Terzo inverno
A quanto pare Olivia, la splendida donna alta e snella quanto una modella di Victoria Secret, era la sua storica fidanzata, ancor prima della nostra famosa intervista. Ancor prima della mia nascita, per l'esattezza, visto che a quanto detto dai principali siti di gossip che non avevo fatto altro che scrollare per almeno tre intere settimane, la signorina in questione aveva ben trentotto anni.
Ad aggravare il tutto, la fredda conversazione costellata d'inutili frasi su quanto il nostro bacio fosse stato sbagliato e dettato da un puro impeto corporeo. Non ero riuscita a controbattere, ero rimasta inerme di fronte a una persona che non era ciò che sapevo fosse. Semplicemente non la riconoscevo. In quella rimessa le nostre anime si erano connesse e gli occhi avevano detto quanto era sufficiente sapere. Il solo errore era stato quello di credere di poterlo avere.
«Mi hai baciata Harry, mi hai guardata negli occhi e mi hai detto che nessuno ti hai mai compreso come ho fatto io in questi maledetti mesi», urlai, fuori di me.
Rimase in silenzio, rivolgendo lo sguardo al pavimento.
«E' vero, è così», replicò «ma quel bacio è stato dettato dalla situazione, dal prosecco».
Allargai le braccia, incredula.
«Non sto dicendo fossi ubriaco», si affrettò a precisare «ma non è stata la cosa più giusta da fare, ero confuso ed è stato ... un istinto fisico».
Cercai di prendere un profondo respiro, gli occhi ricolmi di lacrime.
«Puoi dirmi ciò che vuoi, usare tutte le giustificazioni che ritieni giuste», sibilai a denti stretti «ma la verità è che stai semplicemente mentendo a te stesso».
Inspirai nuovamente, asciugandomi le guance.
«Hai talmente paura di aver finalmente incontrato qualcuno di reale da non riuscire neppure ad ammettere che ciò di cui avresti bisogno è qualcuno come me», sibilai.
Feci poi per deglutire, esausta.
«Qualcuno che ti faccia sentire vivo e non una semplice marionetta», continuai «ma va bene, vai pure a nasconderti, non sarò io a trattenerti».
E così fu. Perfino oggi, a distanza di circa un anno, non sapevo se vomitare, staccargli la testa a morsi o rinchiudermi per sempre in un casa di cura per sfigate croniche. Per fortuna, nella vita reale, avevo optato per la totale immersione nel lavoro. Nessun contatto sociale, nessuna festa, nessuna risata. Ero diventata la regina di ghiaccio, incapace di avere rapporti con l'esterno. Mi alzavo la mattina, bevevo il solito caffè, mi rinchiudevo nel mio ufficio per la maggior parte della giornata e verso sera, esausta, rincasavo nel nuovo buco d'appartamento che lo stipendio mi permetteva di mantenere. Continuare a vivere con Gemma avrebbe richiesto una forza che in quel momento non ero in grado di avere, tanto che un giorno di Luglio avevo chiuso l'ultimo scatolone e avevo silenziosamente lasciato una nuova vita morta fin troppo prematuramente.
Londra, 2 dicembre 2012.
Maledetto documento. Per uno stupido modulo lasciato chissà dove, ero stata costretta a tornare all'appartamento di Soho, i ricordi dello sgradevole pranzo natalizio a rimestare su e giù per lo stomaco mentre mi muovevo freneticamente per quella che fino a pochi mesi fa era la mia stanza. Mi restavano poche manciate di minuti prima che Gemma rientrasse dal salone, il desiderio di uscire presto da quelle mura a provocarmi un forte acceleramento dei battiti.
«Grazie al cielo», sospirai, conquistando la tanto agognata cartellina rosa fluorescente.
Non feci però in tempo a richiudere il cassetto che il campanello prese a suonare insistentemente. Confusa, mi affrettai a raccogliere la borsa e il cappotto, il citofono come impazzito.
«Ho due gambe, ricordi», strillai, trovandomi di fronte a uno scenario del tutto inaspettato.
«Ahm, non sei Gemma», stridulò un ragazzo alto e moro, degli affascinanti RayBan scuri a nasconderne gli occhi.
«Potrei dire lo stesso di te», replicai con voce roca.
Sorrise, incassando le mani nelle tasche dei jeans.
«Avevamo un appuntamento», continuò, sfilandosi gli occhiali e mostrando due diamanti azzurro mare.
Sbattei le palpebre, alzando le spalle.
