari sul suo vascello, senza la minima idea di cosa volesse realmente dire imbattersi nella gente di mare, nella gente da cui era circondata ora.
«Eccoci», annunciò Thomas con fierezza, distraendo Danha dai suoi pensieri e facendola tornare a quella nauseante realtà. «La Tana.»
Danha si guardò intorno, come a cercare qualcosa di imponente, almeno un portone, chessò un'insegna. Niente. Davanti a loro c'era una piccola porta di legno. "Di legno", pensò Danha, incredula. "Antiscasso e resistente agli urti come un budino di albicocche."
«Questo buco?», chiese lei, con un sopracciglio alzato e un lampante dubbio stampato sul volto.
Tommy le si avvicinò, incrociando le braccia al petto. «Non tutto è come sembra, Briniel. Mai giudicare dalla copertina. Anche io potrei sembrare un coglione...»
«E lo sei», concluse Dankar, con un sorriso giocondiano che non tradiva divertimento né serietà.
«Divertente», rispose Tommy, serio. «Molto divertente, davvero. Mi sto sbellicando. Dopo di voi, signorina.»
Danha precedette gli altri immaginando un angusto spazio buio e poco ospitale, una vera e propria tana di poveri delinquenti, ma ciò che non aveva preso in considerazione era che quei tre banditi erano tutto tranne che poveri. Il loro portamento, il loro abbigliamento, persino il loro lessico, tutto di loro svelava una certa galanteria e un certo agio e la loro Tana non era da meno.
Se per entrare era necessario abbassare la testa, il soffitto si alzava esponenzialmente già nell'atrio: un enorme androne circolare con pareti amaranto avvolgeva l'ambiente semivuoto, spezzato dalla sola presenza di una scalinata chioccioleggiante in noce al centro. Ai lati della stanza due porte si aprivano su spazi altrettanto grandi, dai quali non proveniva alcun rumore né traspariva alcuna luce, in compenso però l'odore di cigari e alcolici rendeva difficile respirare.
«Solitamente questo posto non è mai così silenzioso, ma è tardi e quando la gente comincia a sembrare più morta che viva Jenk inizia a calciare qualche culo fuori dalla baracca. La porta alla tua destra dà sul Nocturnus, quella a sinistra sulla Biscazza, i magici luoghi dove la gente esce rispettivamente meno sobria e meno ricca di quando è entrata. Seguimi.»
Danha seguì Dankar su per la scala a chiocciola fino al piano superiore, anch'esso bipartito in due ali: due paia di camere sopra il Nocturnus, una copia decisamente meno lussuosa dell'ufficio di Dagger sopra la Biscazza.
«Voi vivete qui?» chiese ai due, sorpresa.
«È un po' più complicato di così», rispose Tommy. «La Dovizia è un rifugio sicuro, per la maggior parte del tempo, la Tana no. All'ultimo piano della prima, come hai visto, Dankar riceve ufficialmente i clienti, ma restano quattro piani liberi prima di entrare nella Sotterranea. Il piano terra funge da circolo culturale, spesso si riuniscono eruditi e sapienti per discorrere di poeti emergenti o delle Scritture del Sacro Culto, ma non è male come te lo immagini.»
Grimm le passò di fronte senza farsi notare e le fece capire che sedersi su un cactus sarebbe stato più piacevole. Danha lo fulminò con la coda dell'occhio, ma sorrise, e pregò Tommy di continuare. «Al primo piano ci sono una decina di camere riservate agli ospiti del circolo che arrivano da fuori città, nel caso fossero intenzionati a passare la notte qui. Il secondo piano è riservato a me e Grimm: ci sono diverse stanze, diciamo che io ne posseggo una e per il resto regna il caos. Sbaglio?» disse, riferendosi al socio. Grimm lo ignorò, con un piccolo sbuffo insonoro.
«Il terzo piano è di Soffie, non so cosa se ne faccia una ragazzina di tutto quello spazio, soprattutto perché passa la maggior parte del suo tempo nell'ufficio di Dagger, ma si tiene strette le sue camere e conoscendola potresti trovarti di fronte a pile di libri più alte di lei. Il quarto piano invece, beh...»
«Il quarto piano è il cardine attorno a cui ruota tutto ciò che siamo e che facciamo», lo interruppe Dankar.
«Essendo la Dovizia addossata per metà alla parete di roccia retrostante, il terzo e il quarto piano, così come l'ufficio, sono gli unici ad avere delle finestre sul retro. Soffie non esce mai dalla porta d'ingresso, ma si intrufola nel mio ufficio dalla finestra, come hai fatto tu stasera. Il quarto piano è la vera essenza della Dovizia, lì si trovano le cabine con i costumi e le Maschere, i travestimenti, i trucchi. Si trova tutto lì dentro. Il Quarto è sempre e rigorosamente blindato, da entrambi i lati, nessuno entra e nessuno esce senza che io lo sappia», e così dicendo indicò a Danha di proseguire verso la stanza a destra e accomodarsi al grande tavolo in mogano, l'unico pezzo di arredamento oltre alla bottigliera.
Dopo aver preso quattro glencairn in vetro venetico e averli riempiti di Jerry, Dankar li distribuì tra i presenti e si sedette a capo della tavola.
«Ho una domanda», esordì Danha, dopo aver assaggiato il liquore. «Se al Quarto si trovano i travestimenti e le Maschere, come si passa inosservati fino al piano terra e da lì alla Sotterranea?»
«Questo è il bello di Onderbourg», riprese la parola Tommy. «Quaggiù nessuno ha bisogno di maschere o costumi perché l'illegalità regna sovrana. Credimi, le uniche strade che dovrai percorrere celando chi sei realmente sono quelle dell'impeccabile Diefbourg. Nessuna giubba verde ti aspetterà agli angoli di queste passerelle malconce. Troverai uomini corrosi dall'oppio o dall'alcol, puttane, ladri, persino la morte se ti coglie a vagare nell'incertezza, ma nessuna giubba verde.»
«Non è mai successo», puntualizzò Dankar. «Questo non toglie, tuttavia, che potrebbe accadere. I tempi sono cambiati, ci sono uomini che non conoscono e non rispettano il confine, uomini e donne che vorrebbero una Diefbourg diversa, più libera, meno conformista. Per questo motivo abbiamo bisogno di te. Se qualcuno della città di sopra dovesse scoprire cosa siamo realmente, o peggio se qualcuno volesse annullare il confine tra Diefbourg e Onderbourg, saremmo tutti morti prima di riuscire a invocare anche solo uno dei fottuti Pseudologi.» Danha annuì, facendo roteare il Jerry nel bicchiere.
«Già. Tanto varrebbe buttarsi subito nelle viscide acque del porto e prendere il largo», ribatté Tommy.
Nel preciso istante in cui Tommy fece quel commento, lei ricordò il motivo per cui Dankar Dagger le era così familiare. Lo fissò e lui ricambiò con sguardo interrogativo.
Grimm e Tommy non se ne resero conto, intenti l'uno a riflettere sulle parole del capo e l'altro a giocherellare con i bottoni del panciotto malva. Dopo quella che parve una piccola eternità, Dankar, quasi come se riuscisse a leggere nel pensiero della ragazza seduta di fronte a lui, distese la fronte corrugata e un angolo della sua bocca si alzò in un sorriso compiaciuto, per quanto gentile.
«Non pensavo ci avresti messo tanto, Arya», disse. E mentre gli altri due lo guardavano con una palese confusione negli occhi, Danha sentì che il suo cuore aveva saltato un battito.
Il sangue nelle sue vene smise di fluire e lei sprofondò piano nei ricordi.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top