«Spiacente, non ne ho idea», risposi, sventolando la cartellina «sono la sua ex coinquilina, ho soltanto recuperato un documento».
Fece per annuire, incrociando le braccia al petto.
«L'aspetterò», continuò, appoggiandosi al muretto.
«Bene», replicai, accennando un debole sorriso «piacere di averti conosciuto», e così dicendo mi chiusi la porta alle spalle, imboccando il vialetto.
«Io sono Nathan», strillò, costringendomi a fermarmi sui miei stessi passi.
«Laura», risposi timidamente.
Ed io che volevo scappare.
«Lavoro nella pasticceria a fianco al salone», continuò «ogni tanto io e Gemma ci incontriamo per organizzare degli eventi di quartiere».
Scossi la testa, domandandomi il perché di tante informazioni.
«E' una bella cosa», fu tutto quello che fui in grado di dire.
«Stai cercando di scappare?», ironizzò, sorridendo nuovamente.
«Sono solo di fretta», sentenziai seccata «sono sicura che Gemma sarà qui a momenti».
«Farebbe comodo una mano in più», squillò «se vuoi contribuire».
«Grazie, ma ho già tanto lavoro», risposi frettolosamente «Gemma sarà abbastanza», e così dicendo abbozzai un falso sorriso, voltandomi e affrettando il passo verso la macchina parcheggiata poco distante.
***
Infreddolita, agguantai l'accappatoio, avvolgendomi finalmente nel suo caldo e morbido tepore. Erano le diciotto del primo sabato di dicembre e come al solito mi trovavo sola nella mia scatola di scarpe, il camino acceso senza nessun cuore a scaldarsi di fronte. Sospirando, feci per immergermi nella mia solita tenuta invernale, cominciando poi ad asciugarmi frettolosamente i capelli. Tuttavia, non feci in tempo a terminare, che il campanello prese a suonare brutalmente. Sbuffando, posai il phon sul comodino, sistemandomi in maniera disordinata la chioma scura.
«Diamine», sibilai a denti stretti, trovandomi di fronte a uno scenario a dir poco inaspettato.
«Laura, giusto?», esclamò il ragazzo di qualche ora prima, ora stretto in un cappotto più pesante.
Roteai gli occhi, inerme.
«Non sono uno stalker», continuò «e neanche un maniaco».
«Beh, recuperare il mio indirizzo è esattamente quello che farebbe uno stalker o un maniaco», replicai, incrociando le braccia al petto.
Sorrise, abbassando lo sguardo.
«In mia difesa, non ho usato fonti illegali», esclamò «soltanto Gemma».
Feci per annuire, allargando le braccia. Maledetti fratelli Styles.
«Quindi a cosa devo questa visita?», troncai frettolosamente, l'aria gelida contro l'umido dei miei capelli.
«Direi a salvarti da una terribile broncopolmonite», replicò, indicando la mia chioma ancora bagnata «e a permettermi di offrirti un lavoro evitando di restare sul tuo zerbino come un'idiota».
Strusciai il piede contro il pavimento, confusa.
«Perdonami, uhm», farfugliai.
«Nathan», esclamò.
«Nathan, giusto», sibilai «essere amico di Gemma non è una garanzia per far entrare uno sconosciuto nel mio appartamento e inoltre ho già un lavoro».
«Ti ruberò giusto due minuti», continuò «e se dopo avermi ascoltato continuerai a non essere interessata, potrai cacciarmi a calci, lo prometto».
***
«Dovrei scrivere di pasticceria?», esclamai ad occhi sgranati.
«E' da tempo che cerco una persona competente», continuò, giocherellando con le bacchette degli occhiali da sole «in più la raccomandazionie di Gemma è un punto a tuo favore».
Feci per deglutire, spaesata.
«Cosa ti ha detto esattamente?», domandai.
«Che fai la giornalista, ami scrivere e cucinare dolci», replicò «i tuoi articoli sono stati particolarmente convincenti».
«Hai letto i miei articoli di cucina?», balbettai «sono stupidaggini, io».
«Non lo sono», sentenziò, mantenendo lo sguardo nel mio «sono divertenti e incisivi».
Sospirai, allungando la mano verso la caraffa dell'acqua.
«Ancora non capisco», continuai, versandomene un'abbondante dose «qual è il punto?».
«Il punto è che sto cercando di sponsorizzare la mia pasticceria attraverso un blog online. Purtroppo gli eventi di quartiere che organizzo con Gemma non sono più sufficienti, per questo ci siamo incontrati», continuò «mi ha dato appuntamento per parlarmi di una sua idea».
Trangugiai l'intero bicchiere, tremante.
«E questa idea sarei io?», replicai con voce stridula.
Sorrise caldamente, quasi a farmi dimenticare il mio profondo stato di tristezza.
«Questa è la documentazione riguardo paga, contratto e procedure legali», sentenziò, avvicinandomi un plico di fogli evidenziati «in alto trovi il mio numero di cellulare».
Strabuzzai gli occhi, confusa.
«Non so cosa sia successo tra te e Gemma e certamente non mi è dato saperlo», continuò, rientrando nel suo lungo cappotto nero «ma fossi in te farei bene attenzione a non perdere qualcuno che ha così tanta stima per ciò che fai», terminò, chiudendosi la porta alle spalle.
Londra, 31 dicembre 2012.
Lavorare per Nathan era come respirare di nuovo o tornare ad indossare un vestito a fiori soltanto perché hai venticinque anni e una vita intera davanti. Tramutare creme, paste sfoglie e frutti freschi in parole mi rendeva felice e soddisfatta come mai prima d'ora. Il blog stava prendendo forma in maniera sempre più prepotente, i clienti aumentavano e finalmente riscoprivo cosa voleva dire apprezzare realmente le più piccole cose. Nathan era premuroso, divertente e inaspettatamente dolce. Il legame era inevitabile: la chimica, invece, la lasciavo volare verso altre vette. Vette impossibili. Da circa due settimane mi ero trasferita nel suo appartamento, decisa a fare di quel legame una relazione stabile. Diversi scatoloni svettavano ancora intoccati lungo le pareti, mentre inerme li osservavo dal gigantesco letto matrimoniale. Era successo tutto così in fretta. Un nuovo lavoro, un'altra casa, una convivenza. Non sapevo se il mio cuore fosse nuovamente capace d'amare. O almeno, aveva realmente amato? Alcune mattine mi svegliavo con la convinzione che niente fosse accaduto. Soltanto quando il pensiero cominciava a farsi spazio tra le pieghe della coscienza, mi mordevo la lingua per essere stata tanto sciocca da essermi lasciata coinvolgere a tal punto. E così, dopo aver ricacciato indietro qualche lacrima, mi convincevo che il sorriso rassicurante di Nathan era realmente ciò di cui avevo bisogno. Sarebbe stato più semplice per tutti.
«Fissare gli scatoloni non ti aiuterà a svuotarli», esclamò Nathan, facendomi sussultare.
Scossi la testa, abbozzando un sorriso poco convincente.
«Momento autocommiserazione», biascicai «tutto nella norma».
«So che non è facile abituarsi alle novità», continuò, sedendosi al mio fianco e prendendomi le mani «ma non dobbiamo fare niente che non vuoi».
«No, va tutto bene», sentenziai «sei ciò di cui ho bisogno e voglio stare qui con te», e così dicendo posai le labbra sulle sue, abbandonami al suo calore.
«Allora perché non ufficializzare la relazione?», domandò, scrutandomi a fondo «le cose con Gemma stanno lentamente tornando alla normalità e l'invito alla festa di stasera è ancora valido se ci sbrighiamo».
Sospirai, voltando lo sguardo.
«Cosa ti spaventa?», m'incalzò, facendo delicatamente tornare il mio viso al suo.
«Nulla, ho soltanto paura», balbettai «è la prima volta che prendo un impegno simile con qualcuno, non voglio rovinare tutto».
«Andare ad una festa non significa che ci sposeremo», ironizzò «e anche se fosse, di certo non dobbiamo dichiararci stasera».
Sorrisi, sospirando.
«E va bene», conclusi «in fondo non può succedere niente di male».
E invece tutto ciò che poteva andare storto si verificò in quella sera. E fu un disastro.
***
«Ti sembra questo il modo di riallacciare i rapporti?», sbraitai furiosa «invitandomi ad una festa in cui è presente l'unica persona che odio di più al mondo?».
«Ti giuro che non sapevo sarebbe venuto», replicò Gemma, le guance infiammate «si è presentato poco prima che arrivassi e cosa avrei dovuto fare, cacciarlo?».
Tentai inutilmente di replicare, accasciandomi contro il muro della cucina.
«E fra l'altro il termine odio è un tantino esagerato», sussurrò, allungandomi un bicchiere di vino.
Storpiai le labbra, agguantandolo avidamente. E pensare al mio stato di qualche anno prima.
«Laura, ti voglio bene, ma è mio fratello», continuò, versandosene la medesima dose «e per quanto idiota, non lo vedo da un anno».
«Gem, avrei bisogno di...», strillò d'improvviso Harry, il cuore in esplosione.
Ed eccola lì, la mia rovina. La sola ed unica ragione del mio malessere stretta in una camicia nera, una bellezza così pura da stroncare il volo d'una farfalla.
«Harry», sibilai, lasciando immediatamente la stanza e dirigendomi a passi svelti verso il bagno al piano di sopra.
Non feci tuttavia in tempo a chiudermi la porta alle spalle che la sua figura piombò improvvisa e forte come mai prima d'ora.
«Il tempo per scappare è finito», sentenziò, sbattendo violentemente la superficie di legno.
Chiusi gli occhi, inspirando profondamente.
«Cosa vuoi Harry?», balbettai.
«Cosa voglio?», tuonò «voglio che rispondi a quel maledetto telefono e mi permetti di spiegare».
«Spiegare cosa? L'hai già fatto e credimi, le tue giustificazioni sono state più che sufficienti», replicai.
«Dannazione, perché è così tanto difficile perdonare uno stupido bacio?», strillò, il verde dei suoi occhi così scuro a non sembrare reale.
«Stupido bacio?», replicai, la rabbia a montare lenta ma feroce «vuoi ancora farmi credere di aver "sbagliato"?».
Fece per deglutire, respirando faticosamente.
«E poi con quale diritto, dopo un anno, pretendi di essere perdonato?», continuai imperterrita «Harry e il gioco degli inverni: fai il tuo ritorno e speri che tutti ti stiano aspettando felici e inermi come dei soprammobili impolverati».
«Sai benissimo che non è così», replicò a denti stretti.
«E allora forza», strillai «dimmi qual è la verità».
Abbassò lo sguardo al pavimento, la mascella visibilmente contratta.
«Mi hai baciata, mi hai stordito di parole e dopo una settimana ti sei presentato guancia a guancia con la tua fidanzata», gridai «dimmi perché avrei dovuto rispondere al telefono, perché avrei voluto avere un confronto quando era tutto perfettamente chiaro».
«Qualcosa mi dice che ti sei consolata in fretta», stridette.
Inspirai, gli occhi lucidi.
«Non sei ciò che credevo», replicai, e così dicendo imboccai l'uscita, la maniglia della porta a scivolare come panna da un gelato.
«Oh santo cielo», sussurrai, il panico montante.
«Cosa diavolo hai combinato?», strillò, portando gli occhi prima alla maniglia per terra, poi alla porta senza via d'uscita.
«Ho soltanto premuto, insomma, ho cercato di uscire», balbettai, la mente annebbiata.
«Forse hai premuto un tantino troppo?», domandò, passandosi una mano sul volto preoccupato.
«Ok, signorino so-tutto-io», risposi «chi è che per primo l'ha sbattuta tanto forte da magari perché no, romperla?».
«Vuoi stare zitta un attimo?», urlò «siamo chiusi un fottuto bagno».
«Prego?», strillai «mi hai inseguita!».
Scrollò le spalle, scompigliandosi i capelli con le mani. Quelle mani, quegli anelli, quei capelli. Ok, Laura, concentrazione.
«Non ci posso credere», mugugnai, scivolando lungo la parete per poi accasciarmi sul pavimento «prima il matrimonio di mio fratello, ora la festa di Capodanno».
Fece per sospirare, sistemandosi poco lontano.
«Olivia ed io non siamo mai stati niente di serio», prese a parlare «sapevamo che a causa del nostro lavoro non avrebbe potuto funzionare».
«Che peccato», ironizzai, giocherellando con le insenature del parquet.
«Prima di conoscerti, abbiamo ripreso a frequentarci dopo un anno di silenzio», continuò imperterrito «per gioco, per riempire quella solitudine che ci perseguita durante i viaggi per il mondo».
Sospirai, portando lo sguardo altrove.
«Sapevamo cosa significasse, ma il giorno della vigilia di Natale si è presentata in lacrime e in preda a uno dei suoi tanti crolli emotivi», sussurrò «ho voluto darle l'opportunità di sentirsi parte di qualcosa».
«Per esempio della mia famiglia?», domandai furiosa.
«Ho sbagliato a non dirti nulla dei miei precedenti con lei, lo so», replicò «e ho sbagliato a lasciare che le due situazioni si accavallassero».
Inspirò, il labbro tremante.
«Non sapevo cosa significasse la nostra frequentazione, ero confuso, sono confuso», continuò.
«Pensavo il nostro bacio l'avesse dimostrato», sibilai.
«E' così», si affrettò a terminare «ma non mi hai spiegato le tue intenzioni».
Portai lo sguardo ai suoi occhi, confusa.
«Ti piace essere inseguita dai paparazzi? Gli aerei? Le serate in giro per il mondo? Un letto che non è mai tuo? L'instabilità?», domandò seriosamente.
Rimasi in apnea, persa.
«Rivedere Olivia è stato come tornare ad avere una sicurezza», sibilò «la sicurezza che lo starmi vicina non l'avrebbe portata a pentirsi di niente».
«Hai scelto la via più semplice», sentenziai freddamente.
«Non si tratta di questo», continuò.
«Lo è», sottolineai.
«Ho avuto paura», tuonò, prendendomi il viso tra le mani «Laura, quando abbiamo parlato per la prima volta in quella sala è stato come se qualcosa avesse preso a suonare nella mia testa».
«E quel suono è continuato in maniera tanto prepotente da volerti cercare ancora e ancora», proseguì «ma sei preziosa e fragile e la mia vita ti rovinerebbe».
«Non puoi scegliere per me, Harry», balbettai tra i singhiozzi «e non puoi spezzarmi il cuore soltanto perché hai paura o perché sei convinto sia la cosa migliore da fare».
«Non credi che il tuo futuro sia importante? Come potremmo funzionare distanti chilometri?», strillò «mollare tutto non sarebbe la soluzione».
«Non ho bisogno di essere salvata», gemetti «ho soltanto bisogno di sapere che non ho sognato, che anche tu hai provato le stesse sensazioni, lo stesso...».
Ma non feci in tempo a terminare la frase che le sue labbra, contro ogni logica, si fiondarono sulle mie, facendomi sussultare come trafitta da una scossa elettrica.
Per qualche frazione di secondo rimasi immobile contro la sua bocca, terrorizzata, ma senza rendermene conto, incapace di resistere alle centinaia di emozioni contrastanti, risposi d'impeto, lasciando entrare la sua lingua calda e soffice. Esplosione di colori, d'energia, di luci. Le nostre labbra presero ad intrecciarsi, cercandosi freneticamente e nel soffio di qualche istante persi ogni controllo sulla ragione, ciascuna parte di me in completo tumulto. Le sue mani mi presero poi i fianchi, stringendoli leggermente e barcollanti, finimmo per sbattere contro il muro, il dolore dato dal forte impatto ad accrescere la mia confusione. Dio, cosa stavo facendo. Immobile e con gli occhi chiusi, colsi le sue dita scendere, accarezzandomi prima le spalle e poi la schiena. Sospirante, tentai di deglutire, un forte di senso di vertigini a corrodere con violenza le pareti sanguigne.
«Non so cosa sta succedendo», soffiò poi nel mio orecchio, ma noncurante, feci per sbottonare frettolosamente la sua camicia, lasciando spazio ad una visione a dir poco celestiale.
Fuori di me, cominciai a baciare ogni centimetro della sua pelle tatuata, seguendo con le labbra i contorni dei diversi disegni sparsi sul petto, mentre il suo violento ansimare faceva accelerare il battito del mio cuore. Impaziente, mi fece poi stendere sul pavimento e con un movimento fluido mi fu sopra, reggendosi sulle braccia e riprendendo la sua corsa sul mio corpo ormai rovente. Boccheggiante, avvicinai ancor di più il suo viso al mio, tanto che con un gesto lento e morbido fece per entrare in me, creando uno squarcio nel centro del mio stomaco. Non era la mia prima volta, ma mai come adesso, avvertivo quella strana e profonda connessione tra me e qualcun altro. Per quanto fosse sbagliato, in quel momento nulla sarebbe stato in grado di farmi sentire meglio. Grondante di sudore e con occhi lucidi, raggiungemmo entrambi l'apice, abbandonandoci a pesanti sospiri sin quando non fummo in grado di tornare a respirare regolarmente.
E lì, in quell'istante di confusione, li vidi: i fuochi d'artificio che facevano capolino dalla piccola finestra laterale. Il segno di un nuovo anno. Un anno che sicuramente avrebbe cambiato le nostre vite per sempre.
***
Spazio autrice:
Capitolo intenso! (ma dai?) Questa volta lascio a voi i commenti. Meglio che mi astenga dal dare un'opinione, sarei troppo di parte.
Alla prossima!
Laura (quella vera, non quella sdraiata sul pavimento di un bagno con Harry, purtroppo!)
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